sabato 28 maggio 2016

Roberto Esposito risponde a Toni Negri


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Il sintomo immaginario nel «difetto di politica» 

POLEMICHE. La risposta del filosofo alle critiche mosse al suo saggio. Il rischio di deriva vitalistica individuato da Toni Negri nella sua recensione al libro «Da fuori. Una filosofia per l’Europa» non è riscontrabile. Le posizioni controverse sono spesso riconducibili alle stesse opere del teorico padovano 

Roberto Esposito Manifesto 28.5.2016, 0:03 
Su queste pagine martedì 17 maggio Toni Negri ha dedicato un articolo, importante e critico – importante perché critico – al mio recente libro Da fuori. Una filosofia per l’Europa (Einaudi). Il suo rilievo sta nel fatto che con esso Negri apre una discussione sul pensiero italiano contemporaneo, rompendo la tendenza «monastica» che connota questa fase della produzione intellettuale soprattutto nel nostro Paese. 
Tra i tanti cultori dell’a solo, un protagonista di primo piano della vita pubblica italiana interviene criticamente su un altro testo, mettendo in luce con chiarezza concordanze e divergenze da esso. Naturalmente mi soffermo soprattutto sulle seconde, enfatizzate nel titolo e nel sottotitolo che i redattori del Manifesto hanno dato al suo intervento, calcando l’accento sulle «rassicuranti e impolitiche tonalità naturalistiche» di un libro – quello mio – che addirittura metterebbe «fuori gioco il nostro pensiero vitale». 
Se si considera che il libro in questione inizia con una frase di Hegel che esalta il conflitto e si chiude sulla necessità dello scontro tra i due popoli che si fronteggiano in Europa come, secondo Machiavelli e Vico, facevano i «popolari» e i «Grandi» nell’antica Roma, c’è da rimanere sorpresi.
In verità Negri è troppo avvertito per scriverlo in un articolo molto più mosso e articolato. Anch’egli, però, vede il rischio, nel mio testo, di una deriva vitalistica e perfino naturalistica. E dunque di un possibile esito impolitico della «biopolitica affermativa» che da qualche anno sto provando a elaborare. 
Il paradosso che, secondo Negri, si delineerebbe nelle mie pagine è che «per dar contenuto alla forza vitale» finirei per «toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura». L’accusa si appoggia in realtà su non più di cinque pagine in cui richiamo la posizione di tre autori italiani – Adriano Tilgher, Giuseppe Rensi e Giorgio Colli – che contrappongono la vita alla forme in una maniera non mediabile dal concetto. Immaginare che la mia posizione coincida con la loro, in un libro di 243 pagine dedicato ai maggiori filosofi europei, è non solo fuorviante. È quel che, in linguaggio analitico, si direbbe un sintomo. Perché se c’è un autore che fa della vita, ricondotta alla sua potenza naturale, il perno della proprio proposta politica è proprio Negri. Fin nella prefazione a Comune (Rizzoli) egli scrive che l’avvento del comune presuppone la riunificazione dell’umanità e della natura con una tonalità che richiama Marcuse non meno di Deleuze: «La natura non fa salti come dicono gli evoluzionisti. Il cambiamento è tuttavia possibile a partire dagli strati più profondi del mondo e di noi stessi. Abbiamo la possibilità di intervenire in questo processo per orientarlo lungo le linee del nostro desiderio, verso la felicità». 
Negri ha pagine di grande efficacia, e anche di suggestione letteraria, in cui la categoria di produzione si articola con forza con quella di soggettività, convocando insieme desiderio, felicità, amore. La vita costituisce l’orizzonte ontologico in cui la moltitudine è destinata a travolgere gli ostacoli che ancora ne vincolano l’infinita potenza produttiva. Si direbbe che, pur nella gabbia dell’attuale globalizzazione, l’affermazione possa liberarsi del tutto dal negativo in un pieno appagamento degli istinti allo stesso tempo naturali e sociali. 
Qui Spinoza – uno Spinoza radicalmente antihobbesiano – incontra, oltre Marx, la grande tradizione utopistica della liberazione integrale, perdendo i contatti con il realismo che pure è al cuore del pensiero italiano, da Machiavelli al primo Tronti. In più occasioni ho apprezzato il tentativo di Negri di mettere in campo una linea di pensiero esterna al lessico teologico in cui è risucchiato invece il pensiero di altri autori italiani. Ma attribuire proprio a me un impulso vitalista e naturalista è quantomeno singolare. 
La mia impressione è che, contrariamente a quanto si può ritenere, in Negri ci sia un difetto e non un eccesso di politica. Almeno se per politica si intenda una chiara determinazione del fronte su cui ci si divide e delle forza cui ci si contrappone. La stessa categoria di moltitudine – come del resto quella di produzione – rischia di non oltrepassare la soglia della politica. Quanto più capace di inglobare le più varie forme di soggettività, tanto meno è in grado di esibire una precisa connotazione politica. Essa finisce per sottrarre l’orizzonte ontologico al lessico politico. Del resto è Negri stesso a ricordare quanto «l’ontologia sia più fondamentale del politico» (Kairós, Alma Venus, Multitudo, il Manifestolibri). 
Questa difficoltà ad incontrare la politica è il problema di tutte le grandi filosofie immanentistiche – da Bruno, a Spinoza a Deleuze. Una volta abolito il negativo, è difficile individuare il punto, o la linea, del contrasto. Anche il potere costituente, la cui teoria pure rappresenta forse il maggior contributo di Negri all’Italian Thought, rischia di «esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto». Sono le parole che l’autore rivolge in forma critica verso di me. Ma che ben si potrebbero indirizzare a lui.
Naturalmente la storia politica di Negri ha avuto una tenuta indiscutibile sotto il profilo di un impegno mai venuto meno. La difficoltà sta piuttosto nella sua difficile articolazione con la filosofia. È come se filosofia e politica, nel suo caso, finissero, anziché per rafforzarsi a vicenda, per indebolirsi reciprocamente. 
Prendiamo la questione europea. Negri ha in più di un’occasione espresso la sua adesione a una prospettiva europeista – ovviamente diversa da quella della grande maggioranza dei dirigenti europei, segnata da diseguaglianze insostenibili e piegata agli interessi della finanza globale. Ma, ancora una volta, come desumerla dal paradigma di impero, che pure Negri ha avuto il merito di elaborare in anni recenti? Se l’impero, inteso come l’attuale ordine del mondo, non ammette un «fuori», dove situare e come connotare la specificità dell’Europa? 
Come è noto, le contraddizioni fanno spesso tutt’uno con l’interesse di un pensiero. Ne rivelano la radicalità e il coraggio, l’intelligenza e la passione. L’opera di Negri ne costituisce un’ulteriore riprova. Affrontare con franchezza, e anche con asprezza, il pensiero di altri, quando è tale, è sempre segno di forza e di generosità. Che merita una risposta altrettanto franca e decisa. Spero che questi interventi stimolino un dibattito su questioni, di filosofia e di politica, che ci uniscono in un orizzonte comune più ampio e profondo delle differenze che pure lo solcano.

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