lunedì 30 maggio 2016

Poe e Dumas, Dupin e Holmes



Poe e Dumas, fratelli notturni
Lo scrittore americano creò il formidabile personaggio di Auguste Dupin, precursore di Sherlock Holmes, che vive nel buio e pratica analisi sottilissime. Più tardi il francese ne fece tradurre e adattare in italiano uno dei racconti

Corriere della Sera  30 mag 2016 Di Pietro Citati
Edgar Allan Poe sapeva che il suo massimo dono era quello di portare in sé la tenebra: di essere tenebra in ogni luogo dell’intelligenza, dell’animo e del cuore; e di irraggiarla intorno, riversandola su ogni sensazione, oggetto ed evento dell’universo. Non gli bastava lasciarsi invadere passivamente da questa oscurità. Con un amore brillante, febbrile e imperterrito, con un coraggio che non lo abbandonò mai, con un occhio lucido e minuzioso, proiettò, creò questa tenebra.
Tre era il numero perfetto: il numero proprio di Dio (e, forse, del diavolo). Nella primavera del 1841, Poe progettò un trittico: quello che potremmo chiamare il Trittico di Dupin. Esso comprende Gli omicidi della Rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt, La lettera trafugata, che propongo di leggere nella bellissima traduzione di Giorgio Manganelli ( I racconti, Einaudi, tre volumi).
Ecco dunque Auguste Dupin, l’antenato di Sherlock Holmes, il tenebroso e snobistico principe di tutti gli investigatori moderni. Il narratore, Edgar Allan Poe, conosce tutto di lui. Conosce il suo mondo, dove le sensazioni e gli eventi materiali sono analoghi a sensazioni e eventi immateriali. Nel cuore di questo mondo c’è Dio, il Dio onnipotente e onnipresente rivelato dalla religione cristiana. Egli può modificare le leggi di ciò che, milioni di anni prima, aveva creato: ma non vuole assolutamente modificarle. Vuole che tutto rimanga uguale, fedele e obbediente a sé stesso. Poe dice di abitare insieme a Auguste Dupin a Parigi, nel Faubourg St. Germain, al numero 33 di rue Dunôt, terzo piano; e lì osserva ogni giorno il suo amico.
Auguste Dupin amava la notte, e ne simulava la presenza anche quando non c’era. Al primo albeggiare del mattino, egli chiudeva le imposte massicce del suo vecchio appartamento: accendeva un paio di candele profumate, che diffondevano raggi fiochi e spettrali; e si lasciava invadere dai sogni oppure leggeva e conversava fino al momento in cui il rintocco dell’orologio annunciava il ritorno della vera tenebra. Allora si avventurava nelle strade, insieme all’amico, girovagando in lungo e in largo fino a tarda notte, cercando le luci e le ombre alterne della città popolosa.
Aveva il dono unico di trasformare tutto in notte. Quando il prefetto di polizia di Parigi venne a trovarlo per discutere con lui di un problema, Dupin si sedette al buio. «Se è un problema che esige riflessione», osservò, rinunciando ad accendere il lume, «lo esaminerò al buio». Ma c’erano molti altri modi di fare notte: come quello di piombare in una specie di apatia, o di oppressione, o in una melanconia continua. Tra le molte mitologie che Poe immaginava, la più grandiosa era appunto quella dedicata alla Melanconia, a Saturno, all’Angelo cupo e tenebroso che Dürer aveva rappresentato tre secoli prima. Sebbene Poe conoscesse in sé stesso le alternanze di euforia e di depressione, la melanconia che Auguste Dupin preferiva era quella silenziosa, fredda, automatica.

Dupin era un appassionato lettore, confratello o doppio di Poe. Ma, negli Omicidi della Rue Morgue e negli altri racconti del trittico, non si intravedono libri. Si scorgono giornali. Poe amava le cronache giudiziarie, i rebus, gli enigmi, le parole incrociate, le scritture cifrate, che egli stesso fabbricava per i quotidiani. Tra lui, Dupin e la realtà si estendeva questa infinita e implacabile massa di giornali, che rappresentavano il segno più evidente del mondo moderno a cui sacrificarono anche Gérard de Nerval e Baudelaire. Questi supremi scrittori-giornalisti sceglievano spesso una parte della realtà: quella che stava in superficie, formata da particolari infimi, irrilevanti e casuali, segnata da minutis-

simi indizi. I diligenti rappresentanti del mondo diurno — i giornalisti, i poliziotti, i prefetti di polizia — non comprendevano questa realtà: credevano nella ragione; e non possedevano lo sguardo molecolare e prensile adatto alle superfici. Dupin era l’uomo della notte: il tempo in cui non escono i giornali. Ma leggeva o si faceva leggere i quotidiani: gli araldi del giorno; e ci informa ironicamente che «la verità non sta sempre in fondo al pozzo. Credo anzi che ciò che sopratutto interessa stia in superficie».

Possedeva un’intelligenza esatta e inflessibile, architettonica e paradossale, «congetturale e probabilistica», come disse Baudelaire. Coglieva un oggetto, o un pensiero, o un evento particolare: il quale aveva un’aria inquietante, stregonesca, a volte sinistra. Faceva rabbrividire, sebbene egli non ne conoscesse le ragioni.

Questo brivido spingeva Dupin a trasformarsi, e a cercare di identificarsi con il particolare. Ma un singolo particolare non gli bastava. Dupin doveva avere davanti a sé una serie, una linea di particolari, che si svolgevano nella realtà o nella mente del suo compagno o avversario.
Osservava, distingueva, analizzava, districava con un acume che alle persone normali sembrava soprannaturale. Finiva per proiettare davanti a sé un complesso analitico, che suscitava nella sua intelligenza una vivissima gioia. Qualche volta, si accontentava di sprofondare in un particolare secondario: l’esperienza gli aveva rivelato che la parte più ampia della verità sorge da ciò che pare poco importante.
Spesso il filo dei pensieri si nascondeva: Poe pensava qualcosa, ma non diceva nulla; e con sua estrema sorpresa, Dupin pronunciava una frase, che rispondeva ai pensieri che Poe aveva avuto, ma non rivelato. «Dupin — Poe disse gravemente — questo supera la mia comprensione.
Il metodo d’indagine analitico e modernissimo del detective verrà poi preso a modello nientemeno che da Freud e da Lévi-Strauss
Come avete potuto indovinare quello che stavo pensando?...». Poi Poe comprese. Con la sua logica immateriale, poggiando su una serie di piccole osservazioni, passando di dimostrazione in dimostrazione, Dupin aveva ricostruito il processo celato dei pensieri, portando il nascosto all’estremo della chiarezza. Così tutto diventava visibile, necessario, scintillante.
Nelle lunghe passeggiate notturne per Parigi, Dupin elaborò il suo metodo analitico: fondato sulla facoltà di osservazione, su un dono quasi dostoevskijano di simpatia e di identificazione con l’animo altrui, una prodigiosa memoria, il favore del caso e, sopratutto, una miracolosa capacità di deduzione.
Molti lettori hanno scorto, nel metodo di Dupin, la formula più elegante dell’analisi intellettuale moderna, che avrebbe prodotto, tra l’altro, la psicanalisi e la semiologia. Non avevano torto: Freud e Lévi-Strauss ereditarono il metodo del personaggio di Poe.
Ma Auguste Dupin è molto d’altro e di più. È un meraviglioso ciarlatano, che indossa ironicamente e beffardamente le vesti del visionario antico. Cancella l’esprit de geométrie: il dono dei poliziotti e dei matematici. E porta l’esprit de finesse, che Montaigne e Pascal avevano glorificato, al punto estremo di penetrazione, trasformandolo in una scienza che dà certezze più sicure del calcolo matematico.
Poe doveva compiere soltanto un ultimo passo. A lui il racconto — il puro racconto di Dumas o di Dickens o di Tolstoj — non bastava. Forse non gli piaceva. Così, dominato dall’ossessione mentale, trasformò il complesso analitico di Auguste Dupin nel racconto dei Tales of the Grotesque and Arabesque, ognuno dei quali è una deduzione analitica.
Qualche anno più tardi, Poe e Dumas, i due estremi opposti del puro metodo analitico e della pura narrazione, si incontrarono per caso. Nel 1860-1, circa vent’anni dopo la pubblicazione de Gli omicidi della Rue Morgue, Alexandre Dumas era a Napoli, dove pubblicava un quotidiano, «L’indipendente», per sostenere e appoggiare Garibaldi. Il 28 dicembre 1860 e l’8 gennaio 1861, fece tradurre Gli omicidi della Rue MorgueRoch col titolo L’assassinio di Rue Saint(pubblicato da Baldini e Castoldi, a cura di Ugo Cundari, pagine 108, euro 12). Non sapeva l’inglese: nessuno dei redattori dell’«Indipendente» sapeva l’inglese; così utilizzò la traduzione francese di Isabelle Meunier, oppure quella famosa di Baudelaire.
All’inizio del suo testo, Dumas raccontò che, nel 1832, si era rivolto a lui un giovane americano, Edgar Poe. «Al primo abordo — dice il mediocre testo italiano — riconobbi che avevo a che fare con un uomo rimarchevole, due o tre osservazioni ch’egli mi fece sul mio mobilio e gli oggetti che mi attorniavano, sulla maniera nella quale le mie robe erano sparse nella camera, sulla parte morale e intellettuale del mio individuo — mi colpirono per la loro giustezza e la loro veracità».
Come gli accadeva spesso, Dumas mentiva. Non aveva mai conosciuto Poe, che non era mai stato in Francia e in Italia. Sappiamo soltanto che il grande bugiardo — così bugiardo da cogliere il cuore della verità — arrivava tutte le mattine nell’ufficio dell’«Indipendente». Domandava il numero del giorno prima: dava una rapida occhiata alle appendici, dicendo: « C’est bien! ». Poi, con il cappello tra le mani congiunte dietro la schiena, passeggiava su e giù nell’ufficio, e a voce alta, staccando bene le parole, dettava: «Se vi è un paese ove i furti e gli assassinii siano frequenti, questi è Napoli. Se vi è un paese ove i furti e gli assassinii restino impuniti, è in Napoli».

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