lunedì 16 maggio 2016

Schiavitù ieri e oggi

Nietzsche e Mussolini. la morale delle catene
Filosofia La riduzione di esseri umani a merce ha trovato difensori agguerriti e autorevoli fino a tempi molto recenti di Luciano Canfora Corriere La Lettura 15.5.16
L’esigenza di ridurre alcuni gruppi umani in schiavitù per migliorare la condizione di altri è ben presente nella cultura oligarchica antica e moderna. Ne fu assertore, in pieno secolo XIX, il fior fiore dell’élite politica sudista negli Stati Uniti d’America. Basti pensare alle Remarks di John Calhoun (1838), principale ideologo della secessione sudista nonché assertore del «modello ateniese a Charleston».
L’abrogazione della schiavitù in colonia fu sancita per la prima volta dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio del 1794, non senza resistenze e ambiguità. Nel frattempo la Francia repubblicana aveva quasi completamente perso il controllo delle sue colonie, per cui quella abrogazione rimase lettera morta. L’iniziativa teneva dietro ad una lunga e dolorosa storia di schiavismo, la cosiddetta «tratta», su cui è uscito di recente presso il Mulino un importante volume di Salvatore Bono: Schiavi, una storia mediterranea (secoli XVI-XIX) . La Seconda Repubblica francese si pose daccapo il problema e lo affrontò sin da subito (febbraio 1848) ad opera di alcuni parlamentari di diversa ispirazione politica, il più noto dei quali fu Henri Wallon, autore di una memorabile Histoire de l’esclavage .
Ma la pratica della schiavitù, che l’Europa aveva trasferito nel Nuovo Mondo, appunto nel Nuovo Mondo aveva continuato a fiorire. E anzi, era stata prospettata come istituzione legittima in una delle bozze costituzionali formulate al sorgere stesso degli Stati Uniti d’America. Una tale sanzione non sarebbe stata comunque necessaria, giacché di fatto la schiavitù sussisteva e fioriva soprattutto negli Stati del Sud dell’Unione, dove le piantagioni di cotone erano la principale risorsa economica, e gli schiavi la principale manodopera. La sanguinosissima guerra tra Nord e Sud (1861-1865) fu solo in parte una resa dei conti definitiva. Basti pensare — se ci si riferisce alla prassi concreta — che la parificazione dei diritti tra bianchi e neri fu una battaglia degli anni Sessanta del secolo XX, e che solo all’inizio degli anni Novanta del Novecento lo Stato del Mississippi abrogò in modo esplicito l’istituto della schiavitù. Chi aveva continuato a difenderlo — soprattutto la pubblicistica di metà Ottocento — contrapponeva la dura e logorante condizione dell’operaio di fabbrica (14 ore lavorative) alla situazione «familiare» in cui lo schiavo delle piantagioni viveva, quasi parte integrante, di una realtà produttivo-familiare a conduzione paternalistica. Ed è contro la giustificazione paternalistica della schiavitù che si era scagliato per l’appunto Wallon nella introduzione alla sua Histoire .
Nella «civile» Europa intanto la schiavitù trovava — all’incirca nel tempo in cui gli Stati Uniti erano dilaniati dalla guerra (raccontata in Europa da cronisti d’eccezione come Karl Marx) — dei difensori agguerriti sul piano teorico e perciò lontanissimi anche dalla giustificazione paternalistica della schiavitù. Il più noto tra tutti è Friedrich Nietzsche, i cui argomenti affascinavano, ancora decenni dopo, Benito Mussolini, dirigente socialista e collaboratore (1908) del «Pensiero romagnolo».
Tra le formulazioni più esplicite di Nietzsche è nota quella contenuta nelle conferenze intitolate Sull’avvenire delle nostre scuole (1871-1873). Qui viene ribadita la insostituibile funzione della schiavitù in rapporto allo sviluppo della civiltà greca: «Anche se fosse vero che i Greci furono rovinati dalla schiavitù, molto più certa è quest’altra verità, che noi saremo rovinati dalla mancanza di schiavitù» (edizione Kroner, I, p. 153). La novità — commentò György Lukács — è che Nietzsche utilizza la schiavitù come mezzo per la critica della società presente. Fa eco a Nietzsche, quasi alla lettera, Charles Maurras: «Quanti schiavi ritroverebbero la loro pace dentro quegli ergastoli dai quali la storia moderna li ha stoltamente sottratti. Il disprezzo dovrebbe colpire chiunque faccia vagire la prima concupiscenza nel cervello e nelle viscere di un primitivo e diminuisca il privilegio che a volte questi hanno di morire senza essere vissuti» ( Le chemin de paradis ).
In Mussolini il disprezzo-timore per gli schiavi si polarizza sugli schiavi di età romana in un celebre suo scritto, La filosofia della forza , in polemica col compagno di partito, all’epoca ben più autorevole di lui nel Psi, Claudio Treves. «La morale degli schiavi — scrive in quel saggio del 1908 il futuro Duce — finisce per avvelenare la gioia del tramonto alle vecchie caste e i deboli trionfano e i pallidi giudei sfasciano Roma». È sintomatico che in tutto il saggio Mussolini contrapponga Nietzsche, col quale è in piena sintonia, a Claudio Treves.
La conclusione della Seconda guerra mondiale, con le proclamazione solenni che ne scaturirono e le istituzioni che allora furono poste in essere, parve cancellare per sempre il fenomeno. Ma l’eliminazione del predominio coloniale dell’Occidente su gran parte del mondo fu tutt’altro che indolore. Ed oggi, inoltratici ormai nel secolo XXI, ci si para di fronte una novità strutturale: alla antica opposizione tra modello capitalistico e modello schiavistico, di cui s’è detto prima, è subentrata la compenetrazione dei due modelli. Lo sfruttamento di manodopera schiavile e semischiavile costituisce oggi un caposaldo di ciò che tuttora conviene definire «profitto capitalistico».

Corsi e ricorsi della schiavitùNon vi è momento nella storia in cui l’uomo non abbia ridotto i propri simili in uno stato di asservimento, per poi emanciparsene. L’Isis rappresenta un ritorno ai giorni più bui

Ehud R. Toledano Domenicale 15 5 2016
Nell’agosto del 2014, circa un mese dopo la proclamazione del sedicente Califfato, le forze dello Stato islamico (noto anche come Is, Isis, Isil o Daesh) conquistarono la città di Sinjar, nel nord dell’Iraq. Decine di migliaia di yazidi, la maggioranza della popolazione, furono dichiarati setta eretica, e gli esperti di diritto del Califfato decretarono che fosse legale ridurre in schiavitù le donne yazide, qualunque età esse avessero. Nei mesi seguenti, oltre 100mila rifugiati yazidi fuggirono sul monte Sinjar, dove subirono l’assedio dei combattenti dell’Is fino a quando le forze curde, col sostegno dell’aeronautica statunitense, ne portarono in salvo la maggior parte. E tuttavia, a partire dalla fine del mese, l’Onu e altre organizzazioni umanitarie ricevettero rapporti attendibili che descrivevano nel dettaglio la cattura, la riduzione in schiavitù e la distribuzione di migliaia di donne e ragazze yazide. Queste venivano assegnate o vendute a uomini dell’Is come mogli, concubine o semplicemente schiave sessuali. Abolita da un secolo nella regione, la schiavitù ricompariva, legalizzata, nei territori sotto il dominio del Califfato in Iraq e Siria.
Non vi è momento nella storia in cui l’uomo non abbia ridotto i propri simili in schiavitù. Quasi tutte le civiltà, in una fase o nell’altra del proprio sviluppo, hanno sanzionato legalmente l’asservimento di esseri umani ad altri, e così hanno fatto tutte le religioni, monoteistiche e non. In questo contesto, le società musulmane non rappresentano un’eccezione: gli ultimi tre grandi imperi, quello ottomano in Medio Oriente e nei Balcani, quello qajar in Iran e quello moghul in India hanno approvato la schiavitù, applicando la shari'a per regolamentare il trattamento degli schiavi. Questi erano costretti a prestare una varietà di servizi, da quello domestico alla raccolta delle perle, dal lavoro nelle miniere a quello nei campi. Il reclutamento forzato avveniva in giovane età, e i servi destinati a divenire alti funzionari nella burocrazia civile e militare provenivano principalmente dall’area balcanica. Ciascuna mansione comportava differenti doveri, differenti ambienti di lavoro e differenti rapporti coi padroni, ma tutti questi uomini e donne condividevano l’assenza di libertà e una severa restrizione dei propri diritti. Il tutto era sanzionato dalla legge.
Dal XIX secolo la tratta atlantica degli schiavi subì un graduale arresto, e la schiavitù fu abolita in Europa e nelle Americhe. Le potenze europee, con in prima fila la Gran Bretagna, iniziarono a far pressione sugli imperi ottomano e qajar affinché intraprendessero lo stesso cammino. Intorno alla metà del secolo questi posero fine alla tratta degli schiavi africani attraverso i loro confini, ma fu soltanto con il collasso dei due imperi e con l’ascesa degli Stati successori moderni che la schiavitù in sé vi fu abolita. Per quanto da allora essa si sia ripresentata tale e quale a prima in molte società, dal punto di vista del diritto è scomparsa dal mondo civilizzato. Il rovesciamento di questa realtà da parte dello Stato islamico rappresenta dunque un disastroso passo indietro, un ritorno ai giorni bui dell’umanità.
Con la decisione di riportare in vita, ostentandola con orgoglio, l’efferata pratica della schiavitù, le autorità legali e teologiche dell’Is affermarono di limitarsi ad applicare la shari’a e le usanze delle prime comunità islamiche. Anche qui, come per altri ambiti della vita quotidiana, si assiste al rigetto di un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del Corano e della vita del Profeta all’evolversi della realtà sociale. L’Islam ha senza dubbio autorizzato la schiavitù, ma la ha anche regolamentata da un punto di vista legale, a protezione delle vittime. L’affrancamento dopo alcuni anni di servizio era incoraggiato, e considerato atto meritorio. Le vie per l’emancipazione erano numerose. In maniera analoga, alle concubine veniva garantito di non poter esser rivendute se incinte, e alla morte del padrone ottenevano la libertà. I figli di queste unioni, se riconosciuti dal padre, erano anch’essi uomini liberi. In queste società schiaviste, l’integrazione era un fenomeno diffuso.
Queste ultime due misure garantivano la costante riduzione del numero di schiavi: si rivelavano dunque necessarie nuove vie per soddisfare una domanda constante e inflessibile. Fino a quando vi riuscirono, gli Stati islamici si procurarono schiavi per mezzo delle conquiste. Tuttavia, una volta esaurita la spinta espansionistica all’inizio del XIX secolo, essi dovettero acquistare e importare schiavi dai trafficanti che imperversavano nelle fragili società ai margini degli imperi musulmani. Lo Stato regolamentava il traffico degli schiavi, i listini dei prezzi erano pubblici e dazi doganali venivano riscossi nei luoghi di transito. Nello stesso periodo, tuttavia, il numero dei funzionari militari e civili fu fortemente ridotto, anche se alcuni di loro conservarono posizioni di prestigio fino alla fine del secolo.
Nel corso dell’Ottocento, un’intricata rete di traffici per terra e per mare riversò centinaia di migliaia di schiavi africani, circassi, georgiani, greci e russi nei territori ottomani e qajar. Con la graduale applicazione dello Slave Trade Act del 1807, parte di questa “merce umana” fu dirottata dai mercati atlantici a quelli mediorientali e nordafricani, facendo confluire ogni anno nell’impero ottomano circa 15mila uomini e donne di origine africana, ai quali vanno aggiunti circa 3mila provenienti dal Caucaso. Si trattava perlopiù di donne destinate ai servizi domestici degli harem delle élites urbane. La schiavitù agricola era scomparsa nel XVII secolo, ma fu reintrodotta per un breve periodo in due occasioni: nell’Egitto ottomano negli anni Sessanta dell’Ottocento per la coltivazione del cotone, e quando famiglie di agricoltori circasse entrarono nell’impero dopo la pulizia etnica orchestrata dai russi del Caucaso intorno alla metà dello stesso decennio. I mercati degli schiavi erano stati aboliti venti anni prima, e la tratta degli africani nel 1857, ma il traffico continuò per vie private – anche nell’harem imperiale – fino alla fine del secolo. Nel 1904, il registro degli eunuchi imperiali conteneva le informazioni biografiche di non meno di 196 persone.
Oggi il traffico degli schiavi viene studiato come una forma di migrazione forzata o coatta. Questo approccio ci permette di comprendere meglio i movimenti non volontari di popolazioni. Mentre le migrazioni “ordinarie” del passato e del presente sono caratterizzate perlopiù da fattori di “push and pull” (spinta – o espulsione – e attrazione), questi sono in gran parte assenti in quelle forzate. Comuni invece a tutti i tipi di migrazioni, volontarie e coatte, sono questioni importanti come la recisione dal proprio milieu socio-culturale, l’integrazione nelle società “ospiti”, la nascita di comunità della diaspora, e la gestione emotiva del trauma dello sradicamento. La situazione dei rifugiati e delle vittime di pulizie etniche (come coloro che giungono in questi giorni in Europa dal Medio Oriente), privati dei loro diritti e della loro stessa umanità, non è dissimile da quella degli africani e dei caucasici ridotti in schiavitù dagli imperi qajar e ottomano nel XIX secolo.
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35 milioni di schiavi
Denunce Il commercio di braccia prospera in tanti Paesi: Ghana, Bangladesh, Birmania, Congo
Oggi Kevin Bales: il lavoro servile nuoce anche all’ambiente
Abolirlo aiuta l’economia. E tutti possiamo contribuire
di Michele Farina Corriere La Lettura 15.5.16
Il Protocollo Onu e il caso Italia
In vigore il giorno di Natale del 2003, nel 2006 ratificato dall’Italia, tra i primi Paesi firmatari nel 2000: è il Protocollo Onu sulla Tratta, documento sulla lotta alla schiavitù. Lo hanno sottoscritto 166 Stati ma «sono almeno 152 quelli di origine e 124 quelli di destinazione dei traffici». Da qui la giornalista Anna Pozzi parte per scrivere il crudo Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo (San Paolo, pp. 215, e 14,50). Non ci sono innocenti: 82 le pagine dedicate all’Italia.
Dei bambini di Dublar Char non si parla spesso. E basandoci su Wikipedia potremmo anche invidiarli: crescono su «una bellissima isoletta» nella regione dei Sundarbans, in Bangladesh, «famosa per i suoi panorami da favola». Ma Kevin Bales racconta un’altra storia, e così facendo forse ci fa andare di traverso anche i gamberi in salsa rosa all’ora dell’aperitivo. «Migliaia di bambini vivono come schiavi a Dublar Char e su altre bellissime isole che si affacciano sul Golfo del Bengala». Il professor Bales, americano residente in Gran Bretagna, ne ha incontrati alcuni: chi come Shumir suda e viene picchiato dai caporali nei capannoni del pesce, chi passa le giornate a maneggiare gamberetti senza un compenso, alla mercé di «imprenditori» protetti da amministratori corrotti. Cinquant’anni fa «non c’erano allevamenti di gamberi al posto delle mangrovie su quelle isole che già allora venivano menzionate nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco, protette dalla lontananza estrema più che dalle leggi del parco nazionale». Le mangrovie, strane piante che crescono in mare, sono grandi raccoglitrici di anidride carbonica. La loro distruzione fa male al pianeta, argomenta Bales, e va di pari passo con la permanenza della schiavitù su quelle isole.
Dagli allevamenti nel Golfo del Bengala alle miniere d’oro abusive in Ghana, dai giacimenti congolesi di tantalio (il metallo che è l’anima dei nostri smartphone) alle foreste amazzoniche, fino al granito scavato illegalmente in India (da dove i tedeschi importano a buon mercato le lapidi dei loro cimiteri): sempre affiora lo stesso legame segreto. Moderna schiavitù e disastro ambientale sono facce della stessa moneta, sfregi allo stesso pianeta. Per documentare questo legame criminale Bales, già autore di un folgorante libro dal titolo I nuovi schiavi , uscito in Italia nel 2000 da Feltrinelli, negli ultimi sette anni ha viaggiato e raccolto le storie che danno corpo a Blood and Earth , un nuovo volume pubblicato in America nel gennaio 2016 e non ancora tradotto in italiano.
Ospite al Festival èStoria che si tiene a Gorizia dal 19 al 22 maggio, questo americano dell’Oklahoma, cresciuto nell’epoca (e sotto l’influenza) delle campagne per i diritti civili dei neri, di recente trapiantato a Brighton e ora residente su un’isoletta della Manica, spiega con pacatezza che «abbiamo un motivo in più per porre fine alle moderne forme di schiavitù: la difesa dell’ambiente».
Di schiavi ne nascono sempre nuovi...
«Se fosse uno Stato unico, l’attuale sistema schiavista globale conterebbe all’incirca lo stesso numero di abitanti della California, 35 milioni di persone, e sarebbe il terzo produttore di anidride carbonica dopo Cina e Stati Uniti».
Addirittura?
«Chiamiamo ecocidio la distruzione massiva dell’ambiente naturale. La deforestazione è una componente significativa di questo processo. Ed è attuata in buona parte ricorrendo all’economia del lavoro forzato. Se il 40 per cento della deforestazione globale è basata sull’opera degli schiavi, vuol dire che la schiavitù da sola è responsabile di almeno 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno».
Ma anche se si liberassero gli schiavi, gli alberi continuerebbero a essere tagliati da uomini liberi.
«L’economia della schiavitù si fonda sullo sfruttamento e sull’illegalità. Ed è redditizia solo per i criminali, come la corruzione. Rovina l’ambiente e dunque toglie agli schiavi che riescono ad affrancarsi ogni possibilità di trovare mezzi di sostentamento. Ma senza lo sfruttamento, non sta in piedi».
Lei ha incontrato donne e bambini che vivono da schiavi sulle isole nel Golfo del Bengala, prigionieri della catena di debiti e mancati compensi. Nessuno fa nulla anche a causa della corruzione degli amministratori. E noi consumatori lontani?
«Noi siamo solo una piccola parte del problema. Credo sia sbagliato colpevolizzarci. Però possiamo adottare strategie positive. Negli Stati Uniti puoi decidere di acquistare gamberi della Louisiana. Se voi in Europa non avete la possibilità di scegliere la provenienza, potete decidere di mangiare le seppioline. Io dopo quel viaggio ho smesso di comprare gamberi. È vero che alcuni grandi importatori ora sono più attenti, dicono che vogliono introdurre ispezioni più serie. Ma per ripulire, diciamo così, i canali dell’offerta ci vogliono comunque anni. Anche se sulla carta non c’è Stato che non condanni la schiavitù».
Non ha incontrato segnali di miglioramento?
«Ce ne sono due significativi. Primo: una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica. Vent’anni fa mi dicevano: “Perché ti occupi di questa roba? La schiavitù è finita da un pezzo”. Ora la gente sa che esiste il problema. E in parallelo, crescono le risorse per contrastarlo. Non tanto da parte dei governi, è interessante notarlo, quanto grazie a istituzioni private, fondazioni, iniziative di miliardari come il Freedom Fund, che in pochi anni hanno portato alla liberazione di migliaia di persone».
E a livello locale?
«Bisogna sostenere quei piccoli gruppi anti-schiavitù animati da persone che in vari Paesi lavorano per i diritti umani rischiando la vita. Sono i miei eroi. I Paesi ricchi dovrebbero appoggiarli con vigore e costanza. Gli schiavi non consumano. Per questo chi lavora per liberare gli schiavi crea un “dividendo di libertà” che fa crescere anche l’economia. E lo stesso ragionamento vale per i migranti».
Ci sono Paesi che sfuggono ai radar?
«In Cina sono bravi a non mostrare quello che avviene per esempio nelle campagne. Abbiamo poche informazioni. In Birmania un paio d’anni fa il responsabile della lotta al traffico di esseri umani mi diceva: “Prima il nostro grande problema era la tratta di lavoratori e prostitute verso la Thailandia. Adesso è il traffico di donne verso la Cina: le cinesi non vogliono più sposare i contadini. Così loro comprano le mogli da noi”. Poi naturalmente c’è la Corea del Nord. Mentre stendevamo la nuova versione dell’Indice della Schiavitù Globale ci chiedevamo: e i nordcoreani dove li mettiamo? Quello è un regime di lavori forzati per tutti gli abitanti...».
Il presidente Barack Obama ha fatto abbastanza per ridurre la schiavitù nel mondo?
«Il suo bilancio è molto positivo. Alla fine, molte delle cose per cui l’attuale presidente sarà ricordato riguardano la promozione dei diritti umani. Anche nelle ultime settimane ha usato i suoi poteri straordinari per chiudere alcuni buchi legislativi che permettevano l’importazione di prodotti non slavery-free . Il predecessore di Obama, George W. Bush, su questi temi era solo parole».
Torniamo alla maledizione del gambero del Bangladesh: allora un po’ ha ragione Donald Trump, quando dice che il problema è il commercio...
«Sta scherzando? È una questione complessa e il commercio non è il colpevole. Se si fermassero le esportazioni ittiche, le donne delle isole non credo troverebbero un’altra fonte di entrate paragonabile a quella attuale, sia pure miserrima, mentre i loro uomini sono lontani e non sostengono il reddito delle famiglie. I bambini-schiavi smetterebbero di essere mangiati dalle tigri, come accade oggi quando riescono ad allontanarsi dall’inferno di lavoro? Forse. Ma più a fondo si tratta di cercare modi, compreso il boicottaggio, per dare un’occupazione dignitosa, un dividendo di libertà, ai nuovi schiavi».
E intanto, per noi consumatori: niente gamberi dei Sundarbans né tantalio del Congo...
«Credo che la prima regola del consumatore responsabile sia: non sentirsi colpevole. Dobbiamo pensarla in modo positivo, altrimenti finiamo per rifuggire completamente dal problema. Seconda regola: negli acquisti, rimpiazzare i prodotti la cui provenienza pulita non è sicura. Per esempio acquistando local. Terzo: se proprio qualcosa ci piace parecchio, rivolgiamoci al produttore chiedendo spiegazioni. Se questo diventa un movimento di massa, qualcosa cambia. E sta cambiando».
Le armi contro gli schiavisti?
«Ho letto che le guardie anti-bracconaggio di un parco del Kenya hanno fucili da cecchini e grilletto facile. È una complicata questione morale, ma quando l’ho letto confesso di aver pensato: se vale per proteggere i rinoceronti, per gli schiavi no?».

Dagli eunuchi all'Isis: la schiavitù sotto l'islam
A Gorizia si discute di tratta e asservimento a partire dall'antichità. Con ampio spazio dedicato anche alle vicende della Mezzaluna
Matteo Sacchi Giornale - Ven, 20/05/2016

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