lunedì 30 maggio 2016

Il saccheggio dei beni ebraici nell'Europa occupata dai nazisti


Piacerebbe uno sforzo uguale per quei popoli che non sono stato cooptati in Occidente [SGA].

Jan Tomasz Gross: Un raccolto d'oro. Il saccheggio dei beni ebraici, Einaudi

Risvolto
Una testimonianza impressionante dell'ampiezza del saccheggio dei beni ebraici durante e dopo la Seconda guerra mondiale: la depredazione sistematica di un'intera società.
Tutto inizia da una fotografia di gruppo. A prima vista la scena appare familiare: contadini che si riposano dopo il lavoro della mietitura. Ma quando ci accorgiamo con orrore che il raccolto disposto ai piedi del gruppo è fatto di ossa e di teschi umani, il senso di smarrimento cresce. Si tratta di un raccolto di un genere molto differente. Il punto di partenza di Un raccolto d'oro, ritrae, effettivamente, un gruppo di persone sulla collina formata dalle ceneri degli ottocentomila ebrei gassati e cremati a Treblinka tra il luglio 1942 e l'ottobre 1943. L'occupazione di coloro che vediamo nella foto è molto probabilmente quella di scavare tra i resti umani alla ricerca dell'oro e dei beni preziosi sfuggiti agli assassini nazisti. Anche a guerra finita, scavatori andavano alla ricerca di oggetti di valore delle vittime che i nazisti potevano aver tralasciato. La storia racchiusa in questa fotografia in bianco e nero, scattata poco dopo la guerra, e pubblicata sul principale quotidiano polacco nel 2008, simboleggia il saccheggio dei beni ebraici che, nell'intero continente europeo, è andato di pari passo con la Shoah. La spoliazione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale ha generato occasionalmente attenzione quando banche svizzere sono state forzate a produrre liste dei beni occultati o musei nazionali sono stati costretti a restituire opere d'arte trafugate. Ma il furto dei beni della popolazione ebraica europea non è stato appannaggio del solo regime nazista. Esso è stato perpetrato anche dalla popolazione locale, come quella ritratta nella fotografia.                   
Ultimi vennero i polacchi 
Storia . Già accusato di lesa nazione, Jan Tomasz Gross documenta, con Irena Grudzinska Gross, i saccheggi dei lager e le vessazioni sugli ebrei da parte di una popolazione anch'essa vittima dei tedeschi: «Un raccolto d'oro», Einaudi

Valentina Pisanty Manifesto Alias 29.5.2016, 6:00 
Chi si fosse chiesto perché Art Spiegelman, in Maus, abbia rappresentato i polacchi come porci (peggio, no?, che i tedeschi come gatti) lo capirà leggendo Un raccolto d’oro Il saccheggio dei beni ebraici di Jan Tomasz Gross e Irena Grudzinska Gross, docenti di Princeton emigrati dalla Polonia nel 1968. Non è un fumetto, non racconta lo sterminio dalla prospettiva di un’unica famiglia, non ricorre all’espediente del testimone secondario, sconvolto dal trauma del sopravvissuto; ma con Maus il saggio dei Gross condivide l’ambientazione (la Polonia occupata), la tipologia dei personaggi (il triangolo ebrei-nazisti-polacchi) e soprattutto la cornice interpretativa, in stridente contrasto con le narrazioni auto-assolutorie della Polonia post-bellica (a scuola raccontano che i polacchi aiutavano gli ebrei a salvarsi). 
«Sono quei nazisti a incitare la gente!», si difende la domestica polacca di Vladek e Anja Spiegelman alla notizia di una sommossa antisemita patrocinata dalla polizia locale. «Se si tratta di ebrei non c’è molto da incitarli, i polacchi!», risponde Anja. Altrettanto severo è il giudizio storico dei Gross. Già dalla fotografia da cui trae avvio l’analisi – una sorta di foto-ricordo, probabilmente scattata nei dintorni di Treblinka nell’immediato dopoguerra – l’attenzione è indirizzata verso un particolare sconcertante. I soggetti, un gruppo di contadini e contadine della Masovia, hanno l’aria di chi ha concluso proficuamente una giornata di lavoro; vanghe in mano, si dispongono su due file in posa per lo scatto, un po’ impacciati, mentre otto soldati in divisa si uniscono alla compagnia, al lato, come se avessero collaborato alle attività del giorno. Ma – è questo il particolare sconcertante – ai piedi della comitiva, là dove ci si aspetterebbe di vedere il raccolto, balugina un mucchio di ossa e di teschi umani. Dato il luogo, non è difficile intuire a chi appartengano i resti, e immaginare le ragioni del loro disseppellimento: con ogni probabilità i contadini cercavano i denti d’oro e altri preziosi sfuggiti ai nazisti. 
Il saccheggio dei lager dismessi è una pratica ampiamente documentata dalle testimonianze dell’epoca. «Una volta arrivati sul posto, abbiamo constatato che là dove prima sorgeva il lager c’era ora un campo tutto pieno di scavi e di solchi a opera della popolazione locale», scrissero Michal Kalembasiak e Karol Ogrodowczyk in un rapporto del 13 settembre 1945. Nel corso di un’indagine sui crimini tedeschi Rachela Auerbach registrava un’analoga testimonianza, mentre definiva Treblinka «il Colorado polacco». Altri documenti riportano le parole degli scavatori stessi, stupiti per l’accusa di furto dal momento che alla febbre dell’oro ebraico partecipavano tutti, alla luce del sole, inclusi alcuni soldati sovietici. 
La ricostruzione procede a ritroso nel tempo per capire da dove scaturisse la serafica ammissione di una fattispecie di reato che, dalla distanza di sicurezza che ci separa dagli eventi, appare particolarmente infame. 
L’elenco dei misfatti è impressionante: dal mercato nero all’interno dei campi – dove le guardie spacciavano la roba sottratta alle vittime in cambio di vodka, cibo e prestazioni sessuali fornite dalle popolazioni locali – al commercio di secchi d’acqua venduti a peso d’oro ai deportati ancora chiusi nei vagoni in arrivo, sfiniti dal viaggio e in procinto di essere mandati nelle camere a gas; dalle delazioni ai ricatti e alle estorsioni cui venivano sottoposti gli ebrei nascosti (spesso a pagamento) nelle campagne e nelle città; dai saccheggi di negozi e di abitazioni ebraiche alle battute di caccia nei boschi, fino all’eccidio di intere famiglie, talvolta con la collaborazione della polizia e dei vigili del fuoco. 
In uno degli episodi meno truci, tra quelli riportati nel libro, Chaja Finkelsztajn racconta di come, subito prima del pogrom di Radzilow, una vicina di casa le suggerì di darle le sue cose migliori, visto che di lì a poco non le sarebbero più servite. 
Una richiesta frequente, a quanto pare, generalmente seguita da reazioni sdegnate da parte dei postulanti quando le vittime si rifiutavano di collaborare alla propria spoliazione. 
«Peggio dei tedeschi», commentano molti ebrei (incluso Vladek Spiegelman) nel rievocare simili vessazioni. Chiaramente non è vero: nulla è peggio dello sterminio realizzato su base industriale. Tuttavia si capisce da dove nasca questo giudizio, iperbolico solo in quanto l’altro termine di paragone – l’efferatezza nazista – eccede qualsiasi scala di valori. Tenuto conto che l’unica possibilità di salvezza per i singoli ebrei passava attraverso la collaborazione delle popolazioni locali (dopotutto si trattava di un paese invaso da un nemico comune), il tradimento dei vicini di casa doveva risultare oltremodo doloroso, specie alla luce della meschinità dei suoi moventi. 
Com’è stato possibile che interi villaggi partecipassero a massacri come i «casi d’agosto» del 1944, quando 250 persone furono accusate dell’uccisione di centinaia di ebrei clandestini per mezzo di armi da fuoco, asce e paletti di legno? Ed è solo la punta dell’iceberg, vista la riluttanza nazionale – anche dopo la guerra – a perseguire quel tipo di crimini. «Non è il numero delle vittime, ma quello degli assassini che ha un significato eloquente», osservano i Gross. Un sostrato di pregiudizio antigiudaico, alimentato dalle consuete accuse di deicidio, di rapacità economica e di attitudine alla cospirazione, giustificava tanto le azioni più sanguinarie quanto i reati contro il patrimonio, che alcuni motivavano con argomenti patriottici (meglio a noi che ai nazisti), nella convinzione diffusa e a malapena sottaciuta che, almeno sul piano della degiudeizzazione, i tedeschi avessero fatto un favore alla Polonia.
Secondo l’interpretazione ufficiale, le violenze antiebraiche furono eccezioni, comportamenti devianti acuiti dal caos della guerra. Diversa la lettura suggerita da Un raccolto d’oro. Pur riconoscendo che non si trattò di fenomeni esclusivamente polacchi (Ucraina e Lituania non furono da meno), e pur mantenendo aperto il computo comparativo di vittime, carnefici e Giusti (perché, sì, in mezzo a tanti obbrobri c’era anche chi aiutava gratuitamente gli ebrei a nascondersi), i Gross insistono sul carattere sistemico e culturalmente normato di queste pratiche, talmente radicate nella storia del paese – complice una Chiesa in larga parte accondiscendente – da impedire che oggi se ne possa discutere senza incorrere in sanzioni. 
Già nel 2001, quando uscì I carnefici della porta accanto (Mondadori 2002) sul pogrom degli ebrei di Jedwabne nel 1941, Jan Gross si era trovato al centro di un tesissimo dibattito nazionale. Da una parte la discussione inaugurò un nuovo filone di ricerche, confluite nella creazione del Centro di Studi sull’Olocausto in Polonia. Ma dall’altra ravvivò antichi rancori, destinati a infoltire il fronte catto-nazionalista, ostile a qualsiasi indagine che mettesse in dubbio il racconto eroico di un paese resistente e vittimizzato. Gross fu accusato di tradimento e sottoposto a campagne d’odio (migliaia di lettere inviate al Presidente per chiedere che gli venisse tolta l’onorificenza di cui era stato insignito nel 1996 in virtù della sua passata militanza antisovietica). Di lì a poco Diritto e Giustizia, il partito dei gemelli Kaczynski nel frattempo salito al potere, varava nuove leggi della memoria a tutela della reputazione nazionale. I paragoni col negazionismo di Stato in Turchia non sono fuori luogo. 
C’è una coda a questa vicenda. Nel settembre del 2015 Gross pubblicò un articolo sull’egoismo dell’Europa orientale nei confronti dei migranti. Tra i paesi refrattari all’accoglienza figurava la Polonia, inizialmente disposta a ricevere 2000 rifugiati, purché cristiani. Una parte consistente dell’opinione pubblica insorse con toni decisamente xenofobi. Da dove veniva quella nuova ondata di intolleranza? Secondo Gross essa era il sintomo di una mancata elaborazione del Trauma, lo strascico lungo di una colpa storica negata. E sebbene, a riprova della sua buona volontà europeista, la Polonia sia stata tra i primi paesi a istituire leggi anti-negazioniste simili a quelle che purtroppo stanno per essere approvate in Italia, c’è un nesso tra l’attuale populismo vittimistico e gli sfoghi razzisti di cui si legge in Un raccolto d’oro. 
L’articolo venne ripreso da Die Welt che diede rilievo all’osservazione secondo cui «i polacchi, giustamente orgogliosi della loro resistenza anti-nazista, in effetti uccisero più ebrei che tedeschi durante la guerra». Per le autorità era davvero troppo. In base alle leggi vigenti, Gross fu accusato di lesa nazione, reato passibile di una condanna sino a tre anni di reclusione. Il monito che se ne ricava è chiaro: mai lasciare che lo stato decida cosa e come è giusto ricordare. La storia cura, la memoria ammala.

Lo sterminio degli oggetti
Jan Gross documenta la ricerca dell’oro e altri beni preziosi tra teschi e ossa dissotterati a Treblinka da contadini polacchi
Luzzatto domenicale 19 6 2016
La fotografia non è datata, ma risale all’immediato dopoguerra, 1945 o dintorni. Prima di finire (recentemente) nel museo di Treblinka, in Polonia, apparteneva a un abitante del vicino villaggio di Wólka Okraglik. La foto mostra un gruppo di gente del posto, uomini e donne, contadini e contadine della Masovia armati di pale e di vanghe, insieme con alcuni poliziotti. È una foto-ricordo. Il gruppo di paesani si è radunato intorno ai frutti di un raccolto ordinatamente disposto davanti a loro. A un primo sguardo si direbbero zucche, o cocomeri. A guardar meglio, si riconosce che il raccolto è fatto d’altro. È un raccolto di teschi e di ossa. Frutti dissotterrati, evidentemente, nel gibboso campo lì intorno. Nel terreno formato dalle ceneri degli ottocentomila ebrei gassati a Treblinka fra il luglio 1942 e l’ottobre 1943. 
Studioso polacco emigrato da tempo negli Stati Uniti, Jan Gross ha costruito sopra una lettura di questa foto il libro Un raccolto d’oro (Einaudi). Più che una monografia, un saggio sul nesso storico esistente fra la distruzione degli ebrei d’Europa e l’appropriazione della loro roba. I paesani della foto-ricordo valgono da sineddoche, sono la parte per il tutto. Appartengono a un piccolo esercito di zappatori che nella Polonia “liberata” dall’Armata rossa dissotterravano i resti degli ebrei nella speranza di trovar loro addosso – ancora – qualche bene prezioso. Capsule dentarie d’oro, o gioielli nascosti dai morituri in chissà quali orifizi corporali e sfuggiti alle ispezioni effettuate dalle SS sulla soglia delle camere a gas.
Fin dal marzo 1939 (con anticipo, dunque, sull’inizio della Seconda guerra mondiale) il governo del Terzo Reich aveva imposto agli ebrei tedeschi la consegna di tutto il loro oro, argento e platino. Dopodiché, il grosso dei preziosi che gli ebrei d’Europa avevano portato con sé nel loro viaggio verso i campi di sterminio dell’Est era stato rimesso alla Banca del Reich, dal 1942 al ’44, attraverso svariate decine di spedizioni ad hoc. In Germania, il nesso fra la sistematica distruzione degli ebrei e la loro sistematica depredazione aveva assunto plastica evidenza nella duplice attività della Degussa: un’azienda chimica di Essen che deteneva – insieme – la licenza statale di fondere, purificare, commerciare i «metalli ebraici», e il brevetto per la produzione dello Zyklon B, l’acido prussico delle camere a gas di Auschwitz.
«Nel paesaggio dello sterminio degli ebrei», ragionava già nel 1946 Rachel Auerbach, eccezionale figura di partigiana-archivista sopravvissuta all’insurrezione e alla liquidazione del ghetto di Varsavia, «lo sterminio degli oggetti occupa un posto eminente. La tragedia e il maltrattamento delle cose uguagliavano la tragedia e il maltrattamento degli uomini». Difficile darle torto, scoprendo nel libro di Gross – ad esempio – lo zelante lavorìo delle diverse migliaia di funzionari che operarono per settimane tra le rovine fumanti del ghetto a trasportare le masserizie lasciate dagli ebrei, ad accumularle in depositi, chiese, sinagoghe, a organizzarne lo smercio. Cioè la svendita ai polacchi «ariani» di Varsavia.
Nella Polonia occupata dai nazisti ebbe luogo, secondo Jan Gross, una mutazione etico-antropologica: una variazione strutturale delle norme che regolavano i comportamenti accettabili nei confronti degli ebrei. Allo sguardo degli ariani polacchi, gli ebrei non parvero più (come disse un altro partigiano-archivista del ghetto, Emanuel Ringelblum) che «defunti in licenza». Morti solo provvisoriamente viventi, che era perfettamente lecito depredare di ogni cosa, dalle abitazioni ai negozi, dai terreni ai laboratori, dai gioielli ai vestiti. Si calcola che furono mezzo milione, all’indomani della guerra mondiale, i passaggi di proprietà riconosciuti come legali: le successioni di beni dagli ebrei polacchi morti agli ariani polacchi vivi. E si stima a diverse centinaia di migliaia il numero di ebrei polacchi assassinati – durante la guerra, e anche dopo – non dagli occupanti tedeschi, ma dagli occupati polacchi.
Prima di riunirsi davanti all’obiettivo di un fotografo dilettante con un bel raccolto di teschi e di ossa, era capitato ai polacchi di riunirsi per le cosiddette «battute di caccia» contro gli ebrei loro vicini di casa. Così nel villaggio di Jedwabne (non lontano da Treblinka), in un pogrom del luglio 1941 che Jan Gross ha consegnato – in un altro suo libro – alla storia della Soluzione finale; così in tanti villaggi della Polonia profonda. Ed era capitato ai polacchi di raccogliersi numerosi intorno alla stazione ferroviaria di Treblinka, per vendere bicchieri d’acqua agli ebrei assetati dentro i vagoni piombati, passeggeri ignari di essere ormai giunti a destinazione. O per alimentare, nei paesi del circondario, tutto un piccolo indotto dello sterminio. «Gli orologi da polso venivano allora venduti a dozzine per due soldi, tanto che i contadini locali li portavano nei cesti per le uova».
Finita la guerra, i cosiddetti «dentisti» al lavoro presso le fosse comuni dei campi di sterminio – a Treblinka, a Belzec, a Sobibór – non fecero che riprendere questa stessa politica economica, con altri mezzi. Dal rapporto di un pubblico ufficiale in missione a Treblinka, 13 settembre 1945: «Sotto ogni albero c’erano buche scavate dai cercatori d’oro e di brillanti. Il fetore di cadaveri e di gas era così aggressivo da far venire a me e al mio collega il vomito e un’irritazione terribile alla gola. Inoltrandoci nell’area, abbiamo incontrato della gente calata nelle fosse a scavare. Alla nostra domanda “cosa state facendo?” non hanno dato nessuna risposta». Dal verbale di un poliziotto del commissariato di Belzec, 10 ottobre 1945: «Dopo la fuga dei tedeschi la polizia locale ha cercato d’impedire gli scavi nell’area del campo, ma è difficile porre rimedio al problema, perché appena cacci via un gruppo di persone ne arriva subito un altro».
Chissà se la domanda rivolta agli zappatori dai pubblici ufficiali – cosa state facendo? – fu mai rivolta dai sacerdoti delle chiese di Polonia ai «dentisti» loro parrocchiani: altrettanti buoni cattolici, presumibilmente, che non mancavano di confessarsi prima della messa della domenica. Di sicuro, quando il parroco di un paesello vicino a Treblinka volle pronunciarsi sugli scavi compiuti nel cimitero delle ceneri, si guardò dal biasimarli. «Que lle sono tombe ebraiche, e denti d’oro o gioielli non dovrebbero restare sepolti» è quanto si sentirono dire, dal pulpito, i battezzati del villaggio di Jasienica.
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