lunedì 30 maggio 2016

Poco prima dell'imminente privatizzazione dell'Università italiana

Universitaly
Federico Bertoni: Universitaly. La cultura in scatola, Laterza

Risvolto
Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane?
Questa è la domanda fondamentale da porre all’università italiana del XXI secolo.

Mutazioni antropologiche, narrazioni egemoni, logiche del potere e disegni politici più o meno occulti. Drogata da un falso miraggio efficientista, l’università sta svendendo l’idea di cultura e la ragione stessa su cui si fonda, ostaggio passivo e consenziente di indicatori astrusi, procedure formali, parole vuote che non rimandano a nulla e che si possono manipolare in base a interessi variabili – eccellenza, merito, valutazione, qualità, efficienza, internazionalizzazione. Serve una diagnosi lucida per denunciare le imposture e cercare gli ultimi punti di resistenza. Il libro parte da casi concreti e da un’esperienza maturata sul campo. Senza alcun rimpianto nostalgico per la ‘vecchia’ università ma con uno sguardo disincantato, si rivolge a chi ha una percezione vaga del presente, spesso distorta da stereotipi e pregiudizi. Quel che ne emerge è al tempo stesso un racconto, un saggio di critica culturale e un testardo gesto d’amore per il sapere, l’insegnamento e un’istituzione che ha accompagnato il progetto della modernità occidentale.
All’università meno soldi più burocrazia 
Paolo Bertinetti Busiarda 30 6 2016
Da anni in tutti i confronti con gli altri paesi sviluppati l’Italia è agli ultimi posti per quanto riguarda i fondi destinati all’università. Cambiano governi e ministri, ma non cambia la posizione dell’Italia. Ce lo ricorda Federico Bertoni nel suo bel saggio Universitaly (Editore Laterza). 
Così come ci ricorda che dal 2010 in poi è stato falcidiato il numero dei docenti, giungendo a stabilire che per ogni cinque pensionamenti ci sia una sola assunzione (ragion per cui molti giovani studiosi se ne vanno all’estero, perché in patria posti non ce ne sono). Bertoni dedica però gran parte del suo libro ai meccanismi di (mal)funzionamento dell’Università. Dato che è giovane, non può essere accusato di rimpiangere la vecchia Università. Lui ha provato a lavorare bene in quella nuova: e ne registra i disastri, a partire dalla confusione determinata dai continui cambiamenti, fino all’attuale legge che ha «trasformato i professori in amministratori». Soprattutto denuncia il rito della Valutazione dei docenti, che «imposta l’attività di ricerca in funzione dei criteri con cui si verrà premiati». Per cui si eviterà il singolo studio di ampio respiro (che richiede anni) a vantaggio della pubblicazione di anno in anno di una piccola serie di articoli.
Il rito della valutazione con la «sua falsa pretesa di scientificità», spiega Bertoni, si riflette poi sul sistema di reclutamento. Aboliti i concorsi vecchia maniera, perché baronali, è stato inventato un sistema che, nascosto dietro la maschera dalla valutazione, è più baronale di quello precedente, favorendo «per legge» gli interessi locali. 
Tutto questo Bertoni lo racconta in modo tanto spiritoso quanto documentato. Ma perché lui, che è diventato cattedratico giovanissimo e che è al sicuro dalla bizzarrie del sistema vigente, si impegna così fortemente nella denuncia? «Perché amo l’università», si risponde, «e mi tormenta vederla ridotta così». E perché ci sono gli studenti, «la cosa migliore che c’è nell’università»: infatti è solo l’insegnamento «che dà senso al suo lavoro» dentro una macchina burocratica soffocante e nociva. 
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Non riduciamo il sapere a un utile d’impresa 
Federico Bertoni, docente di teoria della letteratura a Bologna, analizza la deriva di un sistema universitario in cui chi studia “si è trasformato in un cliente”
TOMASO MONTANARI Restampa 29 5 2016
Perché l’università italiana, «un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?». Sono queste le domande a cui risponde Universitaly. La cultura in scatola (Laterza 2016), meravigliosamente scritto da Federico Bertoni, professore di Teoria della Letteratura a Bologna. Carlo Levi ha scritto che «se gli occhi guardano con amore (se amore guarda), essi vedono»: gli occhi di Bertoni sono pieni d’amore per l’università, ed è probabilmente per questo che la sua analisi è così lucida.
Il governo di Matteo Renzi ha annunciato la prossima uscita dell’università dal pubblico impiego, e dunque la sua privatizzazione. «Sarebbe solo la sanzione giuridica — osserva Bertoni — di qualcosa che di fatto è già successo»: «Le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono un’ offerta formativa ai clienti», gli studenti accumulano non conoscenze ma «competenze acquisite in una carriera», il loro apprendimento «si misura in crediti e debiti», le pubblicazioni scientifiche sono «prodotti della ricerca », e quando si annuncia che qualche ricercatore è finalmente uscito dallo schiavismo del precariato si dice che si è «investito sul capitale umano». Insomma, «l’equazione subdola tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting) ha trasformato l’università in una customer oriented corporation» fondata su criteri e valori come «l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività ». L’analisi, documentatissima e implacabile, di Bertoni solleva una domanda di fondo: a cosa serve una università tanto schiacciata sulla monodimensione mercatistica dell’esistente da non riuscire a immaginare e a costruire niente di nuovo? Rinnegando la sua stessa ragione di essere ¬- che è la produzione di senso critico — questa università sembra esistere solo per confermare il motto di Margaret Thatcher: «There Is No Alternative».
Come se ne esce? Riscoprendo, suggerisce Bertoni, i fondamentali della professione intellettuale. I professori non devono avere paura: possono prendere la parola, rifiutarsi di obbedire, non abituarsi alla degenerazione, rallentare il ritmo aziendalistico, smascherare le finzioni, giocare al rialzo nella qualità dell’insegnamento, insegnare il dissenso. Che è come dire che i professori devono fare il loro dovere: anche se non è il dovere a cui pensano i rettori e i ministri. Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese.
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