venerdì 20 maggio 2016

Le schede di lettura di Giorgio Manganelli

Giorgio Manganelli: Estrosità rigorose di un consulente editoriale, Adelphi

Risvolto
Nel 1967 Manganelli dirige la serie italiana di una collana Einaudi. A preoccuparlo è la veste grafica, che con il suo opaco grigio rende i volumetti simili ad «antichi, nobili epitaffi»: «E si veda il bell'egualitarismo del procedimento, che pareggia miopi, presbiti, ipermetropi, daltonici ed astigmatici in una comune, edificante inettitudine a leggervi alcunché» commenta. Basterà questo passaggio di una comunicazione ‘di servizio' per far capire che tipo di consulente editoriale sia stato Manganelli: eccentrico e brillante, sempre pronto a sfoderare uno humour di volta in volta giocoso, paradossale, corrosivo. Ma non ci si inganni: Manganelli è stato un editor (e traduttore) tutt'altro che sedizioso: disciplinatissimo, piuttosto, duttile e minuzioso. Un editor capace di progettare collane e costruire libri, suggerire titoli, periziare traduzioni con estroso rigore: «... qualche volta la traduttrice tende a dar più colore di quanto non competa a questa gelida carne...» scrive di una Ivy Compton-Burnett che gli era stata sottoposta. Ma capace soprattutto di stendere pareri di lettura e risvolti dove astratto furore dello stile, schietta idiosincrasia e verve beffarda celano una micidiale precisione di giudizio: «La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni...» (qui la vittima è Doris Lessing). Una precisione, tuttavia, che nel rifiuto sempre si premura di spogliarsi di ogni drasticità: «Il mio parere è negativo, ma senza ira». 
Manganelli, giudice ironico al talent dei libri

GIUSEPPE LUPO Avvenire 11 giugno 2016

Novecento Eccentrico, brillante, rigoroso Manganelli «tapiro» dell’editoria
Corriere della Sera 19 May 2016 Di Paolo Di Stefano
Ha l’aspetto di un tapiro baffuto, obeso e malinconico, di un commissario di polizia che il caso ha relegato in una remota provincia, tra funzionari ignoranti e meste camere d’affitto». È Giorgio Manganelli nel ritratto di Ernesto Ferrero. A leggerlo nelle lettere all’editore, ha un che di cerimonioso alla Gadda che trascolora in un’ironia non di rado sferzante. Nel 1975, quando lasciò l’Einaudi per passare alla Rizzoli, spiegò all’editore le sue inoppugnabili ragioni economiche, non senza esprimere la malinconia, il rammarico e la stima per «l’eleganza intellettuale, lo stile morale, e anche, debbo dire, l’impareggiabile raffinatezza grafica» della casa editrice torinese. Addirittura deplorando se stesso per la decisione.
Che personaggio, Manganelli. Già sapevamo tutto (o quasi) dello scrittore, ma adesso ci si rivela il consulente editoriale, che regala momenti di pura felicità mentale (per usare una formula della sua amica Maria Corti), oltre che di autentico divertimento. Il tutto grazie al lavoro d’archivio di Salvatore Silvano Nigro, il quale ha curato la raccolta delle schede e delle lettere che Manganelli scrisse in qualità di collaboratore e di lettore professionale per Garzanti, Einaudi, Mondadori e Adelphi, dal 1962 alla morte ( Estrosità rigorose di un consulente editoriale, Adelphi). Sono due libri in uno: da una parte i documenti di lettura; dall’altra le note di Nigro che svelano e riannodano fili e raccontano gli scambi e gli intrecci di sollecitazioni, di risposte ed eventuali rilanci, gli esiti delle varie proposte, dei rinvii e dei rifiuti.
Intreccio è la parola che meglio descrive la vita intellettuale di cui si nutriva una casa editrice. Si comincia con la Garzanti, a cui il giovane Manganelli, in qualità di anglista e collaboratore del « Giorno » (ma anche insegnante), accede grazie all’amico Pietro Citati nel gennaio 1961, mentre segretamente sta portando a termine Hilarotragoedia, che consegnerà nel 1963, tra mille scrupoli, a Feltrinelli: sono pareri «puntigliosi sempre, distesi e asciutti fino alla monosillabica opinione espressa con un “sì” o con un “no”», scrive Nigro. Ma l’aria che prenderanno i giudizi di Manganelli si riassumono sempre più nei due termini ossimorici presenti nel titolo della raccolta: «estrosità rigorose». Qualche esempio: «Ho letto libri assai peggiori: sebbene speri di leggerne di migliori»; «un romanzetto abbastanza insignificante, scritto con disinvoltura alquanto giornalistica, leggibile, certo, tra una stazione e l’altra, e l’ideale, poi, da dimenticare sulla spiaggia»… Alcune proposte avanzate alla Garzanti torneranno buone per Einaudi: è il caso di un romanzo di Angus Wilson, di cui Giorgio Manganelli (1922 - 1990) nel suo studio (foto Jerry Bauer)
Manganelli sottolinea anche a distanza di qualche anno che il «tipico artificio wilsoniano di concentrare una poderosa carica passionale in una vicenda futile qui appare in tutta la sua violenza».
Un tapiro? Sì, ma anche una «talpa di redazione», secondo Nigro. Dopo l’uscita del libro d’esordio, il 1964, l’anno «generoso, avventuroso » , vedrà Manganelli passare consulente all’Einaudi, immaginata come una « guarnigione » per cui avrebbe svolto il compito del «perlustratore, vessato da dispacci e segnali di fumo, di una terra tutta da esplorare e da cui far partire rapporti» (Nigro). Manganelli si immola sull’altare torinese: «Sarò sangue verginale versato sulle fondamenta della casa Einaudi», scrive. I suoi gusti, si sa, sono piuttosto orientati verso la sperimentazione linguistica: e lo si capisce subito dalla predilezione per la svizzera (di lingua italiana) Alice Ceresa e per il primo Sebastiano Vassalli (consigliati per la collana della «Ricerca letteraria»), ma anche per la linea barocca, coerente con il suo stesso esercizio stilistico di scrittore. Ma va detto, a onor del vero, che Manganelli non manca di sensibilità editoriale e anche quando non ama un libro, ne segnala comunque le potenzialità commerciali: per di più non è propriamente un lettore settoriale, ma spazia dalla lirica medievale alla contemporaneità. Consiglia di «tener d’occhio» il «molto prolifico e discontinuo » Anthony Burgess anche se lo considera «poco interessante», «satirico, finto avvenirista».
Nell’aggettivazione si concentrano il suo estro e la sua precisione definitoria. «Torvo ma non del tutto insensato» è il libretto di un etruscologo, «raccontato con incredibile ruditas, non senza indizio di mite demenza, produttiva di effusivo casino»: il suggerimento è che «ci vorrebbe qualcuno che mettesse in pulito i suoi barriti». «Un libro amabile, inconsueto e ragionevolmente demente» è Il terzo poliziotto di Flann O’Brian. Trova «repellente», «di rara bruttezza, di una goffa opacità moralistica» un testo teatrale di John Osborne, ma consiglia: «Pubblichiamolo», forse sottolineando così il suo dissenso da certe scelte einaudiane. Mentre invita ad accogliere un libro di Kingsley Amis, padre di Martin, definendolo «una gagliarda e ben ripiena farsa gallese, gustosa, amabilmente rissosa, assai leggibile». Perde letteralmente le staffe di fronte al «giovane arrabbiato» britannico, allora molto in auge, John Wain, che secondo lui «va puramente e semplicemente picchiato, affidato a facchini iracondi e sarcastici...». Respinge al mittente la «virtuosa varichina» di Doris Lessing, che considera «discendente degli amori ancillari di Victor Hugo», mentre ritiene «pubblicabile senza disdoro» Nadine Gordimer.
Il referente epistolare einaudiano è per lo più l’amico Guido Davico Bonino, ma qua e là compaiono Paolo Fossati, Daniele Ponchiroli, Giulio Bollati: sono loro che sommergono Manganelli di quel «tonnellaggio di carta» che finirà per angosciarlo. Col tempo, quando si «intorinava» per i famosi mercoledì, sarebbe riuscito a ringhiare con «no disgustati», anche contrapponendosi al parere possibilista di Italo Calvino. Ideatore di collane, come «La ricerca letteraria» (che diresse con Sanguineti e Davico), Manganelli si accende di entusiasmo per poche cose: per esempio, le lettere di Dylan Thomas che approva con un «sììììì!», le traduzioni e le poesie di J. Rodolfo Wilcock, caldeggia con trasporto la traduzione di un inglese « introvabile » come William Gerhardie. Si entusiasma per la progettata collana dei classici italiani che non verrà mai varata, ma su cui il pressing di Manganelli non verrà mai meno, insieme con l’auspicio di allargare l’attenzione al Tesuaro, a Marino, al Brignole, al Frugoni: «diretti progenitori della sua prosa sontuosamente manieristica», come ha osservato Davico. Titoli di una «letteratura fastosa» che poi avrebbe riproposto con maggiore fortuna per la «Fondazione Bembo», la collana di Guanda che dirigerà con Dante Isella dal 1987. Intanto, aveva tentato di mettere piede alla Mondadori, ma l’esperienza durò poco (un paio d’anni, 1970-72) e persino quel sant'uomo di Vittorio Sereni dovette arrendersi all’incomprensione, finché il trasferimento, armi e bagagli (cioè libri e consulenza) a Rizzoli placherà provvisoriamente i suoi furori. In una scheda per Adelphi, nel 1988, urlerà: «Romanzo lesbico-trotskista, molto educativo e nobilmente progressista. Al diavolo».


Manganelli, le schedature dell’ossimorico 
«Estrosità rigorose di un consulente editoriale» (Adelphi), a cura di Silvano Salvatore Nigro. Lettere, pareri, consulenze: l’estrosità di Giorgio Manganelli si fa giudizio infallibile e spesso rabbioso, anche nel cercare ragioni «a contrasto»

Raffaele Manica Manifesto Alias 29.5.2016, 0:10 
Non c’è più nessun dubbio. Giorgio Manganelli è il maggiore autore postumo del nostro Novecento. Dopo l’accidente della sua morte sono usciti volumi in gran numero e di diseguale portata: alcuni di Manganelli, altri di qualche suo altro io. Basta sfogliare le pagine della nuova edizione della bibliografia per farsene certi (è stata approntata da Graziella Pulce, si veda il box in questa stessa pagina). Ma queste Estrosità rigorose di un consulente editoriale ritrovate allestite e commentate con estro e rigore da Salvatore Silvano Nigro (Adelphi, «Piccola Biblioteca», pp. 332, euro 15,00) sono un libro fulminante e necessario ai lettori del Postumo e del Vivente, perché permettono di percorrere la tessitura del mestiere, di avvicinarsi all’attività che, pur proiettata su notti e abissi veri onirici e verbali, fu spesa di giorno in giorno per il trentennio che va dalla piena maturità alla scomparsa, 1961-1990, con la continua voglia di perdersi nelle parole per poi ritrovarsi al solo scopo di perdersi di nuovo, quasi senza accorgersi d’altro, come il Baltasar Gracián di Borges sorpreso dalla Pallida una sera, leggendo le strofe del Marino.
Non estro, ma estrosità: condizione piena di estri. Sono lettere, pareri, consulenze; si possono leggere come esemplari magistrali di quella forma d’arte e di scienza che è il saggio letterario breve o come tracce destinate a mettere in luce un capitolo non minore della storia dell’editoria italiana. Dunque, Manganelli alle prese con le sue laboriosità e operosità editoriali, ma anche capitoli per la ricostruzione di un trentennio dell’editoria italiana, delle sue intenzioni riuscite e dei fallimenti: tutto visto attraverso la specola di un autentico e sincero falsario, di un capzioso inseguitore di verità inaccessibili. Nigro non soltanto ha rimesso insieme questo libro nato come per caso ma tenuto da una geometrica e folle coerenza: lo ha anche contestualizzato, fornendo note di scavo che sono in se stesse un libro, un lungo capitombolo attraverso le letterature per le quali Manganelli fu invitato a esprimere pareri: «ringhiava il suo “è un no disgustoso”, allorché rigettava un libro; o pronunciava lentamente, sibilando a labbra strette, “sto leggendo con odio”». Un parere per Einaudi del 1972: «è cosa di rara bruttezza, di una goffa opacità moralistica; lo trovo repellente. Pubblichiamolo»: uno per Adelphi del 1989: «Romanzo lesbico-trotskista, molto educativo e nobilmente progressista. Al diavolo».
Così, folgorante nelle sue definizioni, Manganelli è anche da annoverare nella schiera degli insigni battutisti, ovvero dei sottolineatori di verità anticonformistiche. Tutto è definizione ossimorica e tutto è mirabilmente elusivo. L’ossimoro individua non soltanto la retorica, idest l’ordine del discorso di Manganelli, ma identifica perfino il delinearsi di una delle sue possibili biografie, se Un ossimoro in Lambretta è adesso il titolo di una elegante e affettuosa memoria degli ultimi anni di tale figura retorica bipede dovuta a Patrizia Carrano (pubblicata dalla Italosvevo, pp. 90, euro 13,00, 130 grammi circa, in una collana dal titolo che a Manganelli non sarebbe dispiaciuto, «Piccola biblioteca di letteratura inutile», anche se il libro della Carrano – spiace dar torto all’editore – è tutt’altro che disutile). Viaggi insensati in autobus da capolinea a capolinea, Fellini, vetrine di lime e coltellini, la residenza di tutto ingombra in via Chinotto numero 8 interno 8, venerazione per i vini rossi e per il pecorino che non ha conosciuto il frigorifero…
Molto di Manganelli sta nella prima perseguita poi accentuata sempre esibita disfunzione dei rapporti tra realtà e immaginazione, tanto da fingere e fingersi che l’unica realtà fosse la sua immaginazione (verbale). Ha avuto per tutta la vita le idee chiare (altri le direbbe fissazioni) su che cosa si dovesse pubblicare, essendo consulente di Garzanti, Einaudi, Mondadori, Adelphi: voleva che gli altri leggessero per controverso piacere confinante col dovere ciò che lui aveva supposto di leggere con gioia. I titoli suggeriti a Einaudi per una collana di classici che poi non si fece sono gli stessi che avrebbe voluto mettere in circolazione, decenni dopo, per una collana di classici per Guanda: la trattatistica più vertiginosa del Seicento, poemi sbilenchi, enigmatici poeti, macchine celibi, scartoffie gnoseologiche: «Aveva posto nel Seicento, in quel “quartiere” malfamato della nostra letteratura, il suo domicilio d’elezione. E da lì, con il sostegno degli scrittori irregolari di tutti i tempi e degli scrittori dimenticati o malamente letti, da quel “lazzaretto”, avrebbe voluto imporre una cura da cavallo alla cultura letteraria italiana» (Nigro). Su uno di questi rimatori scintillanti, scrive a Carena dell’Einaudi: «è poeta assai interessante, uno dei più gelidi e macchinosi barocchi, un “non ispirato” di saputa e laboriosa retorica. Il mio voto è un chiassoso “sì”. E siccome spira un vento di bizzarria in via Biancamano (tra l’altro, aspetto il Ciro di Pers con la lingua “pennoloni”) potrei sommessamente insinuare i Leporeambi del Lepòreo, una delle stravaganze d’Italia?». Da altre testimonianze (di Davico Bonino) reperibili in nota, l’elenco sarebbe giunto a lambire anche il Torracchione desolato di Bartolomeo Corsini. Per Einaudi quell’unico eventuale lettore, benché entusiasta, non confortava i bilanci.
Prima dell’inizio, la necessità di far soldi (espressione esibita fino all’ultimo libro pubblicato in vita) per uscire dall’antro in affitto dove viveva dopo essere arrivato a Roma pare in Lambretta. Furono traduzioni, come quella del libretto di Sprigge su Croce (per Ricciardi) e della Note verso una definizione della cultura di Eliot (per Bompiani). Vicende che ricordano nello svolgersi quella del giovane Longhi traduttore di Berenson, per la sovrapposizione stilistica del traduttore sul tradotto; ma mentre in Longhi la storia fu volta al drammatico, con la rottura di una nascente anche se reciprocamente diffidente amicizia, in Manganelli volge al comico: o fa ostruzione rifiutandosi di correggere le bozze, allegando un biglietto che è un capolavoro di delicata perfidia; o ricevute le riserve lascia dormire il plico, poi rispedisce tutto tale e quale e viene passato dalla redazione: una ghiottoneria burlesca tramata ai danni dei disattenti.
All’inizio fu la causa dello sperimentalismo, quando si era in quella stagione di avanguardia che Manganelli aveva contribuito a vivificare e che presso Einaudi prese corpo nella collana di «Ricerca letteraria». Manganelli ultra vedeva e lasciava crescere la propria prosa per accompagnare con una nota un libro che magari si sarebbe dimenticato in fretta. Quando non gli sfuggiva la velleità di certe prove, se ne faceva curatore fallimentare, abbandonandosi non alla descrizione dell’oggetto ma alla visione che quell’oggetto gli aveva procurato. A qualche lettore l’unico interesse derivava non dal libro ma dalla nota di accompagnamento. Anche questo è sintomatico di una stagione andata, da interpretare per sprazzi e interstizi, e significa che Manganelli costeggiò lo sperimentalismo per servirsene come fermento, andando per i fatti suoi. Per esempio, in una pagina poco nota ritrovata da Nigro, Enzo Siciliano scrisse, schizzando a rapidi tratti un profilo di Manganelli stesso (in questi giorni cade il decennale della scomparsa di Siciliano: la citazione più ampia del solito valga per ricordo): «Talvolta c’è una nota di Manganelli, ed è questa l’unica cosa che dei volumetti si gusta con vero piacere, e fino in fondo. Ci si imbatte in un mirabolante fuoco d’artificio aggettivale… Alla valutazione positiva viene sostituito un elegante incastro di veleni e negazioni che strizzano gli occhi verso una malcelata e insidiosissima beltà. Per quel che mi riguarda aspetto di leggere cento e più pagine di Manganelli, una dopo l’altra e ben raccolte». Ora il libro è qui. E questa di Siciliano diventa una recensione anticipata di qualche decennio. Roba da Manganelli.

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