sabato 21 maggio 2016

Torna "Moneta internazionale" di Keynes ma torna purtroppo anche l'illusione di una socialdemocrazia continentale

Moneta internazionaleJohn Maynard Keynes: Moneta Internazionale, Il Saggiatore

Risvolto
Il nome di John Maynard Keynes evoca politiche di espansione fiscale, investimento pubblico, spesa in deficit, e più genericamente l’intervento dello stato a sostegno della piena occupazione e in risposta alle crisi economiche. Sebbene queste cure palliative si siano dimostrate in ultima analisi efficaci, il principio guida di Keynes era in realtà prevenire l’intrinseca instabilità del capitalismo, dovuta soprattutto al laissez-faire finanziario. In pochi sembrano disposti a riconoscerlo, così come in pochi riconoscono che Keynes fu profeta inascoltato non solo dopo la Prima guerra mondiale, ma anche dopo la Seconda.



Chiamato dal governo britannico a disegnare un nuovo ordine economico internazionale, all’inizio degli anni quaranta Keynes concepì un progetto audace, volto allo sviluppo di un commercio libero ed equilibrato fra i paesi del mondo, che avrebbe reso inutili i mercati valutari e finanziari. Il suo piano prevedeva la creazione di una International Clearing Union, una «stanza di compensazione» nell’ambito della quale i crediti ricavati dalla vendita di merci all’estero sarebbero stati disponibili per acquistare i prodotti di qualsiasi altro paese. Questa compensazione tra debiti e crediti sarebbe avvenuta tramite una moneta internazionale non accumulabile, chiamata bancor: una moneta per «vincere la pace», una misura di «disarmo finanziario» da affiancare al disarmo vero e proprio. Alla conferenza di Bretton Woods del 1944, però, sulla proposta di Keynes s’impose quella statunitense. La subdola adozione del dollaro come moneta internazionale – inizialmente ancorata all’oro – ha permesso agli Stati Uniti di vincere la Guerra fredda agendo come inesauribile fonte di liquidità per l’Occidente, ma a lungo andare ha portato all’esplosione degli squilibri globali, all’espansione ipertrofica dei mercati finanziari, al caos economico e all’inasprimento della conflittualità fra gli stati e al loro interno.
I testi che il Saggiatore propone in questo libro, corredati da un’approfondita introduzione di Luca Fantacci, delineano l’utopia possibile che – affermando il principio, oggi negletto, per cui i paesi creditori non sono necessariamente i più virtuosi, e dunque devono farsi carico del riassorbimento degli squilibri tanto quanto i debitori – avrebbe potuto cambiare il mondo. E che, se solo i rapporti di forza lo permettessero, potrebbe ancora cambiarlo, ponendo fine allo strapotere della finanza internazionale.
La valuta corrente dello tsunami finanziario 

Saggi. Nuova edizione per «Moneta Internazionale» di John Maynard Keynes (Il Saggiatore). Il valore profetico e l’attualità tematica di alcuni testi scritti in vista degli incontri di Bretton Woods 
Stefano Lucarelli Manifesto 21.5.2016, 19:09 
Dinanzi all’instabilità finanziaria che continua a caratterizzare l’economia mondiale una riflessione sulla moneta internazionale può sembrare inattuale. Lo è senz’ombra di dubbio se ci si attiene alle dichiarazioni più recenti dei banchieri centrali: Janet Yellen e Mario Draghi sembrano giunti sulla soglia di un periodo nuovo, che in tutta probabilità sarà caratterizzato da difficoltà crescenti. Negli Usa le dichiarazioni di Yellen circa il rialzo dei tassi di interesse non generano più le reazioni sperate negli investitori; d’altro canto in Europa i bassi tassi di interesse fissati dalla Bce non si trasmettono all’economia reale. Guardare agli Stati Uniti e all’Ume basta a sollevare dubbi sulla possibilità di un coordinamento efficiente delle politiche monetarie su scala globale. 
Un bancor di riserva 
Lo stato in cui vertono i paesi che hanno attutito gli effetti della crisi trainando la domanda internazionale (Cina e Brasile soprattutto) non fa che aumentare le preoccupazioni. Eppure le condizioni che caratterizzano il sistema monetario mondiale non bastano ad illuminare le menti affinché nell’agenda politica emerga una riflessione adeguata per un piano che renda più fluido e ordinato il commercio internazionale, disarmando al contempo i finanzieri delle armi di distruzione di massa di cui dispongono. Appaiono lontanissimi i giorni in cui il governatore della Banca Popolare Cinese, Zhou Xiaochuan, invitava a progettare una valuta di riserva internazionale indipendente dalle singole nazioni e capace di rimanere stabile nel lungo periodo, eliminando così le carenze intrinseche che caratterizzano l’era del dollar-standard. Era il marzo 2009, e lo spirito di Keynes tornava ad essere evocato in modo esplicito sebbene con qualche inesattezza. 
Infatti come emerge assai bene in un recente libro curato con passione e precisione da Luca Fantacci (John Maynard Keynes, Moneta Internazionale, Il Saggiatore, pp. 174, euro 17), il piano di Keynes prevedeva sì che il sistema internazionale si dotasse di una moneta consona ad evitare l’emergere di squilibri commerciali durevoli, e le conseguenti instabilità nelle relazioni di debito e credito fra paesi, tuttavia non prevedeva una valuta di riserva internazionale, ma una mera unità di conto (il bancor). 
Oltre a questo ampio saggio introduttivo del curatore, il libro raccoglie sette testi redatti da Keynes fra il settembre 1941 e il marzo 1946. Al centro dell’opera si ergono maestose le «Proposte per una International Clearing Union» dell’aprile 1943, che vennero presentate a Bretton Woods, laddove invece prevalsero altri interessi: l’istituzione di una Banca di compensazione internazionale avrebbe consentito di finanziare il commercio fra stati senza richiedere un versamento iniziale. 
Concentrazioni globali 
La creazione effettiva di «bancor» sarebbe stata regolata dalla tempistica degli scambi e le aperture di credito sarebbero state commisurate al volume delle importazioni e delle esportazioni che caratterizzano la vita economica di uno stato. In caso di squilibri commerciali, l’onere dell’aggiustamento non sarebbe gravato solamente sulle spalle dei paesi debitori. «Il punto – scrive Keynes – è che non si dovrebbe consentire al creditore di rimanere del tutto passivo. Altrimenti, il paese debitore potrebbe essere gravato da un compito impossibile, ritrovandosi nella posizione più debole per il fatto stesso di essere debitore. E, di conseguenza, sopraggiungerebbero tutti i mali che ben conosciamo». Si tratta delle spinte deflattive cui i paesi debitori sono costretti, insieme alle riforme strutturali che di fatto legittimano le politiche mercantilistiche dei paesi creditori e – in un contesto di libera circolazione dei capitali – conducono ad un imponente processo di concentrazione finanziaria a vantaggio dei paesi che hanno accumulato surplus commerciali. Un problema che riguarda oggi l’Europa. 
La ricetta keynesiana per il nuovo ordine monetario internazionale avrebbe potuto correggere queste tendenze pericolose, come tra gli altri segnalò sulle pagine di Le monde diplomatique nell’agosto 2013, l’economista e filosofo francese Fréderic Lordon: «il tutto potrebbe essere configurato secondo l’International Clearing Union proposta da John Maynard Keynes nel 1944, che, oltre alla possibilità di svalutazione offerta ai paesi con forti squilibri esterni, prevedeva anche di obbligare alla rivalutazione i paesi con forti eccedenti. In un sistema del genere, che vincolerebbe a delle rivalutazioni graduate attraverso una serie di soglie di eccedenti (per esempio del 4% del prodotto interno lordo, poi del 6%), la Germania avrebbe dovuto da lungo tempo accettare un apprezzamento del suo euro-marco, e con questo sostenere la domanda della zona euro, e quindi partecipare alla riduzione degli squilibri interni». 
Il libero commercio 
*Presidente dell’Inps


Ancora oggi vi sono delle ottime ragioni per ripensare l’organizzazione dell’Ume in linea con lo spirito che animò Keynes durante la battaglia di Bretton Woods: le risorse reali che con il surplus commerciale la Germania trasferisce all’estero potrebbero essere impiegate utilmente nel paese. Anche la pressione migratoria verso la Germania e i suoi satelliti potrebbero diminuire se le importazioni tedesche sostenessero una ripresa reale nei paesi periferici. Keynes diceva di essere un liberale dalla parte della borghesia colta, tuttavia le istituzioni monetarie finalizzate ad un commercio libero e equilibrato da lui progettate avrebbero ridimensionato il ruolo dei mercati valutari e finanziari; proprio la linfa del capitalismo odierno, che sull’instabilità finanziaria legittima le forme di espropriazione che stanno ridefinendo pericolosamente i confini della sovranità non solo monetaria.


Welfare Ue contro i populismi 

Tito Boeri* Busiarda 22 5 2016
Ha  vinto dopo aver fatto una campagna fondata sull’idea che l’immigrazione incontrollata rischia di appesantire lo Stato sociale austriaco, fino al collasso. Oggi andrà al ballottaggio contro Alexander Van der Bellen, un membro dei Verdi. 
Affermazioni come quelle di Hofer sono oggetto di feroce disaccordo tra gli economisti del lavoro, ma fanno vibrare una corda nell’elettorato europeo. In tutto il continente i partiti della destra populista stanno guadagnando terreno sfruttando le preoccupazioni degli elettori per la migrazione e l’accesso al welfare. E nel Regno Unito, le ansie sul «turismo sociale» stanno alimentando il tentativo di far uscire il Paese dall’Unione europea.
Se l’Ue sopravviverà come zona di libera mobilità, avrà bisogno di un rafforzamento dei suoi confini esterni, associato a una più rigorosa applicazione dei principi di assicurazione sociale all’interno dei suoi confini. La creazione di un più stretto collegamento tra i benefici erogati e i contributi passati per i lavoratori che si sono trasferiti da un Paese all’altro sarà essenziale per l’integrità a lungo termine del mercato comune del lavoro.
Il dibattito politico europeo ha prestato una certa attenzione al rafforzamento delle frontiere esterne, ma non si è affatto parlato di coordinare le prestazioni sociali attraverso le frontiere dell’Ue. È giunto il momento per l’Ue d’introdurre un unico codice di identificazione di sicurezza sociale che consenta di tenere traccia dei lavoratori mentre si spostano da un Paese all’altro e assicuri che le prestazioni assistenziali siano trasferibili tra le giurisdizioni nazionali.
Tale misura non solo contribuirebbe a ribadire un’identità europea per quanto riguarda il lavoro e lo Stato sociale; aiuterebbe anche un dibattito più informato sulla migrazione e la crisi dei rifugiati in corso, rendendo possibile stabilire quale sia la contribuzione fiscale netta che i nuovi arrivati danno ai programmi di previdenza sociale.
Ed è possibile che i risultati facciano infine chiarezza. I migranti economici sono in genere più giovani dei nativi e quindi hanno meno probabilità di ricevere benefici rispetto alla media della popolazione generale. A dire il vero, una generazione di immigrati invecchiando contribuisce di meno alla sicurezza sociale. Ma non tutti i migranti, in definitiva ottengono le pensioni a cui avrebbero diritto grazie ai loro contributi.
In Italia, ad esempio, i migranti pagano circa 5 miliardi di euro (5,7 miliardi) all’anno (circa il 0,3% del Pil) in più in contributi rispetto ai benefici che ricevono. E l’Istituto di previdenza sociale italiano (Inps) ha stimato in circa 15 miliardi di euro i contributi al sistema pensionistico italiano pagati dai migranti nel corso degli ultimi 20 anni e mai rivendicati.
Per i rifugiati, tuttavia, la situazione è diversa. Tanto per cominciare non sono autorizzati a lavorare fino a quando la loro domanda di asilo non è stata approvata. La migrazione dei rifugiati arriva in ondate più massicce rispetto alla migrazione economica. Di conseguenza, i rifugiati entrano nel mercato del lavoro dopo i migranti economici e guadagnano meno, sottraendo ai nativi risorse per prestazioni sociali.
I lavoratori che si spostano ripetutamente attraverso i confini possono avere anche loro una responsabilità se traggono indebitamente vantaggio dai sistemi di sicurezza sociale che pagano. Ci sono casi documentati di lavoratori che chiedono sussidi di disoccupazione in un Paese dell’Ue mentre lavorano in un altro. Inoltre, i contributi versati nel Paese d’origine del lavoratore raramente sono verificati e vi è un serio rischio che alcuni vincoli contrattuali, come i limiti all’orario di lavoro, non siano applicati quando un lavoratore è distaccato altrove.
L’unico modo per monitorare questi rischi e ridurre gli abusi è quello di sviluppare un archivio di previdenza sociale armonizzato che copra tutti i lavoratori entro le frontiere dell’Ue. I governi nazionali dovrebbero adottare un numero di previdenza sociale europeo (simile al Social Security number negli Usa o al National Insurance number nel Regno Unito) e scambiarsi regolarmente informazioni. Questo numero identificativo di sicurezza sociale europeo (Essin) ricalcherebbe quello specifico del Paese e conterrebbe un identificatore (magari le prime tre cifre) che indichi il primo Paese in cui è stato impiegato il lavoratore. Sarebbe anche collegato ai codici fiscali nazionali.
Facilitare la libera mobilità dei lavoratori è fondamentale per il rilancio della crescita in Europa. La grande divergenza dei tassi di disoccupazione dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito della zona euro ha solo aumentato l’urgenza dei provvedimenti. Un’unione monetaria che non può basarsi su un aggiustamento dei tassi di cambio o sui trasferimenti fiscali per ridurre gli squilibri del mercato del lavoro, richiede mobilità attraverso i confini nazionali. Ma per essere politicamente sostenibile la mobilità del lavoro deve essere adeguatamente governata. Nel contesto della crisi dei rifugiati, per esempio, la mobilità può venire facilmente percepita come una minaccia piuttosto che un’opportunità per assicurarsi contro i rischi del mercato del lavoro locale. L’Essin potrebbbe accentuare i vantaggi dell’adesione all’Ue e al contempo reprimere il flusso illegale di lavoratori che alimentano il sospetto verso la libertà di movimento, che sarebbe concessa solo ai lavoratori che pagano regolarmente i contributi previdenziali. Potrebbe anche essere utilizzata come base per l’accesso ai programmi gestiti dalla Ue, come ad esempio un sistema europeo di occupazione.
L’Europa ha bisogno di un sistema in grado di monitorare la mobilità dei lavoratori tra le giurisdizioni nazionali e i loro contributi via via che passano da uno Stato membro a un altro. Affrontare questa lacuna cambierebbe il discorso sulla politica e sulle politiche europee, non solo per quanto riguarda la sostenibilità e equità dello Stato sociale, ma anche per alcune delle questioni più controverse che attendono l’Ue - come il modo di gestire l’immigrazione economica e i flussi di rifugiati. Dell’inazione beneficiano solo Hofer e i suoi compagni populisti.

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