domenica 15 maggio 2016

La renitenza spontanea delle famiglie italiane al macello imperialista durante la Prima guerra mondiale

Luigi Botta: Figli, non tornate! (1915-1918). Lettere agli emigrati nel Nord America  Aragno

Risvolto

La chiamata alle armi degli emigrati destinati alle trincee del primo conflitto bellico mondiale trova nei sovversivi e negli anarchici i più convinti oppositori. Nel Nord America l’attivismo antagonista ruota intorno al giornale «Cronaca Sovversiva», un ebdomadario settimanale che si pubblica dal 1903 ed è animato da Luigi Galleani, battagliero oppositore al potere costituito. Il periodico è un riferimento per gli operai italiani ed è diffuso attraverso i Circoli di Studi Sociali. Allo scoppio della guerra il giornale divulga un appello firmato dalle madri di Palermo. Ha per titolo «Figli, non tornate!». Un documento che invita alla renitenza e diventa il simbolo di una battaglia contro la guerra e contro la chiamata alla leva.



Le lettere delle madri italiane «Meglio emigrati che soldati »
Corriere della Sera 8 mag 2016 di Gian Antonio Stella
L’emigrato Francesco Fazio fu raggiunto dalla notizia che la Patria lo cercava per mandarlo al fronte mentre stava da qualche parte dell’America. Forse ci credeva davvero, nella Patria. Forse nella contrada statunitense dove aveva trovato lavoro non arrivava il puzzo della morte e la Grande guerra gli sembrava così lontana da non mettergli spavento. (…)
Certo è che Francesco, che era sbarcato sul suolo americano nel 1906 (…) tornò. E venne ingoiato dalla grande mattanza. Quella descritta, tra gli altri, da Paolo Monelli, che pure era partito volontario con giovanile baldanza: «Già vidi cadaveri gonfi/ verdi su le acque immobili dei laghi/ fissare con occhi sbarrati/ l’indifferenza dei cieli».
Quando la guerra finì, come ha ricostruito Emilio Franzina, impiegò anni per ottenere finalmente che lo Stato gli desse i soldi per il biglietto di ritorno verso New York dove voleva finalmente ricucire il suo sogno americano. Era il 1922. Nel frattempo, però, le leggi erano cambiate. Nel ’21 era stata varata una legge restrittiva che inglobava il Literacy Act: ogni immigrato doveva saper fare un dettato di 50 parole. Francesco, buono per spaccarsi la schiena sul lavoro o per giocarsi la vita in trincea, era analfabeta. Respinto.
Occorre conoscere storie come questa per capire fino in fondo quanto sia prezioso il libro di Luigi Botta Figli, non tornate! Lo storico piemontese, infatti, è riuscito a recuperare centinaia di lettere scambiate tra i nostri emigrati negli Stati Uniti e le loro famiglie rimaste in Italia. Lettere contenenti in larga parte un’invocazione di madri, mogli, sorelle ai figli, ai mariti, ai fratelli. Quella di non mettere a rischio il loro agognato American dream e tenersi alla larga dalla mattanza sul nostro fronte orientale.
Certo, spiccano anche lettere gonfie di patriottismo come quella inviata da un padre al figlio minatore a Johnsonburg, in Pennsylvania, per invitarlo a tornar subito: «L’abbiamo servita tutti la nostra cara Patria, ed io spero che tu pure verrai e non ci farai fare brutta figura. È un sacrifizio, ma se non la difendiamo noi chi la deve difendere?». Appello peraltro respinto dal figlio, furente con l’Italia che prima gli aveva negato la possibilità di studiare, poi l’aveva forzato a emigrare: «Non conosco la patria, né essa mi ha mai conosciuto». Ma soprattutto appelli contrari: non vi muovete da lì!
Erano lettere pubblicate poi in gran parte sul giornale «Cronaca Sovversiva», un settimanale anarchico di Lynn, nel Massachusetts, una ventina di chilometri a nordest di Boston, che aveva tutto l’interesse a far conoscere ogni dissenso contro la guerra. (…) Erano odiati, i Savoia, dagli emigranti italiani anarchici. Al padre che lo invita a tornare in Italia per fare il suo dovere di soldato, Nicola Palmiotti risponde che no, non va fatta confusione: «Capisco che per te saranno eresie queste mie affermazioni, ma è pur necessario che tu ci pensi su almeno per convincerti che tuo figlio ragiona e non sono affatto ingrato né meno affettuoso verso di voi se mi rifiuto di servire la patria dei Savoia e di tutti i ladri nel cui esclusivo interesse sono mantenuti i soldati ed esercitati i giovani nell’ignobile arte di beccai del genere umano».
E se la propaganda italiana adopera tutto il vocabolario della retorica («Sangue, sangue vermiglio bagna le balze alpestri, là dove crescono gli edelveis gentili»), le famiglie da casa incoraggiano i ragazzi a pensare a se stessi. Al proprio futuro. E collaborano con le loro lettere a contenere il flusso di ritorno dei giovani emigrati da inviare alle trincee. Dalle Americhe, stando agli studi di Botta, tornano in 155 mila, dall’Europa 129 mila, dall’Africa poco meno di ventimila; dall’Asia e dall’Australia in 400. Fino a passare complessivamente i 304 mila uomini. Tanti. Molti di più però, forse 470 mila, sono quelli che lasciano cadere l’appello…
« Ora ti dico che prima aspettavo giorno per giorno che tu tornassi per riaverti tra di noi. Invece ora ti dico che hai fatto molto bene a non tornare in patria e non tornare se prima non finisce questo flagello di guerra», si sfoga in una lettera al nipote Antonio la zia Giovina Di Carlo, «Rispondimi e fammi sapere il tuo pensiero al riguardo abbiate i sinceri saluti…».
«Figli, non tornate! Non tornate! (…) Non per la gioia dei focolari tornereste, non per la nostra, non per la vostra gioia», invoca una lettera datata Palermo 5 luglio 1915 e titolata «Le Madri d’Italia ai figli emigrati nelle due Americhe». Parole tonanti. Poco materne, molto combattive. Quasi anarco-dannunziane: «Si è assisa la guerra su le vecchie soglie e del suo alito mortifero ha spento sui focolari ogni fiamma, ogni sorriso su le labbra, nei cuori ogni speranza ed ogni fede in sé, nella vita, nel domani». Madri vere? Madri false dietro cui stava l’ombra di agitatori anarchici contrari alla guerra?
Molto più sincera e straziante la lettera di una moglie, Annunziata Minardi, forse fiorentina, al marito Gaetano, muratore a New London, nel Connecticut: « Se fosti stato presente alla partenza di tuo fratello Augusto avresti visto quale commozione regnava pel Borgo Croce. Egli non riusciva a separarsi dai suoi tre bambini, di più tua madre non poteva pigliar fiato per lo strazio immenso. Così nella nostra povera casa son due che si trovano attualmente sulla via della morte: tuo fratello Crispino è da circa trenta mesi che trovasi nelle sabbie di Tripoli e, invece di restituircelo, ci pigliarono anche il nostro buon Augusto. Tu, Gaetano mio, puoi proprio chiamarti fortunato di trovarti fuori d’Italia, molto lontano, in questo brutto periodo di tempo. E dire che molti ignoranti continuano ancora a credere in un Dio buono, giusto e misericordioso. Ma dov’è questo Dio? Se è vero ch’egli esiste perché permette che si compia un simile macello? » . Ed ecco la chiusa: «E tu, Gaetano, che avesti l’insperata fortuna di trovarti in America, non stare a muoverti, piuttosto verrò io a raggiungerti. Non venire qui a farti ammazzare per l’interesse e per l’ambizione dei nostri governanti…».
«Sono da cinque mesi in trincea, cinque mesi che dormo per terra, nel fango, mangiando come e quando piace agli austriaci di lasciarci venire il rancio; ed ora a quasi duemila metri dal livello del mare, come si stia a questi freschi, pensa tu — scrive il cugino Ercole a Carlo Costa —. Se ti venisse per la testa la pazza idea di ritornare in Italia, fa bene i tuoi conti: siamo tre in ballo della famiglia. Basta! Finita la guerra, se si ritorna a casa, bisognerà fare su la nostra roba e partire se vogliamo mangiare ed andare mendicando come prima, fuori della patria, il lavoro ed il pane. Statti lì, che se avremo la fortuna di scamparla ti raggiungeremo».
«Caro figlio, ti dico che in Italia tra i diciotto ed i quarant’anni non trovi più nessuno. Sono tutti sotto le armi. E quante povere madri desolate, e quante spose senza mariti coi poveri bambini su le braccia maledicono la guerra!», sospira una mamma in una lettera spedita da Leinì, qualche chilometro a nord di Torino. E prosegue con qualche cautela, come temesse la censura e parlasse così, in generale: « Ora il consiglio che io darei al figlio mio sarebbe di star sempre in America se non l’espellono. Almeno non soffrirà nessuno dei martirii che soffrono qui quelli che partono e non tornano più o tornano disgraziati, incapaci di guadagnarsi il pane (…). Mi rincresce avere due figli e non poterli più vedere dopo tanta vita che ho fatto per allevarli grandi; ma se per riabbracciarli ancora devo mandarli al macello, meglio non vederli e saperli sani, laboriosi, lontano…».

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