domenica 15 maggio 2016

La nuova traduzione del Doktor Faustus di Thomas Mann

Doctor Faustus NUOVA EDIZIONE
Thomas Mann strinse un patto col diavolo. E scrisse il capolavoro
Esce l'edizione definitiva di «Doctor Faustus» il libro che ritrae le ambiguità del XX secolo


Faustus scende all’inferno

Esce per Mondadori il romanzo di Thomas Mann nella nuova traduzione di Luca Crescenzi Il patto con il diavolo di un musicista sterile e follemente ambizioso nella tragedia tedesca del XX secolo

Corriere della Sera  7 mag 2016 Di Giorgio Montefoschi
«Vengo a parlare d’affari», dice il diavolo a Adrian Leverkhun, protagonista del Doctor Faustus — il romanzo di Thomas Mann che oggi rileggiamo nella magnifica nuova traduzione di Luca Crescenzi — quando, improvvisamente, si materializza sul divano della casa di Palestrina nella quale il giovane musicista tedesco si è ritirato per concentrarsi nel lavoro, insieme all’amico poeta Rudiger Schildknapp. È un ometto basso, cereo (simile a quello che compare sulla panchina del Maestro e Margherita), coi capelli rossicci, un naso ricurvo, un berretto sportivo, scarpe gialle, una ridicola giacca a quadri. La sabbia nella clessidra che misura il tempo della tua vita — spiega a Adrian con quella sua voce articolata da attore che accompagna il gelo — ha incominciato a scorrere. La nostra offerta è il tempo. Noi vendiamo tempo. Diciamo, 24 anni di suprema illuminazione creativa, di sfrenatezza intellettuale, di potenza, di trionfo, e in aggiunta di ammirazione per ciò che realizzerai. La tua ispirazione sfonderà i limiti, le convenzioni e le rigidità della cultura; avrai il coraggio della barbarie; sarai rapito dal brivido del sublime; verserai fiumi gioiosi di lacrime. In cambio, non dovrai amare nessun essere umano. L’amore — se accetti il nostro patto — dovrà essere escluso dalla tua vita. Ma questa è la sola esistenza possibile per una mente superba e orgogliosa come la tua, desiderosa di raggiungere l’estasi. Adrian è sconvolto. «Quello che mi preparate su questa terra», chiede all’ometto che, intanto, ha mutato sembiante due volte, «non è un anticipo dell’inferno?». Poi, perde i sensi.
È la scena culminante e terribile (altre, terribili, seguiranno) del più grande e meraviglioso libro sulla hybris — la parola greca intraducibile, nella quale si concentrano la superbia, la sfida, l’ardire, l’arroganza dell’uomo — che sia stato scritto nel Novecento. «Il mio proposito», rivela Thomas Mann nella Genesi del Doctor Faustus (anch’essa inclusa nel Meridiano), «era scrivere il romanzo della mia epoca travestito da storia di una esistenza precaria e sommamente peccaminosa». L’epoca è la metà del secolo scorso: quella delle due Guerre mondiali, e della catastrofe tedesca che si concluderà «nel nulla, nella disperazione, in una bancarotta senza precedenti, in una vera discesa all’inferno, circondata da una ridda di fiamme assordanti » . Adrian Leverkhun è l’uomo che denuncia se stesso per denunciare il Faust che è in ognuno di noi; l’artista sterile e follemente ambizioso che, per vincere la sua pochezza, si consegna al demonio. «Quanta atmosfera della mia vita», rivela ancora Mann «è contenuta nel Faustus. In fondo è una confessione radicale. Leverkhun è una figura ideale. Ero innamorato di lui, in ansia per lui, impazzivo per la sua freddezza, per il suo cuore disperato, e per la sua convinzione di essere dannato». Sono i medesimi sentimenti che muovono Serenus Zeitblom, il mite insegnante di materie classiche, amico fin dall’infanzia di Adrian, al quale — nel solco fondamentale dell’ambiguità e del doppio registro che, come nota Luca Crescenzi, attraversa in ogni sua piega tutto il romanzo — l’autore affida, con la distanza indispensabile a non soccombere, il peso del racconto.
Il racconto — al quale Zeitblom comincia a metter mano mentre la dittatura nazista è vicina al tracollo — si apre con una stupenda luce infantile e antica: quella della fattoria di Buchel in cui Adrian nasce alla fine dell’Ottocento, con le stanze foderate di legno, l’odore della pipa fumata dal padre appassionato dei misteri della natura, il cortile quadrato al centro del quale sorge il maestoso tiglio; quella della piccola città di Kaisersaschern, nella quale Serenus e Adrian frequentano la scuola, con le travature a vista degli edifici gotico-rinascimentali, le torri, le chiese e, nell’aria, il retaggio dell’isteria medievale che induce a credere nei fantasmi e nelle streghe; quella dell’università di Halle, dominata dai severi professori luterani, nella quale Adrian frequenta la facoltà di teologia; quella delle montagne della Baviera, teatro delle scampagnate studentesche che di notte si concludono, a candele spente, con infinite discussioni sul Bene e sul Male, sulle tentazioni della carne e sul peccato, sul cosmo e su Dio. È la luce della Germania millenaria; dei suoi miti; delle sue foreste. Non passeranno molti anni, e questa luce si trasformerà nel buio di una prima, fatale sconfitta; nel grigio cupo del rancore e della rivalsa; nei chiaroscuri dell’ansia. Finché, a quella che erroneamente sarà considerata dai tedeschi una rinascita popolare, al presunto nuovo inizio purificatore, si mescolerà una quantità spaventosa di «selvaggia rozzezza, di volgarità aggressiva, di lurida brama dell’oltraggio». E la colossale ebbrezza, di cui il popolo tedesco si ubriacherà, dovrà essere scontata con l’umiliazione e la fine.
Adrian, nel frattempo, ha abbandonato la teologia e, con la guida dell’organista Wendell Krettzschmar, si è letteralmente gettato nelle braccia della musica. Ha studiato Monteverdi, ha orchestrato brevi brani per pianoforte di Schubert e Beethoven; ha ascoltato il Fidelio («Quasi una imitazione di Dio»), Mahler e Brahms; si è sperimentato nel lied. L’idea che ha nella mente e sente di voler seguire (una idea per la quale Mann si è ispirato, come è scritto in calce nel libro, a Schönberg, frequentato insieme ad Adorno e Stravinskij nell’esilio americano) ha la sua base nella polifonia e nella dissonanza. «La dissonanza è l’indice della sua dignità polifonica. Quanto più dissonante è un accordo, quante più note contrastanti e di diverso effetto esso contiene, tanto più è polifonico». Sarà la musica delle sue opere maggiori, l’Apocalypsis cum figuris e il Lamento dr. Fausti, nelle quali la più grande beatitudine coinciderà con il massimo dell’orrore, e i cori angelici non saranno altro che «echi di risate infernali».
Ora, il musicista è un adulto. Conserva la predisposizione a un riso liberatorio che aveva da bambino, ma sempre più i suoi occhi (che hanno una tinta indefinibile: fra il grigio, il verde e l’azzurro) scrutano in lontananza, e il loro crepuscolo si colma di «ombre più profonde». A Lipsia, per uno sciocco scherzo, è entrato in un bordello. Una donna bruna, con una grande bocca, gli occhi a mandorla, Esmeralda, gli ha carezzato una guancia. Lui è fuggito sconvolto. Quindi è tornato a cercarla e siccome non l’ha trovata si è fatto dare l’indirizzo; profittando della prima esecuzione della Salome di Strauss a Graz, è andato a trovarla nel paesino ungherese in cui si è ritirata ammalata; nonostante i suoi ammonimenti, si è lasciato infettare. È la malattia, da cui nascono le creazioni del genio che pretende di sfiorare l’Eterno, preparata dal diavolo per arruolarlo nelle sue schiere e, dopo 24 anni di estasi, distruggergli il cervello.
«Vado in cerca di un luogo in cui possa seppellirmi dinnanzi al mondo e conversare indisturbato con la mia vita e il mio destino», confida Adrian a Serenus. Questo luogo — una fattoria a Pfeiffering simile a quella dell’infanzia — può anche esistere. Quella che è sparita, se mai ne è transitata nella sua anima una scintilla, è la pace. Adrian, ammirato e ricercato, è costretto a vivere nel mondo, a frequentare i concerti, a dividere con tutti i personaggi maschili e femminili che lo assediano, il suo tempo (e questa è la parte diciamo così «borghese» del romanzo, con quei salotti decorosi, quei tram di Monaco di Baviera, quegli altri veleni sparsi attorno a lui dal demonio, che più amiamo). Si illude persino di potersi sposare, inoltra una goffa proposta di matrimonio, ed è respinto. La malattia incalza fino a costringerlo a fuggire la luce. E il suo padrone mena l’ultimo colpo. A Pfeiffering arriva il nipote, il piccolo Nepomuk, di sei anni. È un bambino bellissimo: un angelo sceso dall’alto. Lo zio se ne innamora. Ma ha dimenticato il patto: non può amare nessuno. E il diavolo glielo toglie. Nepomuk si ammala e muore: «Prenditelo, mostro!», grida Adrian davanti a Serenus Zeitblom.
Siamo così alla fine. Adesso il compito di Serenus è quello di raccontare la morte, mentale e poi fisica, dell’amico che ha sfidato Dio. Intanto, la Germania è allo stremo; le città sono un cumulo di macerie; i topi ingrassano con i cadaveri. E i tedeschi sono obbligati sfilare nei lager e a vedere coi loro occhi l’abisso.


Irresistibile Doctor Faustus
La nuova traduzione di Crescenzi, come quella di Pocar, infonde energia e nobiltà. Ridicolo pensarle rivali: sono alleate

Quirino Principe Domenicale 15 5 2016
Quando apparve nel 1947, Doktor Faustus, travolgente per invenzione letteraria e di atroce realtà storica, incalzante come un implacabile meccanismo a orologeria, fu presto il vademecum di adolescenti e di studenti universitari. Ne derivò uno stato d’animo diffuso che la mediazione di un traduttore a noi amico e maestro, Ervino Pocar, contribuì a suscitare nei lettori italiani. Con amarezza, notavamo alcuni mesi or sono come i giovani italiani non leggano più Thomas Mann. Perciò sono più poveri. Ora esce, nella magnifica veste dei “Meridiani” di Mondadori, una nuova traduzione del romanzo, realizzata, per impulso di Renata Colorni, da un germanista di alta classe qual è Luca Crescenzi. Ci auguriamo che Lucifero, benefico protettore dell’intelligenza, della bellezza, delle arti, delle virtù civili e della libertà di giudizio, ci liberi dall’obbrobrioso nascere di opposte fazioni, pro-Pocar e pro-Crescenzi, e di concitati confronti. Leggendo Doktor Faustus nella traduzione di Pocar (1956), fummo investiti dall’onda di una vicenda nobile e paurosa, seducente e devastante. Cercammo notizie sulla figura storica di Johann Faust, nato forse a Knittlingen in Svevia (o a Roda, o a Helmstedt presso Heidelberg…) in un anno compreso tra il 1466 e il 1480, noto ai più come alchimista, sospettato di magia nera cui di fatto dedicò studi occulti all’Università di Heidelberg, implicato in terrificanti e innominabili esperimenti, morto probabilmente a Staufen im Freising nel 1540 o 1541, vittima di un’esplosione da lui incautamente provocata nel suo Studio.. e . ci coglie una forte emozione nello scrivere quella parola evocatrice di un luogo in cui vorremmo essere ora. Poi, la nostra lettura delle prime fonti scritte: Johann Spies, di Francoforte sul Meno, autore e stampatore nel 1587 della prima Cronaca faustiana che già nel titolo indica il rapporto con il Diavolo; Chistopher Marlowe, che un anno dopo, nel 1588, scrisse la terrificante Tragical History; e Goethe, Lessing, Klinger, Lenau, Grabbe che unì la sorte di Faust a quella di don Juan, e le versioni musicali, con predilezione per le Scenen di Schumann. 
L’emozione di cui subito fummo grati a Pocar è ancora incancellabile. Poco dopo, mentre ancora eravamo all’Università, ci procurammo l’edizione tedesca e leggemmo il testo di Thomas Mann in originale. Ma ora, la traduzione di Crescenzi ci riporta a quella sfera di emozioni, e le inevitabili diversità testuali rispetto a Pocar sono direttamente proporzionali al rinnovarsi “diverso” ma non “estraneo” della scossa elettrica che ci investe quando ripercorriamo le paurose coesistenze tra la leggendaria vita universitaria tedesca e il patto con Samiel angelo del veleno; tra le conversazioni altamente intellettuali e d’incomparabile fascino e le tenebre sataniche che s’insinuano nelle composizioni musicali di Adrian Leverkühn (“Leverkühn”, colui che vive pericolosamente, notava Hans Mayer). Simili accostamenti suscitano scintille e generano abissi. La metafora principale e dai più assunta a chiave di lettura, l’infernale patto della Germania con Hitler, scivola in secondo piano. 
La cultura, e la civiltà che ne consegue, sono fatte di traduzioni, di traduzioni delle traduzioni, di traduzioni di volta in volta diverse. Queste ultime, legittime e necessarie, non sono tali in quanto «adatte al mutar dei tempi e alla nostra epoca che non è più…», eccetera, sull’onda di simili stolide banalità. Sono necessarie e legittime poiché, semplicemente, il lavoro del traduttore è arduo e meraviglioso, e la civiltà è viva quando molti ne sono attratti, e su quel terreno impegnano le loro armi sfolgoranti: le conoscenze, l’intuito e la sensibilità linguistica affilati e aguzzati dalle conoscenze, l’intelligente visione della cultura (e dell’universo) aguzzata e affilata dall’intuito, e tutto questo illuminato e ravvivato da un esercizio d’arte perseguito durante tutta la vita. La traduzione di Crescenzi ha un altissimo significato culturale, ed è questo che conta. La traduzione di Pocar poco importa se sia “superabile” o “insuperabile”: anch’essa ha un altissimo significato. I nemici sono esterni, sono al di fuori dell’eccellente esercizio della letteratura: sono insediati sugli scranni, sui pulpiti, dietro odiosi sportelli e transenne. Due traduzioni che abbiano infuso, in epoche diverse, energia e nobiltà, non possono essere rivali, ed è ridicolo pensarlo. Possono essere soltanto alleate contro il nemico. Siamo stati commossi e moralmente irrobustiti dal finale del romanzo nella traduzione di Pocar: «Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria! ». Oggi, la traduzione di Crescenzi duplica la commozione e il vigore della resistenza contro lo svigorimento dell’Occidente: «E quando un miracolo che va oltre la fede farà sì che la luce della speranza possa esser tratta dalla più estrema delle sciagure? Un uomo solitario giunge le mani e prega: Dio abbia misericordia delle vostre povere anime, amico mio, patria mia!». In una catena di generazioni, ogni nuova traduzione si rivela necessaria, ogni traduzione precedente conserva la propria necessità. Nei nostri scaffali, si è creato un irrinunciabile raddoppio.
Merito della nuova edizione è anche l’avere riunito in volume unico Doktor Faustus e, sempre nella traduzione di Crescenzi, Roman eines Romans, die Entstehung des «Doktor Faustus» (1949), già tradotto da Pocar e uscito per Mondadori nel 1952 (Romanzo di un romanzo, la genesi del «Doktor Faustus»). Altro confronto? Altra controversia?
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