martedì 3 maggio 2016

L'utopia di un keynesismo continentale che non recupera nemmeno la lotta di classe e la facile obiezione negriera

Thomas Fazi e Guido Iodice: La battaglia contro l’Europa. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo, Fazi Editore, p. 316, Euro 18

Risvolto
A otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria, l’Europa è stremata dall’austerità, dalla stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi e dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia. La stessa parola “crisi”, che rimanda a un fenomeno di rottura e di breve periodo, è ormai inadeguata a descrivere quello che appare come un cambiamento strutturale – ma forse sarebbe meglio dire una ristrutturazione deliberata – dell’economia e della società. La democrazia viene esautorata a livello nazionale e non viene sviluppata a livello europeo. Il potere è sempre più concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche che non rispondono delle loro decisioni e in quelle dei paesi più forti dell’Unione. Allo stesso tempo, cresce in tutto il continente un’ondata di populismo, con l’affermarsi in alcuni paesi di pericolosi movimenti nazionalisti. Eppure non vi è ancora un consenso sulle ragioni che ci hanno condotto fino a questo punto e su come uscirne. Il perdurare della crisi economica e la vergognosa gestione della vicenda greca hanno sì trasformato la crisi in un argomento di dibattito diffuso, ma hanno anche determinato un progressivo imbarbarimento, sempre più dominato da logiche nazionalistiche («prima gli italiani») e semplificazioni illusorie e solo apparentemente radicali («fuori dall’euro»). Nel frattempo molti dei miti fondativi alla base del “regime di austerità” – dobbiamo stringere la cinghia perché stiamo finendo i soldi; abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità; il problema è l’eccessivo debito pubblico ecc. – si sono persino rafforzati.
La battaglia contro l’Europa mostra come le élite europee abbiano sfruttato la crisi per imporre scellerate politiche neoliberali e smantellare lo stato sociale e come questo processo può essere invertito. Secondo gli autori, la via d’uscita dalla crisi non passa né per una maggiore integrazione («più Europa»), né per l’uscita dall’euro, quanto piuttosto per l’apertura di un conflitto tra periferia e centro che parta dalla disubbidienza ai memorandum della troika e arrivi a delineare un’esplicita alternativa (o almeno un significativo emendamento) all’attuale assetto istituzionale dell’unione monetaria.

Un ritorno continentale a Lord Keynes 

Saggi. «La battaglia contro l’Europa» di Thomas Fazi e Guido Iodice. Un protagonismo degli stati nazionali per rompere la cappa dell’austerity senza uscire dall’euro

Andrea Fumagalli Manifesto 3.5.2016, 0:16 
Numerosi sono le pubblicazioni che hanno ricostruito le cause della grande recessione economica degli anni ’00 che ha portato alla più grave crisi finanziaria dalla grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Sono disponibili diverse versioni, a seconda del punto di vista degli autori: dall’eccessiva ingordigia delle banche (il primo Paul Mason), al mancato funzionamento dei mercati perché troppo stretti dalle rigidità imposte dalle concentrazioni di mercato, all’eccesiva polarizzazione dei redditi, sino alla denuncia della strutturale instabilità dei mercati finanziari e della loro violenza (Christian Marazzi). 
Thomas Fazi e Guido Iodice nel saggio La battaglia contro l’Europa. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo (Fazi Editore, p. 316, Euro 18), descrivono in modo convincente la natura dell’odierna crisi e il passaggio dalla crisi finanziaria dei subprime alla crisi del debito in Europa. In particolare, i due autori analizzano in dettaglio le scelte di politiche economica effettuate dalle autorità economiche europee, sorrette da alcuni governi (in primis la Germania ordoliberista): le politiche di austerità, prima e, ora, le politiche di riforme strutturali. Viene inoltre messo in luce come tali politiche si basino su assunti economici privi di fondamento: da un lato, che un eccessivo debito pubblico sia causa di recessione economica e, dall’altro, che l’eccessiva rigidità del lavoro sia causa della scarsa produttività (quando invece, in entrambi i casi, è l’opposto). 
La disciplina tedesca 
Nel terzo e conclusivo capitolo, Fazi e Iodice provano a delineare una via di fuga dalla condizione presente. In primo luogo, i due autori non «vedono l’uscita dall’euro come una conditio sine qua non per uscire dalla crisi e rilanciare la crescita e l’occupazione nei paesi della periferia europea». Il ritorno alla sovranità monetaria, infatti, in un mondo fortemente globalizzato, soprattutto dal lato valutario e finanziario, non consente di raggiungere una piena autonomia economica in grado di perseguire interessi diversi. Parimenti, gli autori criticano anche la posizione opposta: «quella di chi ritiene che per risolvere la crisi dell’euro occorra fare gli “Stati Uniti d’Europa”». L’idea è auspicabile, ma «nelle attuali circostanze, (..), quando si parla di “cessione di sovranità”, di “unione fiscale”, di “Tesoro europeo”, non si sta parlando di creare uno Stato Federale, ma di sottoporre in modo ancor più stringente gli Stati alla disciplina fiscale tedesca». 
La terza via proposta è quella invece di «ricominciare daccapo il processo costituente dando maggior spazio di manovra agli Stati. (…) Non ci vuole più “Europa” per salvare l’Europa e neppure per salvare l’euro. Ce ne vuole di meno». 
Tale posizione viene giustificata, da un lato, ripercorrendo le diverse fasi di crisi valutaria che l’Europa ha attraversato dalla fine di Bretton Woods, passando per la crisi dello Sme (Sistema Monetario Europeo) del 1992, e analizzando le diverse fasi di svalutazione (che hanno sempre portato a una riduzione del potere d’acquisto dei salari); dall’altro, prendendo atto che nell’attuale congiuntura politica, l’architettura economica europea non appare riformabile, se tale riforma deve avvenire direttamene sul piano istituzionale europeo. Da qui l’esigenza di ampliare l’autonomia politica e economica degli Stati membri per favorire la nascita di modelli economici alternativi all’ordoliberismo tedesco e dei suoi alleati: «La via da seguire, nel breve termine, è quella di sfruttare le contraddizioni evidenziate dalla vicenda greca per allargare, per quanto possibile, alla luce degli equilibri attuali, le maglie della struttura esistente (in primo luogo “rinazionalizzando” la politica fiscale), e, nel frattempo, sviluppare le condizioni per un riequilibrio dei rapporti di forza, conditio sine qua non per affrontare una riforma più ambiziosa». 
Autonomia della politica fiscale significa ritornare a Lord Keynes (autore, non a caso, ampiamente citato nel testo) e in particolare alle politiche di deficit spending, come condizione preliminare per aumentare la domanda aggregata via spesa pubblica. Perché tale autonomia possa concretizzarsi, la sinistra deve puntare a «meno Europa». Nel paragrafo intitolato «Elogio della spesa pubblica», il pensiero keynesiano della domanda effettiva viene correttamente ricordato nei suoi passaggi principali: un aumento della spesa pubblica, non a pioggia, né finalizzata a creare effetti di «spiazzamento» degli investimenti privati ma a favorire l’innovazione tecnologica (sul modello dello Stato Innovatore di Mariana Mazzucato), crea un aumento del Pil più che proporzionale, via moltiplicatore del reddito, e quindi allo stesso tempo, via incremento della tassazione, crea le premesse per il suo finanziamento. 
Tale politica fiscale abbisogna del supporto di una doppia politica: una «Banca Centrale amica dello Stato» e una «centralizzazione della politica salariale». In tale contesto è, secondo gli autori, possibile pensare lo «Stato come occupatore di ultima istanza», così come la Banca Centrale Europea (se le fosse consentito) dovrebbe svolgere il ruolo di «creditore di ultima istanza». 
Lavorismo di ritorno 
La finalità è quella di creare più lavoro e reddito e in tal modo favorire la fuoriuscita dall’attuale stagnazione economica, oggi assecondata dalle politiche di contenimento della spesa pubblica e dalla deregulation del mercato del lavoro. 
Dentro questo quadro programmatico, le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito minimo garantito vengono considerate fuorvianti e sussumibili da una logica liberista. Rimanendo all’interno di una logica lavorista, i due autori ritengono infatti con Keynes che ogni trasferimento monetario è uno «spreco». 
«Se un lavoratore può accedere a un emolumento da parte dello Stato, …, è evidente che riterrà accettabile «lavoretti» temporanei malpagati». Sembra che gli autori non si rendano conto che siamo già non solo all’epoca della generalizzazione dei «lavoretti» (leggasi precarietà esistenziale e strutturale) ma sulla nuova frontiera del lavoro gratuito. 
Così, come nulla o poco ci viene detto riguardo ai nuovi processi di valorizzazione cognitiva, relazionale e bioeconomica, sembra che il paradigma fordista , pur nelle differenze dell’oggi, continui tranquillamente a persistere. Qui sta il punto: se non si analizza la nuova composizione del lavoro vivo dell’oggi, qualunque proposta rischia di essere sovradeterminata. Qui sta la sfida per il futuro.

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