mercoledì 18 maggio 2016

Tradotto il "Romanzo fantasma" di Arthur Conan Doyle

Romanzo fantasmaArthur Conan Doyle: Romanzo fantasma, Il Saggiatore

Risvolto

In "Romanzo fantasma", il protagonista John Smith è costretto a letto dalla gotta e al suo capezzale sfilano sacerdoti e politici, spiritisti e luminari della scienza medica, fra cui l'appassionato sherlockiano non tarderà a riconoscere il claudicante John Watson. 








Nel manoscritto ritrovato prove tecniche di Conan Doyle 

Tradotto un inedito del creatore di Sherlock Holmes: è il suo primo romanzo, scritto a 23 anni, perduto e riscritto, poi abbandonato e dimenticato dall’autore 

Busiarda 18 5 2016
Questo suo primissimo romanzo il futuro creatore di Sherlock Holmes lo scrisse a ventitré anni, nelle pause della sua attività di neolaureato medico di belle speranze. Ma la versione attuale è diversa da quella originale, che invece di raggiungere l’editore cui l’autore la proponeva andò smarrita nella posta e non riemerse mai più. 
Ora, la perdita di un manoscritto insostituibile è un fatto ricorrente in letteratura, e ogni scrittore così colpito reagisce alla propria maniera. Quando la valigia che conteneva i suoi racconti fu dimenticata in treno dalla sua prima moglie, il giovane Hemingway, uno che meditava a lungo su ogni pagina, cercò di portare pazienza, di raccogliere le idee, di ricominciare con calma. A differenza di lui, Thomas Carlyle, la cameriera di un cui amico aveva inavvertitamente dato alle fiamme il manoscritto del suo magnum opus, la Storia della Rivoluzione francese, come apprese la disgrazia corse a rinchiudersi in casa e si mise immediatamente a riscrivere daccapo tutto l’enorme tomo - gli ci sarebbero poi voluti ben due anni di lavoro matto e disperatissimo. 
Non sogno, ma incubo
Dal canto suo, una volta rassegnato alla perdita del suo rampollo, e dopo avere tempestato invano l’ufficio postale, Arthur Conan Doyle fece inizialmente come Carlyle, ossia si mise a buttar giù su carta il libro così come se lo ricordava. A un certo punto però smise. Si interruppe a metà di una pagina e lasciò le cose come stavano. Passò ad altro. In seguito Doyle addirittura rimosse quel libro abortito dalla propria memoria. Parlandone con un giornalista diversi anni dopo, dichiarò perfino, più o meno, che una sua eventuale riapparizione in stampa sarebbe stata l’avverarsi non di un sogno, ma di un incubo. 
E non è difficile proprio per noi lettori non solo di Sherlock Holmes, ma di molti altri romanzi e racconti eterogenei di Doyle, renderci conto che tutta la sua produzione narrativa, da quel tentativo in poi, si sarebbe svolta sotto un segno completamente diverso. Holmes o non Holmes, Doyle sarebbe diventato (anzi, era già: lo attestano i racconti che all’epoca era riuscito a farsi accettare da qualche periodico) un narratore dinamico; di azione. Per quanto fondamentale sia la componente raziocinante delle sue storie - la riflessione, le deduzioni, la concentrazione mentale del suo celebre detective - Doyle racconta sempre fatti, avvenimenti, episodi. Le sue storie sono proiettate verso una conclusione; quelle in cui è necessario risolvere un enigma o trovare un colpevole devono farlo, per definizione. 
Un tentativo rivoluzionario
Come mai, dunque, quando decise di affrontare per la prima volta un racconto esteso - di saggiare la propria capacità di sostenere uno sforzo prolungato, lui che fino ad allora si era cimentato solo nella forma breve (e ricordiamo che il mercato vittoriano richiedeva invece soprattutto il romanzo lungo, in più volumi) -, come mai lo sperimentatore scelse per tale esordio un non-evento come la condizione statica di un uomo costretto nella sua stanza per diversi giorni, senza la possibilità di muoversi, quindi confrontato solo dalle proprie elucubrazioni e reminiscenze? 
Per un certo aspetto, il suo tentativo fu non solo audace, ma addirittura rivoluzionario, anticipatore delle tendenze del romanzo del secolo successivo, quando - preceduti da Henry James - innovatori come James Joyce, Virginia Woolf, per certi aspetti lo stesso E. M. Forster, spostarono il centro dell’interesse dall’esterno all’interno del personaggio; dai fatti e dai gesti agli andirivieni della psiche. Spregiudicato vaticinatore di alcune tendenze delle età future quale il giovane Doyle appare spesso, questa, tuttavia, l’avrebbe subito scartata. Come sappiamo col senno di poi, il suo talento non era per privilegiare l’intelletto sull’attività, ma semmai per innestare, meno drasticamente, il lavoro dell’intelletto sulla tradizione del romanzo ottocentesco, tutto fondato sulle azioni e sui gesti, proprio come il teatro da cui discendeva (e nel quale il lavoro interiore del cervello, a parte i monologhi shakespeariani, è di difficile resa). 
Il giovane Doyle tentò dunque una strada nuova, si rese conto che questa non faceva per lui, e prontamente la abbandonò. Il che naturalmente non significa che il suo esperimento non sia di grande interesse. Perché in bocca al suo cinquantenne bloccato dalla gotta e costretto a guardare il mondo dalla finestra o tramite rari visitatori, l’ex studente di medicina, ma già lettore onnivoro e curioso di molteplici esperienze umane, mette un bel po’ di quello che pensa, di quello che sa, e di quello che crede di sapere.
Spregiudicato pensatore
E così facendo ci consegna un affascinante autoritratto di spregiudicato pensatore, per molti versi all’avanguardia della sua epoca; un vittoriano che crede nel progresso scientifico; un uomo di fede che disprezza quella gretta e bigotta delle chiese organizzate; un individualista che cerca di superare compromessi borghesi come il matrimonio. Politicamente, anche, un conservatore illuminato, nonché un patriota kiplinghianamente convinto della missione dell’uomo bianco come portatore di ordine e di civiltà, ma privo di illusioni sul futuro dominio mondiale dell’Inghilterra, che vede nel secolo successivo subordinata a due potenze come la Cina e gli Stati Uniti, due leoni che a quei tempi non avevano ancora cominciato a ruggire. 
Camuffato da uomo di esperienza vissuto e persino un po’ cinico, l’ancora poco più che adolescente Doyle ci dice già parecchio, dunque, di quello che sarebbe diventato mentre punta le sue antenne in più direzioni, compresa quella dell’universo extrasensoriale, al quale tanta attenzione avrebbe rivolto nella maturità. E pure nella apparente aridità del suo assunto, comincia a sfoggiare quella qualità di affabulatore, di intrattenitore che fa appello alla zona meno superficiale dell’attenzione del suo pubblico, che ben presto lo avrebbe imposto con un successo mai più venuto meno.
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