lunedì 23 maggio 2016

Il Philip Dick di Carrère


L’uomo caduto sulla Terra che diventò Philip K. Dick 
In “Io sono vivo, voi siete morti” Emmanuel Carrère racconta genio e ossessioni dell’autore che ispirò “Blade Runner”, rivoluzionando la fantascienza
EMMANUEL CARRÈRE Restampa 28 5 2016
Tutto doveva essere nuovo in quel periodo: Nouvelle Vague, New Frontier, Nouveau Roman; le cose cambiavano nome, e da una parte e dall’altra dell’Atlantico i vecchi brontoloni sempre pronti a fare del sarcasmo, con la pipa a mezz’asta e gli occhiali sulla fronte, avevano gioco facile a farsi beffe dei tanti parrucchieri diventati improvvisamente stilisti dei capelli. Con lo stesso zelo la fantascienza
barattò il suo rozzo appellativo con i più rispettabili
speculative fiction, che non voleva dire molto, e new thing, che non voleva dire assolutamente niente, ma almeno lo diceva con maggiore impudenza.
Negli Stati Uniti il più accanito promotore della “nuova cosa” fu Harlan Ellison, ex fan sfegatato divenuto, col sudore della fronte, poligrafo virtuoso ed esperto di pubbliche relazioni. [...] Ellison pensava che Dangerous Visions, la sua antologia manifesto, avrebbe rivoluzionato la letteratura americana. [...] Contattato verso la fine del 1965 dall’entusiasta Ellison, Dick fu felice di sapere che, se c’era uno che non poteva mancare nel manipolo dei pericolosi visionari, quello era senz’altro lui, e con vivo piacere accettò di scrivere il suo autoritratto. Ne veniva fuori la figura di una specie di recluso affabile, circondato da amici, che amava il tabacco da fiuto e gli allucinogeni, Heinrich Schütz e i Grateful Dead, affascinava i suoi giovani amici hippy di modesta cultura parlando di Giovanni Scoto Eriugena e adocchiava tutte le ragazze che gli passavano accanto, sotto lo sguardo indulgente della sua giovanissima, timidissima e graziosissima moglie. L’uomo infelice, tormentato, che a Point Reyes aveva creduto di perdere la ragione nel mondo dominato da Anne e da Palmer Eldritch, si era trasformato, sulla soglia dei quarant’anni, in una sorta di guru bonario, dedito all’uso degli allucinogeni per verificare in prima persona le sue ipotesi teologiche e quelle dei suoi gloriosi predecessori, che ormai citava a ogni piè sospinto, al punto da trasformare anche il più modesto romanzo di fantascienza in un patchwork di epigrafi prese da Boezio, da Meister Eckhart o da san Bonaventura. Pur non avendo più ripetuto la terribile esperienza con l’lsd, si atteggiava a veterano dell’acido e sosteneva come Timothy Leary che «oggi perseguire una vita religiosa senza l’ausilio delle droghe psichedeliche sarebbe come voler studiare gli astri a occhio nudo». Gli piaceva raccontare che un giorno Leary gli aveva telefonato dalla stanza d’albergo di John Lennon, in Canada, dove i Beatles erano in tournée. Sì, ripeteva con aria solenne, rallegrandosi del brivido di incredulità e di ammirazione che suscitava nel suo interlocutore: proprio dalla stanza di John Lennon! I due, completamente fumati, avevano appena finito di leggere Le tre stimmate di Palmer Eldritch e ne erano entusiasti. Era così! Esattamente così!, biascicava Lennon strisciando sulla moquette. Parlava già di farne un film, il film psichedelico, l’equivalente cinematografico del disco a cui stava lavorando:
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Preso alla sprovvista, Dick non aveva avuto il tempo di pensare a un test che gli permettesse di verificare se Lennon e Leary fossero davvero Lennon e Leary e non due mattacchioni che si facevano passare per quegli dèi dell’Olimpo, ma un anno dopo, quando l’album uscì, riconobbe sia il titolo del disco sia quello di una canzone che inneggiava all’acido di cui Lennon gli aveva parlato: Lucy in the Sky with Diamonds.
Da quel momento cominciò ad avere un debole per il name- dropping e si convinse di esercitare sugli altri una sorta di influenza sotterranea, quasi occulta. In effetti, in alcuni ambienti, l’aggettivo dickiano iniziava a essere usato per indicare certe situazioni particolarmente strane e un modo complicato ma preciso di rappresentare il mondo. Stava diventando una specie di parola d’ordine. Giovani non necessariamente appassionati di fantascienza, critici musicali, come Paul Williams, per esempio, o autori di fumetti, come Robert Crumb o Art Spiegelman, nelle loro riviste stampate alla bell’e meglio parlavano di lui come di uno dei geni misconosciuti del loro tempo. [...] Ma non era affatto così spregiudicato come voleva sembrare. In lui l’eresiarca letterario coabitava con il parrocchiano scrupoloso spaventato dall’inferno, di cui aveva gustato un assaggio grazie all’acido. Se in sua presenza qualcuno riduceva le varie apocalissi bibliche a mere allegorie che, proprio come la Genesi, non andavano prese alla lettera, scuoteva la testa con l’aria afflitta di uno a cui sia toccata la sfortuna di sapere e di sapere che gli uomini si nutrono di vane illusioni. Voleva amare Dio, ma più ancora temeva il diavolo. Questa sua religiosità gotica, quando gli capitava di parlarne apertamente, gli veniva perdonata volentieri: era considerata una divertente provocazione, una delle sue tante stravaganze. E in quell’ambiente di agnostici vagamente attratti dal buddhismo non ci voleva molto a sembrare stravaganti; non c’era alcun bisogno di essere pelagiani o albigesi: bastava essere cattolici. Neanche Nancy capì subito che Dick non scherzava quando diceva di essere dispiaciuto perché vivevano nel peccato, visto che il suo matrimonio religioso con Anne non era stato annullato, e non poteva accostarsi alla Sacra Mensa. Gli sembrava che, più che per il divorzio, l’esclusione dall’eucarestia fosse una punizione per il sacrilegio di cui si era reso colpevole mettendola in ridicolo nella sua «messa nera» e che ciò lo privasse della sola protezione efficace nella guerra in cui era impegnato. La nostalgia della vita sacramentale lo spinse a inventare diversi sostituti, fra cui il più curioso, il solo che non sia legato alla droga, è la «scatola empatica» merceriana, intorno alla quale ruota la vicenda secondaria di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (tutto si può dire di Dick, tranne che mancasse di fantasia).

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