martedì 31 maggio 2016

Rivalutare Rasputin per esorcizzare Lenin

Marco Natalizi: Il burattinaio dell’ultimo zar, Salerno

LA SAGGEZZA DI RASPUTIN
Marco Natalizi ricostruisce in un saggio (Salerno) le vicende del personaggio di umili origini che esercitò una grande influenza sulla famiglia imperiale russa Detestato e preso di mira dalla classe dirigente, venne assassinato nel 1916
Corriere della Sera 31 mag 2016 di Paolo Mieli
Non si sa neanche se sia nato nel 1863, nel 1864 o nel 1869. Di certo Grigorij Rasputin, destinato a diventare l’uomo più influente della Russia prerivoluzionaria di inizio Novecento, venne alla luce a Pokrovskoe, un poverissimo villaggio della Siberia sudoccidentale. Il censimento del 1897 registra lui, i genitori e la moglie come analfabeti. Gli anni dell’adolescenza — racconta Marco Natalizi in Il burattinaio dell’ultimo zar, che sta per essere dato alle stampe da Salerno — li trascorse tra ubriacature, eccessi sessuali, furti, zuffe e pestaggi. Una volta, per ordine del capo villaggio, fu condannato alla pubblica fustigazione. Ma nel profondo aveva qualcosa di strano, di inconsueto. In un’intervista pubblicata nel 1912 su «Novoe Vremja» si raccontò così: «Sognavo spesso e piangevo, e non sapevo nemmeno io il motivo, il perché di quelle lacrime».
Fu, prosegue Natalizi, «un adolescente rissoso, quasi reprobo nella sua comunità, contadino intemperante, e poi d’un tratto fervente religioso, inquieto credente pronto a sacrificare non tanto il contenuto della fede quanto il potere dei popy (parroci), riconosciuti come gli unici detentori di una sapienza particolare, autorevole e incontrastata». Anche questa «una tappa presto superata per vestire i panni del pellegrino alla ricerca di un cammino di perfezione radicale nei cenacoli dei nuovi movimenti religiosi e negli sperduti monasteri siberiani, dove si conservano credenze che la religione ufficiale tende a stemperare o a trasformare in formule razionali ritenute più adatte all’uomo moderno». Ciò che — in un breve lasso di tempo, a partire dal 1897 — lo fece diventare leader carismatico, starec, di una generazione di russi disorientati. Anche se circolava la voce che fosse membro dei Chlysty, i flagellanti, un movimento nato nel XVII secolo che sosteneva essere nelle possibilità di ogni essere umano farsi «nuovo Cristo». Laddove far parte dei Chlysty era considerato un vero e proprio marchio d’infamia per la Russia dell’epoca.
Il libro di Natalizi aggiunge molti elementi nuovi al classico Rasputin. Il «monaco nero» e la corte dell’ultimo zar (Einaudi) di Andrej Amalrik pubblicato in Italia oltre trent’anni fa. Si avvale di spunti contenuti in numerose pubblicazioni russe date alle stampe dopo la caduta del comunismo (prima tra tutte il Rasputin di Aleksej Varlamov) e nelle acute riflessioni di alcuni studi come All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin (1905-1939) di Simona Merlo (Guerini), Volti dell’anima russa. Identità culturale e spirituale del cristianesimo slavo-ortodosso di Natalino Valentini (Paoline), Un concilio nella rivoluzione. Religione e politica nella Russia del primo ’900 di Angelica Carpifave (Dehoniane).
A corte Rasputin arriva grazie al futuro vescovo e rettore dell’Accademia teologica di Pietroburgo, Feofan, che lo introduce alle granduchesse Milica e Anastasija (Stana) figlie del principe di Montenegro, grandi amiche di Nicola e Alessandra, ma soprattutto dedite alle pratiche dell’occultismo. Si conosce il giorno in cui avvenne il primo incontro tra il monaco e lo zar. Il 1 novembre 1905, Nicola II annota sul diario: «Abbiamo preso il tè da Milica e Stana e abbiamo fatto la conoscenza di un uomo di Dio». È Rasputin. L’anno, il 1905, è quello della conclusione della guerra con il Giappone iniziata nel 1904, delle grandi manifestazioni, della prima rivoluzione che si conclude allorché si impone come primo ministro Sergej Julevic Vitte, che costringe lo zar a firmare il «Manifesto sul perfezionamento delle strutture dello Stato», una sorta di capitolazione. Nicola si sente vittima di una cospirazione ordita dalla massoneria con il supporto del denaro ebraico. E quest’incubo complottista, assecondato dalla moglie (nipote, per parte di madre, della regina Vittoria), gli sconvolge la mente. Sul rapporto tra Nicola e Alessandra pesa il ricordo delle loro nozze (novembre 1894, a pochi giorni dalla scomparsa di Alessandro III). Come da usanza era stato offerto un grande pranzo per il popolo sul campo Chodinskij, ma si erano spezzate le assi dell’impalcatura e, mentre i sovrani inconsapevoli continuavano a danzare, centinaia di persone erano morte sotto la calca. A lungo Nicola e Alessandra avevano cercato un erede maschio e, dopo quattro femmine, erano stati «premiati», a dieci anni dal matrimonio, con la nascita di Alessio. Prima di questo evento (1904) l’imperatore aveva scelto di isolarsi e di consegnarsi a medium e taumaturghi. Dapprincipio Mitja «il Bleso», poi Matrëna «la Scalza» e ancora Monsieur Philippe «il mago di Lione». Tutti «scoperti» (e successivamente liquidati) dalle sorelle montenegrine per assecondare il desiderio dello zar di entrare in contatto con il proprio padre, Alessandro III. Poi però la padrona di uno dei salotti più alla moda della capitale, Olga Lochtina, racconta che Rasputin l’ha miracolosamente guarita da una grave forma di «nevrastenia intestinale» e all’improvviso la fama del monaco siberiano surclassa quella degli altri medium e guaritori. Nicola e Alessandra lo vogliono conoscere e le sorelle montenegrine organizzano il tè del 1 novembre 1905. Tra lui, lo zar e, soprattutto, la zarina è un incontro molto importante. Lo starec, infatti, non si limiterà a vegliare sulla salute del piccolo Alessio (emofiliaco), ma sarà in grado di guidare i sovrani lungo i sentieri di una politica dagli effetti stabilizzatori. Rasputin, per dirla con Natalizi, riuscirà a gettare «un ponte tra lo zar e la nazione».
Il ceto dirigente capisce immediatamente e gli si mette di traverso, Pietroburgo è inondata da pettegolezzi (spesso a sfondo sessuale) e già all’inizio del 1908 prende il via un’inchiesta contro l’uomo di Pokrovskoe. Che, però, ne esce illeso. Anzi, rafforzato. Alla guida del governo adesso c’è Pëtr Arkadevic Stolypin, il quale chiede su di lui un numero crescente di informazioni. A dicembre del 1908 sta per essere tratto in arresto, ma Milica lo nasconde per tre settimane. Sembra che da un momento all’altro debba scoppiare una guerra nei Balcani, dopo che nel 1908 l’Impero austroungarico ha annesso Bosnia ed Erzegovina. Ma Rasputin riesce a convincere lo zar del fatto che quella guerra è inopportuna. Di conseguenza, al ministero dell’Interno si diffondono voci sull’appartenenza del religioso alla massoneria.
I rapporti tra Rasputin e Stolypin si fanno tesi. La generalessa Bodanovic, animatrice di un importantissimo salotto pietroburghese, annota nelle sue memorie: « Circa tre settimane fa Stolypin è arrivato con un rapporto e ha dovuto aspettare mezz’ora dal momento che lo zar era da sua moglie, nella cui camera da letto c’era quello strambo». I sovrani, aggiunge più che contrariata, «hanno deciso il destino della guerra nei Balcani insieme al contadino anziché con lui (Stolypin)!». E quando nella primavera del 1909 Stolypin si scontra con il monaco reazionario Iliodor, accade qualcosa di clamoroso. Rasputin si schiera al fianco del religioso che accusa il governo di «complicità con i rivoluzionari», dopodiché convince Nicola e Alessandra a «perdonare» l’irruenza di Iliodor e persuade la zarina ad incontrarlo a casa della dama di corte Anna Vyrubova. A questo punto, metà del 1909, anche il vescovo Feofan raffredda i rapporti con la starec siberiano.
Trascorrono pochi mesi ed entra in gioco la stampa. Colpisce l’elevato grado di libertà e spregiudicatezza dell’informazione russa dell’epoca. «Moskovskie Vedomosti» adombra su di lui sospetti di eresia e prende di mira l’esuberanza sessuale del religioso. Un giornale di Pietroburgo, «Rec», allude in modo evidente alla sua influenza sul sovrano. Una bambinaia di Alessio, lo zarevic, sostiene di essere stata stuprata da Rasputin. E nella slavofila Mosca la campagna diffamatoria contro di lui non conosce confini. Stolypin cerca lo scontro finale, ma lo zar lo prende in contropiede e blocca le sue iniziative. Finché a Kiev all’inizio di settembre (1911) — durante la rappresentazione dell’opera Una vita per lo zar, in occasione dell’inaugurazione di un monumento ad Alessandro II — ci pensa un attentatore a togliere di torno quell’ingombrante primo ministro.
Ma gli articoli di giornale contro padre Grigorij riprendono, anzi si intensificano. E investono la Duma (l’assemblea rappresentativa russa) il cui Presidente, Michail Vladimirovic Rodzjanko, si mette in testa di «smascherare Rasputin» come appartenente alla massoneria. Lo fa, dice, per «salvare lo zar». L’8 marzo 1912 Aleksandr Ivanovic Guckov, leader del Partito ottobrista, pronuncia un discorso alla Duma in cui definisce Rasputin «un personaggio enigmatico, tragicomico, una specie di fantasma dell’altro mondo oppure un superstite di secoli d’ignoranza». E ipotizza che sia «un torturatore fanatico che compie il suo orrendo compito» o forse «un astuto avventuriero che manda avanti le sue losche faccenduole», dietro il quale «c’è un’intera banda». Il Rasputin descritto da Natalizi è però qualcosa di più complesso di ciò che ne dicevano all’epoca i numerosi detrattori. È vero che dal 1914, quando iniziò a prendere soldi dai postulanti e ad essere «roso dal demone dell’avidità», a «bere e a cedere a ogni sorta di passione per annegare l’amarezza della diffamazione che, ad eccezione dei sovrani, la Russia intera gli oppone», i suoi tratti diventeranno vieppiù sinistri. Ma i suoi consigli allo zar erano saggi. E la sua influenza cresceva sempre più.
Nelle lettere che tra loro si scambiavano, Nicola II di Russia e sua moglie Alessandra lo definivano, forse anche per non esplicitarne il nome, «il nostro Amico». La sua influenza sui sovrani russi continuò ad essere davvero notevole. «Il nostro Amico», scrive la zarina al consorte il 15 novembre 1915, «ha detto che tu dovresti ritornare all’improvviso e pronunciare qualche parola all’apertura della Duma». Ipotesi che verranno confermate dal ministro dell’Interno Aleksej Chvostov, tratto in arresto dopo la rivoluzione d’Ottobre: «Due o tre mesi prima che l’imperatore si presentasse davanti alla Duma, Rasputin aveva invitato gli agenti che lo pedinavano a prendere il tè, e uno di quei signori gli aveva domandato: “Perché sei triste Grigorij Efimovic?”. La risposta era stata: “Mi hanno chiesto di riflettere su cosa fare con la Duma … Sai cosa ti dico? Manderò lui stesso (lo zar) alla Duma, ci vada, ci faccia l’inaugurazione, e nessuno oserà dire niente”». E l’ex ministro all’Educazione, Aleksandr Manujlov ribadirà che Rasputin gli aveva annunciato che «il paparino» sarebbe andato al Parlamento russo «senza fare storie». Era un frangente delicatissimo nella vita politica russa: lo zar era alla ricerca di un gruppo dirigente coeso e questo dava luogo a un incessante avvicendamento di ministri. Nel Grigorij Rasputin (al centro, con la barba lunga e una mano sul petto) nel 1914, attorniato da un gruppo di ammiratrici e ammiratori nella sua casa di San Pietroburgo. Tra coloro che ne subivano il carisma c’erano vari esponenti dell’alta società russa, ma in genere il ceto dirigente gli era molto ostile pieno della Grande guerra, alla vigilia della rivoluzione di febbraio e del successivo colpo di Stato bolscevico (1917). Lo stesso Chvostov si diceva disponibile a pagare centomila rubli per l’uccisione di Rasputin e, in mancanza di alternative, a toglierlo di mezzo con le sue mani.
Risultato? La vicenda finisce sui giornali e il 3 marzo l’imperatore destituisce Chvostov. Aleksandr Dmitrevic Protopopov, nuovo ministro dell’Interno, riferirà di alcune sue impressioni sulle modalità della sua nomina: «Rasputin si dette veramente da fare per me? Probabilmente sì, anche perché mi aveva sempre lodato e poi perché mi ero sempre comportato con lui in modo da fargli capire che tutte quelle infamie che gli venivano rovesciate addosso e l’eventuale male che era stato fatto, non lo imputavo a lui». La sua influenza, dicevamo, cresceva anche dopo l’inizio della guerra mondiale e i suoi erano reiterati inviti alla prudenza. Anche a dispetto di qualche pubblica esibizione di fede patriottica. Racconta la dama di corte Anna Vyrubova che «Rasputin prediceva che la guerra sarebbe risultata molto gravosa per la Russia e avrebbe provocato perdite enormi». Enormi oltreché inutili. Alla fine di giugno del 1914, proprio nei giorni dell’uccisione dell’arciduca austriaco a Sarajevo, aveva subìto un primo attentato. Dopodiché l’Ochrana, la polizia zarista, aveva stabilito su di lui uno speciale servizio di sorveglianza nei cui rapporti, però, si poteva leggere più che altro quanto a casa sua si bevesse, quanto si ballasse e a quali dissolutezze ci si lasciasse andare e quanto si facesse «baccano».
Nel frattempo, primavera 1915, i tedeschi avanzavano e nel corso della ritirata i russi perdevano quasi un milione e mezzo di uomini. Subito erano riprese le chiacchiere sui complotti. Lo zar dava segni di cedimento e la zarina lo implorava: «Non ascoltare gli altri, ma soltanto la tua anima e il nostro Amico». Il quale «Amico» si distingueva per i suoi suggerimenti quasi sempre lungimiranti. Tant’è che il ministro dell’Interno Chvostov aveva suggerito che il monaco potesse prendere in prima persona le redini del governo.
Ma via via che le cose della guerra si mettevano male, l’ideologia complottista, a cui Rasputin si era sempre opposto, prendeva di mira lui e la zarina, accusati di essere una quinta colonna della Germania. Nelle crisi, scrive Marco Natalizi, «le percezioni e le credenze contano assai più della realtà e in questo caso la demonizzazione della corte consente di segnare a dito, quali colpevoli delle avversità belliche, personaggi influenti su cui riversare l’ira della gente». I preparativi per uccidere Rasputin avvengono quasi alla luce del sole. Il 21 novembre 1916 il principe Feliks Jusupov scriveva in una lettera: «Sono tremendamente impegnato nell’elaborazione del piano per eliminare Rasputin». Nella notte tra il 16 e il 17 dicembre il piano fu portato a compimento. Secondo alcune ricostruzioni storiche a ucciderlo avrebbero concorso i servizi segreti inglesi, nel timore che Rasputin inducesse lo zar a siglare una pace separata con la Germania. Natalizi dà poco credito a queste ipotesi. Ma è un fatto che se Nicola II avesse ascoltato i consigli di Rasputin sarebbe certamente rimasto sul trono. E fu invece la rivoluzione d’Ottobre. Quanto alla pace separata con la Germania, l’avrebbe conclusa Lenin appena 15 mesi dopo l’uccisione di Rasputin, nel marzo del 1918.

3 commenti:

Marco ha detto...

Caro Stefano, leggo un tuo post (se non si tratta di un omonimo...) su Sollevazione a proposito di CasaPound.
Sono stradaccordo con te e anzi, nonostante conosca bene i fascisti e tutti i loro sottotesti inaccettabili a cui oggi cercano di dare un aspetto esteriormente presentabile, li rispetto perché sono "andati dal popolo" nelle borgate, quello stesso popolo di cui troppi intellettuali della mostra parte dicono che "non è maturo", "non partecipa", "è diventato passivo". Ma si è mai sentito un fascista dire queste cose della sua gente? Se critica è solo verso gli altri, quelli imborghesiti o quelli che ritengono rammolliti dal comunismo.

Dobbiamo capire che il nostro nemico vero sono le élites globaliste cento volte più pericolose, più elusive, più colte e più spietate dell'estrema destra populista.
Non possiamo fondare la nostra identità e appartenenza politica sulla sterile distinzione da qualcuno che ci sta antipatico.
Discorso lungo, spero che si potrà approfondire.
Ti segnalo soltanto un frase tratta dal programma di CasaPound disponibile sul loro sito facendo presente a te e a chi legge che Iannone aveva detto tempo fa che gli immigrati sono l'esercito di riserva del capitale internazionale "come sosteneva Marx" (che è già una frase significativa); parlando della assoluta necessità di tornare al tempo indeterminato come forma "normale" del rapporto di lavoro scrivono testualmente: "Flessibilità, parola che significa l'assoluto dominio del capitale sul lavoro".
Dei fascisti che si esprimono in questi termini...
Sono e restano fascisti ma mentre noi siamo impantanti nel goffo tentativo di declinare in maniera "onorevole" certi concetti di destra che improvvisamente ci appaiono indispensabili come populismo e nazionalismo, loro non si creano problemi e se gli serve qualcosa di marxista la prendono e la usano tranquillamente.
Perché? Perché come dice Norberto Fragiacomo, credo senza nemmeno rendersene pienamente conto, facciamo coincidere interamente i nostri ideali e la nostra identità/appartenenza con delle "teorie" e dei concetti ottocenteschi per cui se dovessimo ammettere che i fatti storici e l'evoluzione del discorso della sinistra li hanno confutati ci troveremmo di fronte alla reazione di una base che si sentirebbe tradita (e nei fatti sappiamo cosa succede se a una riunione qualcuno si azzarda a proporre di ripensare, per esempio, l'idea di lotta di classe).
La destra invece separa nettamente la teoria dagli ideali i quali nel loro modo di vedere hanno il fondamento non nei concetti ma nel "destino" il che gli consente una capacità di adattamento ai tempi e alle contingenze enormemente maggiore.

La nostra coerenza ci viene proprio dagli ideali del comunismo che non sono "mai" cambiati: la ribellione (ribellione) contro l'oppressione dei popoli (ricordo tra l'altro che moltissimi movimenti di indipendenza del XX secolo nel terzo mondo - e non solo - erano marcatamente nazionalisti), la fratellanza con chiunque sia costretto per nascita e per altre circostanze ad avere come unica opzione di sopravvivenza quella di doversi piegare materialmente, culturalmente e spiritualmente a un sistema basato sul dominio e sullo sfruttamento divenendone incolpevolmente complice, il desiderio di emancipazione culturale di una collettività che vuole essere libera di esercitare un proprio discorso in quanto comunità e non solo sottomettendosi per imparare e adeguarsi a quello monopolizzato dalle oligarchie, l'orgoglio di confrontarsi senza soggezione con l'autorità, con la ricchezza, con il potere non rinnegando mai l'dentità e il senso di appartenenza originari di chi è nato in mezzo al popolo.

Marco ha detto...

CONTINUA...

Il resto, la teoria, i concetti, i programmi sono solo funzionali a questi ideali che sono validi perché "noi vogliamo che lo siano" e basta, non perché derivano la loro validità da qualche dimostrazione o assioma filosofico-economico.
Perché rinasca questo spirito occorre ritornare alle radici profonde dei movimenti di sinistra che sono nel rapporto fra gli intellettuali e il popolo. Non nelle modalità "didattiche" del XIX secolo ma adattandole a un tempo in cui la narrazione non può più nascere da un gruppo ristretto che poi si occuperà di veicolarla (magari in maniera semplificata perché la gente poverina non capisce) ma da un discorso in cui gli intellettuali parlano, ASCOLTANO e si confrontano col popolo.
Alla gente non manca la comprensione dei concetti, manca il poter parlare. Sentono che gli mancano le parole e che nessuno è disposto al dialogo se prima non sono in grado di esprimere delle idee "perfettamente coerenti" e irreprensibili dal punto di vista formale.
E ovviamente vanno dove li si ascolta così come sono, cioè a destra.
Gli intellettuali invece "devono" andare dal popolo ad ascoltare e a rielaborare insieme una narrazione che sarà di qualità completamente diversa.
Solo quando sorgerà una nuova ermeneutica collettiva, solo quando la gente all'interno della sinistra si sentirà padrona di un linguaggio "suo" adatto al mutamento dei tempi, solo - soprattutto - quando si sarà ristabilito un rapporto umano fra intellettuali e popolo si diventerà disponibili a comprendere i concetti.
Al di fuori di questo rapporto i concetti possono anche avere una loro verità oggettiva ma sono del tutto privi di significato.
Questo va fatto nelle borgate, nelle fabbriche ma anche (urgentemente) su internet che ovviamente è il presente e il futuro (Grillo ci ha fatto il 25%, vorrei ricordare).


Comunque la strada è quella di quel tuo post su Sollevazione. Continuiamo così, smettiamo i toni piccolo borghesi sempre moderati e meschinamente razionalistici a tutti i costi, andiamo dal popolo per farlo parlare delle sue necessità contingenti, per tradurre in linguaggio coerente la protesta disordinata e non per "insegnargli" qualcosa.
Facciamoli arrabbiare, dimostriamogli che sono vittime di un inganno, che sono abbandonari da un potere che vuole solo il loro sfruttamento e la loro umiliazione, che è la sola rivelazione che porta davvero alla ribellione e alla voglia di impegnarsi tutti insieme.

Ma la cosa più importante di tutte: andiamo dal popolo per sentirci popolo noi stessi, per accorgerci con stupore che solo lì ritroviamo un antico senso di appartenenza perduto che ci mancava profondamente e che è l'unico per noi vero e autentico.

materialismostorico ha detto...

Ti ringrazio. Temo che per tutto ciò sia tardi.