sabato 28 maggio 2016

Thomas Mann a Zurigo: La decisione

Britta Böhler: La decisione, Guanda traduzione di Laura Pignatti pagg. 200 euro 15

Risvolto
È il 1936 e Thomas Mann, in esilio volontario in Svizzera da quando tre anni prima Hitler è asceso al potere, si trova in un momento molto delicato della sua vita. Ha dovuto lasciare Monaco, dove gli è stata confiscata la casa, e il distacco, anche se alleviato dalla bellezza del lago di Zurigo e dalla vicinanza della famiglia, lo riempie di malinconia. Ma non è ancora tutto. Al contrario del fratello Heinrich e del figlio Klaus, non ha finora espresso in modo netto e definitivo il suo j'accuse al nazismo. E ora questo gli viene chiesto da più parti: dalla figlia Erika, dal mondo intellettuale, dall'opinione pubblica internazionale. E così prende la decisione di esporsi scrivendo una lettera alla Neue Ziircher Zeitung. Dopo averla consegnata però iniziano i dubbi e i ripensamenti. Avrà fatto la scelta giusta? Saprà sopportarne le conseguenze? Tre giorni lo separano dalla pubblicazione e a quel punto niente sarà più come prima. Confischeranno i suoi beni, non verrà più pubblicato in Germania, i lettori lo abbandoneranno. E poi, che fine faranno i suoi diari lasciati a Monaco? Su questi tre giorni tormentati si concentra il romanzo di Britta Bòhler: la posta in gioco è il destino artistico e personale dell'uomo, ma anche la sua integrità. Partendo dalla realtà storica, l'autrice ritrae un Mann inedito, colto nella sua vita intima e famigliare, ma anche impegnato nel ruolo politico e morale a cui un autore di fama internazionale, vincitore del premio Nobel, non può sottrarsi.
Thomas Mann  Nella notte d’Europa il dilemma tra silenzio e denuncia del Male

Un libro racconta i tre giorni in cui il grande scrittore, da esule, scelse tra mille tormenti di esporsi pubblicamente contro il nazismo

EZIO MAURO Restampa 28 5 2016
C’è un uomo col cane sul sentiero che porta nel bosco gelato della campagna di Kusnacht, sul lago di Zurigo, quel sabato mattina d’inverno. Attorno i corvi beccano la terra, dai campi affiora uno spaventapasseri, nell’aria passa il suono delle campane senza che la nebbia lasci vedere la chiesa. Il cane è un terrier marrone con una striscia nera sulla schiena e sui fianchi. Di fronte ci dev’essere
il lago nascosto nella foschia, perché qui c’è la panchina dove normalmente lo si può guardare in pace. Sciolto il guinzaglio, l’uomo si siede sulla panca col cappotto nuovo dal collo di pelliccia grigio scuro abbottonato in alto, i guanti imbottiti, la sciarpa stretta sotto il mento, i suoi 61 anni. Da tre — fa il conto quel primo giorno di febbraio del 1936 — vive in esilio volontario in Svizzera, dopo aver dedicato al suo Paese il premio Nobel per la letteratura: «Depongo questo premio mondiale ai piedi della Germania e del mio popolo». Adesso ha poche ore di tempo per decidere se la Germania diventata hitleriana merita che lui denunci l’orrore davanti al mondo, oppure se gli conviene tacere e vivere come se non sapesse. Ieri nel suo studio, da solo, ha riletto per l’ultima volta la lettera di condanna indirizzata alla Neue Zurcher Zeitung, ha tolto la stilografica dall’astuccio e ha firmato i tre fogli col suo nome: Thomas Mann.
Mentre getta un ramoscello al cane, cerca in tasca il portasigarette d’argento, non riesce a smettere di torturarsi come ha fatto tutta la notte. Soprattutto una frase della lettera gli torna in mente, come un’ossessione: «Dall’attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo ». Gli sembrava perfetta, quando l’ha scritta, riletta e corretta. Ma di notte ne ha avuto timore. Stamattina appena alzato ha chiamato il caporedattore del giornale svizzero in lingua tedesca, Korrodi, e gli ha chiesto di aspettare, di non pubblicare nulla: ha bisogno di riflettere. È come se i tre anni passati fuori dalla Germania fossero stati vissuti solo per arrivare fin qui, a questi tre giorni finali e supremi, quelli della scelta. I gesti di ogni giorno, che gli danno la sicurezza della regolarità — sveglia alle 8, colazione con caffè, pane e marmellata, lavoro, passeggiata, pranzo, riposo, corrispondenza, tè, passeggiata serale, cena, lettura, diario — adesso gli appaiono puri strumenti per portarlo a questo fine settimana che non riesce a finire, dilatato nell’incertezza della scelta. Settantadue ore che sembrano montate apposta per riassumere e ingigantire l’angoscia del dilemma, quel nodo tra vita e letteratura che può sciogliere soltanto lui, tra Germania e Europa, esilio e patria, essere e dover essere: per lasciarlo infine solo e nudo davanti al dubbio capitale della sua vita. Un dubbio che confida ogni sera al suo diario, tormento dopo tormento, e che Britta Böhler ha rovesciato nel romanzo sulla Decisione, ora proposto in Italia da Guanda, proprio mentre il Saggiatore con La svolta pubblica la scelta di campo contro il regime di suo figlio Klaus.
Lui, Thomas, non aveva guardato un’ultima volta la terra di Germania tre anni prima, mentre in treno attraversava il confine svizzero-tedesco tra Lindau e Bregenz, un po’ perché era assopito, ma soprattutto perché non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Dopo una serie di conferenze su Wagner a Monaco, Amsterdam, Bruxelles e Parigi, ecco tre settimane di riposo in montagna al Waldhotel di Arosa, che come ogni anno gli riservava la stessa camera, dove poteva lavorare. Gli erano sempre piaciuti i grandi alberghi coi tappeti spessi, gli enormi lampadari, gli stucchi e d’inverno le slitte a cavalli. Voleva rimettersi a scrivere Giuseppe in Egitto, stava immaginando le sponde del Nilo coperte di limo mentre ordinava il punch del pomeriggio all’Old India, quando dai giornali cominciò a capire che il suo mondo si stava distruggendo. L’incendio del Reichstag, i comunisti messi fuori gioco, la croce uncinata che diventa la nuova bandiera della Germania, abolendo i colori del Reich. Non poteva pensare che il suo Paese fosse perduto, si trattava solo di aspettare. In fondo, non aveva sempre pensato che per la politica poteva bastare la mano sinistra? Ma quando Medi, la figlia, pianse al telefono da Monaco chiedendo ai genitori di poter scappare, subito, perché a scuola tutto era cambiato, ogni mattina dovevano cantare l’inno nazista, cominciarono a capire. Quando ascoltò alla radio Svizzera la votazione di fine marzo al Reichstag sui poteri dittatoriali a Hitler, aveva già compreso. Era in poltrona nella hall dell’albergo, prese la moglie Katja per mano e stava tremando.
Fu allora che arrivarono i primi attacchi dai giornali tedeschi. Improvvisamente lo accusavano di «aver imbrattato Wagner», proprio mentre la Gestapo entrava per una perquisizione nella sua casa di Monaco e il Rotary gli comunicava per lettera l’espulsione. Era chiaro che non poteva più tornare in Germania. Lui, che non aveva fatto del male a nessuno. Che nelle Considerazioni di un impolitico parlava del suo sensibilissimo «spirito di solidarietà con la mia epoca». Che nel Mio tempo scriverà di aver «sempre sentito il bisogno di essere patriota ». Basta. Non sarebbe più tornato nel suo studio, non avrebbe avuto i suoi ottomila libri e il pianoforte a coda dietro cui appariva vestito da mago a Carnevale, col mantello nero e le stelle dorate sul cilindro quando Erika e Klaus erano piccoli. La casa era perduta, come la Germania.
E infatti vagarono per sette mesi tra Lugano, Basilea, il Sud della Francia, dove poteva incontrare in un caffè del porto il fratello Heinrich, sotto il maestrale. Infine la Svizzera, dove Erika trovò la casa sul lago. Arrivarono i pochi mobili che avevano potuto salvare, la sua scrivania, la poltrona da lettura, il grammofono con i dischi per la sera. Ma la sensazione era di un albero strappato dalla sua terra, quasi come se vivere lontano significasse tradire il Paese, con il tormento di sperare talvolta che la Germania «rimettesse la testa a posto». Ma ecco quella stella gialla, le leggi razziali. Dove sta andando la Germania, dove finirà? Come aveva scritto nella lettera? Ecco, l’aveva riletta così tante volte da saperla a memoria: «L’odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo».
Ma c’è anche un’altra frase della lettera che dice la verità. Prima di tutto a se stesso: «Com’è difficile I’arte di restare neutrali». Sono le vicende angosciose del suo Paese che lo hanno spinto fin qui, sul bordo del lago a mezzogiorno del sabato, sull’orlo della decisione che non sa prendere. Anche la sua famiglia lo spinge. Il fratello Heinrich da lontano, Klaus e Erika, i figli grandi, rimproverandolo com’è successo a Natale perché tace da troppo tempo, davanti alla fine del mondo. Erika soprattutto si attende che lui, il suo Mago, parli. Poi quegli allarmi, la Gestapo che a Monaco interroga i suoi camerieri e l’autista. Il rogo dei libri. Aveva ragione Erika, non poteva restare in disparte, come fosse superiore a tutto e a tutti. Aveva ragione Klaus: «Non c’è più ritorno». D’altra parte come scriveva lui in Mario e il Mago? C’è sempre un momento in cui lo spettacolo finisce e ha inizio la catastrofe. Così aveva preparato la lettera in una settimana, fumando quei sigari svizzeri che gli facevano rimpiangere Monaco. Poi ieri, venerdì, aveva chiesto a Katja di accompagnarlo in auto a Zurigo. Tutto sembrava risolto. Ma ecco che al giornale manca proprio Korrodi, deve lasciare la lettera più importante della sua vita a un assistente, la mano esita, vorrebbe ritirarla, infine la consegna.
Va al cinema con la moglie, vedono Le Rosier de madame Husson, ma lui nel buio si lascia catturare nuovamente dal dubbio. Cosa diranno gli amici? Gli viene in mente l’ultimo incontro con Herman Hesse e il suo consiglio: «Non si immischi, amico mio, si tenga fuori». Ma come si può rimanere “fuori” dall’orrore, c’è un fuori? La notte non dorme e sente che sta cambiando idea: non può dare l’addio definitivo alla Germania, ci sarà pure un’altra strada. Il sabato mattina esce nel freddo per schiarirsi le idee, poi telefona al giornale e ferma la lettera. «Voglio pensarci bene», dice alla moglie, che non commenta. Ma poi Katja non scende a pranzo. Lui mangia tre bocconi di carne, da solo, si chiude nello studio. Guarda le edizioni straniere dei suoi romanzi sugli scaffali, si domanda a cosa servono se i suoi libri finiranno all’indice in Germania. Perché si sta rendendo la vita così difficile? Eppure c’è una via di mezzo, che porta alla salvezza: terrà semplicemente la bocca chiusa, esiste il diritto di tacere.
Si sente solo, nella casa adesso silenziosa e non sa che quello è il dilemma dell’Europa intorno a lui — tacere o rischiare — , un pezzo della tragedia morale dell’Occidente e delle democrazie davanti al Male. L’individuo di fronte al peso della storia, la coscienza personale e la vicenda di un intero Paese, la sproporzione tra il suo dandismo letterario e l’abisso tedesco, e tuttavia il sentimento di dichiararsi e infine il calcolo delle conseguenze. Poi, laggiù in fondo alla stanza, la paura. Dovrà giustificarsi, in un caso o nell’altro? Non sa che fare. Accompagna Katja dalla sarta a Zurigo, l’aspetta all’hotel Baur du Lac dov’erano stati in luna di miele. Quel tavolino d’angolo, con un vermut che profuma di erbe mentre intorno passano torte “Foresta Nera” è il posto giusto per prendere la decisione, vuole costringersi a farlo prima che Katja ritorni. Gli è insopportabile l’idea di rompere con Erika ma anche quella di rompere coi suoi lettori. Poi, mentre si fa buio, un’idea si fa strada dentro il tormento. Lucida, chiara: non vuole tornare in Germania, vuole che la Germania torni da lui, torni com’era prima della follia.
Sardine, uova sode, pane e prosciutto, birra e limonata, cucina Katja e cenano soli. I bambini sono a Basilea, Klaus è continuamente in viaggio, Golo ormai lavora a Rennes, Monika è a Firenze, Erika ovunque col suo cabaret. Alza la birra verso la moglie: «Salute. A volte bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso». Nello studio mette sul grammofono il preludio del Lohengrin, la sua opera preferita. Si addormenta in poltrona, cercando nel dormiveglia qualcosa tra politica e cultura, musica e sventura, chiedendosi se star zitti oggi è un’altra forma del patto col diavolo, ricordando confusamente che anche nel suo Doctor Faustus l’accordo con Satana era stato siglato fuori dalla Germania. Finché il disco arriva alla fine. La domenica si sveglia sapendo che non c’è più tempo e non ci sono alternative. È vero, sarà senza terra, ma lo spirito e l’arte non possono essere separati dalla politica e poi la sua Germania non esiste più. Si lucida le scarpe con la cera, scende per colazione, beve un bicchiere di sambuco. «Telefono adesso — dice a Katja — . Domani la lettera uscirà sul giornale». Nel diario di tela cerata chiuso nel primo cassetto dello studio insieme con vecchi occhiali, spago, ceralacca, fiammiferi, c’è scritto: «Ho concluso con commozione». Poco più in là, il calendario arrivato chissà come da Monaco, spalancato sulla data del giorno d’addio alla Germania tre anni prima, l’11 febbraio. Adesso quei fogli si potevano finalmente girare per arrivare al terribile 1936 dell’Europa, il tempo poteva ricominciare a scorrere, come la vita.
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Quando l’identità è salvata dalla lingua
David Bidussa Domenicale 19 6 2016
La Germania e i tedeschi è il testo che Thomas Mann legge il 6 giugno 1945 alla Library of Congress a Washington. Quel testo rappresenta l’ultimo episodio di un conflitto ormai decennale tra il premio Nobel, ormai in esilio da dieci anni, e il proprio Paese. 
Il tema di quel “monologo” in cui Thomas Mann “convoca” la Germania e si misura con i “suoi peccati”, è a quali condizioni si possa tornare a riprendere un cammino insieme. Quel cammino si era bruscamente interrotto un decennio prima, all’inizio del 1936.
Il testo di Britta Böhler fotografa quel momento di rottura.
La Germania dal gennaio 1933 è saldamente in mano al nazismo. Thomas Mann matura un distacco dalle sorti del suo Paese, ma non riesce a trovare il modo di rendere irrevocabile la sua scelta. Abbandona Monaco, la città dove ha vissuto a lungo, attraversa la frontiera e si stabilisce con la famiglia in una casa vicino a Zurigo. Il suo proposito è trovare il modo di rompere il silenzio e la condizione di ambiguità che ormai contraddistingue il suo atteggiamento pubblico nei confronti del regime (sul piano privato - meglio: intimo - quella rottura si è già consumata da tempo).
L’occasione si presenta nel gennaio 1936.
All’inizio dei quell’anno Leopold Schwarzschild, direttore di «Das Neue Tagebuch» (il periodico più diffuso e più accreditato del fuoriuscitismo antinazista), settimanale in lingua tedesca che si pubblica a Parigi, attacca l’editore Bermann Fischer perché continua a pubblicare nella Germania nazista. Bermann chiede un intervento a Thomas Mann che pubblica una lettera sulla «Neue Zürcher Zeitung» il 3 febbraio. In quella lettera Thomas Mann afferma che il governo tedesco, per il suo antisemitismo e per la decisione di uscire dalla Società delle Nazioni, rappresenta una separazione tra «il paese di Goethe e il resto del mondo civilizzato».
La risposta nazista non si farà attendere. Sia sul piano generale sia nei confronti di Thomas Mann.
Il 7 marzo la Germania nazista rimilitarizza la Renania, un atto che poteva esser fermato costringendo la Germania al ritiro. Né la Francia né l’Inghilterra lo faranno. In quel momento avviene il passaggio dal dopoguerra alla vigilia della nuova guerra. Cinque mesi dopo, quando si aprono i giochi dell’XI Olimpiade a Berlino (1° agosto 1936) è sancita la dimensione, anche estetica, di chi sia la potenza egemone in Europa. Forte di quella sensazione, nel dicembre 1936, il governo tedesco revoca a Thomas Mann, e a tutta la sua famiglia, la cittadinanza tedesca. 
Thomas Mann sa già, nel momento stesso in cui scrive la lettera, che il suo problema sarà rivendicare una storia, non testimoniata da un passaporto, distinta non solo da quella che il regime nazista sta scrivendo, ma anche dal passato che quel regime rivendica. Sa che la sua forza è la sua scrittura e comprende che il centro della sua scrittura è rappresentato dalla lingua, lo strumento che va salvato e “protetto” dal nazismo. Quel percorso di maturazione tuttavia non è semplice, e molte volte in quel gennaio 1936 l’indecisione lo assale. Trovarsi senza patria materiale è una condizione sopportabile a patto di trovare una patria spirituale. 
Britta Böhler chiude il suo libro esattamente su quel punto, con l’affermazione «Dove sono io, lì è Germania» che da quel momento Thomas Mann dirà molte altre volte.
La nuova condizione di apolide doveva rivendicare la legittimità di un’identità la cui unica traccia rimaneva nella lingua, strumento attraverso il quale testimoniare un’altra possibilità di Germania. Risorsa, nell’esilio e in solitudine, da non lasciare in mano né al potere né a coloro che, una volta amici, e ora incerti o “vinti”, «vengono meno», «si adeguano», «aderiscono».
È la linea che da allora, fino a oggi, è propria di tutti gli esuli: riappropriarsi della propria lingua per non farsi espropriare della propria storia dalle proprie dittature.
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Condannare il nazismo vale l’esilio I giorni d’angoscia di Thomas MannCorriere della Sera  22 giu 2016 di Giorgio Montefoschi
Èil 1936. Thomas Mann — il protagonista de La decisione, il romanzo molto documentato e assolutamente verosimile di Britta Böhler (Guanda), che ha avuto enorme successo in Germania, come presto si potrà comprendere, e ovunque — se ne sta seduto nel suo studio della casa sul lago di Zurigo nella quale abita insieme alla moglie Katja e ai suoi due ultimi figli da quando, in seguito all’ascesa al potere di Hitler, ha deciso di abbandonare Monaco e la Germania, e vivere in Svizzera. Fuori, la caligine che lo ha oppresso per tutto il giorno, vero e proprio specchio della sua anima confusa, è finalmente scomparsa e, nel buio notturno, si intravedono le stelle. Il vincitore del premio Nobel, lo scrittore tedesco più omaggiato e conosciuto nel mondo, che ha da poco ricevuto una telefonata del suo editore americano, Alfred Knopf che per la interposta persona della moglie ha chiesto sue notizie e soprattutto notizie del terzo volume, in gestazione, delle Storie di Giuseppe che in America aspettano con trepidazione e lanceranno sul prestigioso magazine «Time», beve a piccoli sorsi il suo liquore preferito, il Benédictine, fuma il sigaro che Katja gli ha comprato in città, dopo essere stata dalla sarta e a trovare un’amica ammalata, e intanto cerca di dipanare il groviglio che gli ingombra la mente.
Nel cassetto della scrivania ha la copia della lettera con la quale, richiesto pressantemente dalla figlia Erika e dal figlio Klaus, e da parecchi altri intellettuali e scrittori, ha preso una posizione netta e inequivocabile contro il nazismo, e ha consegnato alla redazione del quotidiano «Neue Zürcher Zeitung», chiedendo subito dopo di aspettare ancora un poco, un giorno, un altro giorno ancora, per metterla in pagina. Sono così passati tre giorni di autentico tormento.
Da un lato, l’assillo del dovere morale: la necessità assoluta — anche per uno scrittore — della condanna di quel «mascalzone» che brucia i libri, farnetica, illude il popolo tedesco con la sua diabolica parlantina, eccita una rivalsa pericolosa, un desiderio di dominio folle destinato alla catastrofe. Dall’altro lato, il terrore di un addio definitivo alla Germania; il vuoto dell’emigrante; il dolore dello scrittore tedesco separato per sempre dalla linfa vitale rappresentata dai lettori con i quali condivide la lingua.
Sulla nave olandese che per la prima volta lo ha portato negli Stati Uniti (con quegli avvertimenti continui, man mano che si procedeva in avanti, di mettere le lancette dell’orologio un’ora indietro) e poi a Princeton dove ha incontrato e parlato con quello sbadato, quel tipo strano di Einstein, Thomas Mann ha parecchio riflettuto sul tempo. E, con se stesso, ha convenuto che non sono necessarie grandi teorie scientifiche per scoprire che la durata del tempo è relativa e dipende soprattutto dalla intensità della vita, dalla quantità di cose che si fanno. Gli anni, i mesi, i giorni nei quali non accade nulla e tutto è regolare e ripetitivo, scorrono con la velocità di un lampo; quelli densi sembrano lunghissimi. Come è vero. In questi tre giorni sembra sia trascorsa una vita.
Molto hanno contribuito la memoria, il pensiero del futuro, l’angoscia del presente. E davvero, le tre giornate apparentemente normali, segnate dalle abitudini inflessibili (la colazione, con il pane e burro e l’uovo solo la domenica, le lettere, la passeggiata col cane, le trasmissioni alla radio, il tè all’hotel Baur au Lac) hanno racchiuso una immensità di tempo: la casa di Monaco con i bei mobili, i tappeti e i libri; le feste di Natale con la preparazione dell’albero, le porte che si schiudevano, le candele accese e gli « oh! » emozionati dei bambini, e il profumo dell’abete la mattina seguente; il tram sul quale per la prima volta ha visto Katja e ha deciso che sarebbe stata la donna della sua vita; il sanatorio che sarebbe diventato il sanatorio della Montagna magica; la neve e le slitte coi sonagli; Venezia; le spiagge del Baltico; i trasalimenti per quei ragazzi biondi, nudi, affidati alle pagine di un diario segreto che per delle misteriose ragioni non è stato mai distrutto e se mai dovesse essere scoperto rovinerebbe la sua reputazione davanti al mondo; le conferenze in Europa e in America; i dissidi con il fratello Heinrich; i figli. A sessant’anni appena compiuti, possibile che una vita così ricca non abbia altro di fronte a sé questa decisione da prendere, e poi lo spettro del nulla?
Che bel romanzo, appassionato, ha scritto al suo esordio Britta Böhler. Si comincia e non si smette fino alle ultime righe: alla decisione, appunto, che naturalmente al lettore non riveleremo. È un romanzo agile, intenso, nel quale la figura di un personaggio molto famoso, sul quale sono state scritte migliaia e migliaia di pagine (lui stesso non alieno dall’autobiografarsi), è ricostruita mirabilmente. Agli scrittori, per come si conclude, piacerà in particolar modo.

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