Antonio Leotti: Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore, Laterza
sabato 28 maggio 2016
Il porno-ruralismo populista della sinistra postmoderna e la sua critica reazionaria
Che non si sa chi sia più odioso [SGA].
Antonio Leotti: Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore, Laterza
Antonio Leotti: Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore, Laterza
Risvolto
«Non sono neanche a metà del guado, mi chiedo, a dispetto della fulgida
retorica sul ritorno alla sana vita di campagna, se ne uscirò mai
vivo». Il diario sentimentale di un agricoltore alle prese con la vita
quotidiana in una valle. Che è senza nome perché è tutte le valli
d’Italia.
«Una volta, dieci, vent’anni fa, quando dicevi che facevi
l’agricoltore, la gente sorrideva, non diceva niente e, con educata
discrezione e malcelata diffidenza, anche tappandosi un po’ il naso per
il terrore di sentire qualche essenza di puzza che solo la campagna sa
creare, si allontanava e non ti rivolgeva più la parola per tutta la
sera. Forse pensavano che avessimo la pellagra, o che fossimo tutti
alcolizzati, o tarati a causa della consanguineità dovuta all’ignoranza e
alla promiscuità in cui ci pascevamo. Forse temevano che avessimo le
scarpe sporche di fango, o peggio, di merda, e che potessimo lasciare
un’impronta infamante sul tappeto persiano. Comunque, questo va detto,
non era colpa loro: vent’anni fa, la retorica Verde era agli esordi, il
bozzettismo bucolico era appena uscito dai sussidiari per trasferirsi
finalmente in tivù. È vero anche che, in certi ambienti, già si
disprezzava apertamente la retorica del Mulino Bianco, quel ciarpame di
mistica bucolica in salsa toscana col cipressetto di Monticchiello
ripetuto milioni di volte, un Eden di cartongesso che era facile da
criticare, ma ci si limitava a questo: a prendere marxianamente le
distanze dai messaggi della pubblicità, dalle cadute di gusto degli
slogan, non c’era ancora un’ideologia di massa (dovuta a un’incredibile
strategia di marketing inventata da alcuni geniali imprenditori).
Dovevano passare ancora anni prima che, alle cene degli inurbati, gli
agricoltori fossero gratificati dalla deliziata incredulità delle
signore di città. Ma ora ci siamo. Ora siamo eroi. E anche un po’ santi,
sicuramente beati (beato te, beato lei che sta in campagna, qui in
città non se ne può più, mi creda, beato lei!). Mi sfiora il dubbio che
si sia passati da un eccesso all’altro. A voi no? Saremo anche beati, ma
il fatto è che gli agricoltori non ‘stanno’ in campagna, ci vivono e ci
lavorano, cioè traggono sostentamento. Insomma, è il lavoro più bello
del mondo, l’ho scritto e lo confermo, ma in fondo è un lavoro come un
altro.»
Burocrazia, tasse, consorzi inutili inventati per piazzare amici degli amici. Una denuncia (ma divertente) sulla vita nei campi
Camillo Langone Giornale - Sab, 28/05/2016
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