mercoledì 25 maggio 2016

Una parte del carteggio Cossiga-Andreotti

C’eravamo tanto amati e odiati il carteggio Cossiga-Andreotti 
FILIPPO “Vogliono zittirmi”, “sei spietato”... Nelle ultime lettere tra due grandi protagonisti del Dopoguerra la fine della Prima Repubblica
CECCARELLI Restampa 25 5 2016
«Caro Giulio», scrive Cossiga, «Caro Francesco» risponde Andreotti. Con il passare degli anni — e sono ormai trenta — gli archivi rischiarano tante vicende della storia politica italiana. Nelle loro carte private, gli ultimi due grandi democristiani si scambiano attestazioni di stima e d’affetto, ma anche sottigliezze, sbocchi di risentimento e perfino di disperazione. Ma ciò che più colpisce oggi sono i pensieri neri su quanto entrambi percepivano di minaccioso, e che di lì a poco li avrebbe travolti insieme a ogni equilibrio. Dal Quirinale Cossiga sembra aver capito tutto, ma non può fare nulla. A Palazzo Chigi Andreotti forse potrebbe anche, però fino all’ultimo spera che la prudenza abbia la meglio. Sia come sia, quando si scrivono è come se già conoscessero il loro destino.
In questo senso, il documento più drammatico è una lettera a mano, in stampatello, che nell’agosto del 1990, agli esordi della prima guerra in Iraq, l’allora presidente della Repubblica scrive dalle vacanze in Cadore «con un carattere e un tono del tutto confidenziale », ma che è pur sempre diretta al presidente del Consiglio in carica: «Mi rivolgo a te da semplice cittadino — esordisce Cossiga — perché alcuni dei miei collaboratori mi hanno decisamente interdetto di occuparmi del caso Irak, che è cosa “che non mi deve interessare” e che può portarmi sui giornali! Mi hanno sospeso dalle mie funzioni di Capo dello Stato e mi hanno intimato non solo di non parlare con alcuno perché “potrei essere frainteso”, ma quasi neanche di tenermi informato, cosa che invece faccio clandestinamente! Questo stesso scriverti, anche senza entrare nel merito, è contro le direttive ed istruzioni che mi sono state... impartite: ma sono certo che non mi tradirai». Seguono recriminazioni contro la «sinistra khomeinista della Dc», accuse a chi lo descrive in confidenza con Licio Gelli, accenni al «potere incancrenitosi nella Rai». Prosegue la missiva una specie di grido: «Io non posso fare quasi nulla: anzi per qualche mio consigliere, nulla non solo non posso ma non debbo fare: salvo il piangere o il ridere, che è moto personale del cuore, non disciplinato dalla Costituzione né dalle leggi». Infine una richiesta di soccorso: «La mia fiducia in te, per la grande esperienza che hai di uomini e cose, è grande».
È da diverso tempo che Giuseppe Sangiorgi, già giornalista del Popolo e a lungo stretto collaboratore di Ciriaco De Mita, poi segretario dell’Istituto Sturzo e autore di un fondamentale diario sulla Dc negli anni ’80 ( Piazza del Gesù, Mondadori, 2005) lavora sullo sterminato e leggendario archivio Andreotti (in via di sistemazione grazie anche al lavoro della figlia Serena), integrando i testi del carteggio con ricordi e testimonianze. I primi risultati di questo suo impegno, destinato a un progetto a più voci, hanno trovato provvisoria sistemazione in una monografia intitolata Lettere di fine Repubblica. Si parte dall’elezione di Cossiga — farai bene, è l’augurio di Andreotti, «io credo nella grazia di Stato» — e si conclude con le dimissioni (1992) anticipate, sembra di capire, senza che il capo del governo ne sappia nulla: «La difficoltà di vederti mi addolora sul piano personale ed è delicata per la funzionalità dello Stato». Nel mezzo degli eventi vengono fuori diverse vicende ignote. Non si sapeva ad esempio che nel dicembre del 1976 Cossiga si dimise da ministro dell’Interno con la motivazione che l’emergenza terrorismo era tale da impegnare in prima persona il capo del governo (appunto Andreotti). Inediti sono poi alcuni retroscena di Sigonella (1986). In un telegramma «segretissimo» e «custodito in cassaforte» l’ambasciatore a Bruxelles Sensi avvisa Andreotti che il comandante supremo delle forze Nato, Rogers, non condivide la gestione del governo americano e in particolare l’intervento della Delta Force. Così come non era noto il botta e risposta che l’allora ministro degli Esteri ha con l’ambasciatore americano Rabb sempre su quella vicenda che lascia in lui più di un dubbio, tanto da spingerlo a parecchi anni dai fatti, nel 2000, a chiedere alla Farnesina di appurare «se il telefono mio e quello di Craxi erano sotto controllo».
Gli argomenti trattati nel carteggio tra Cossiga e Andreotti, scrive Sangiorgi, «sono spesso complessi e di grande rilievo politico istituzionale, ma traspare anche un senso di drammatica impotenza di queste due personalità nel loro assistere allo sgretolarsi di un regime durato mezzo secolo ».
L’improvvisa rivelazione di Gladio certamente li divide: Cossiga l’apprende dalle agenzie, a cose fatte, e subito ci vede una manovra ai suoi danni; Andreotti tarda forse a respingere «la sciocca e infondata tesi che quando ne parlai in Parlamento mirassi a danneggiare o a creare fastidio a te». Colpisce, nel carteggio, quest’amicizia su cui si proiettano le tensioni del potere insieme a spunti d’inconfondibile cerimoniosità democristiana tipo i ringraziamenti «per la bella medaglia del ‘Tullianum’» che nel pieno della bufera Giulio non manca di inviare personalmente a Francesco.
E tuttavia ciò che più impressiona al giorno d’oggi è che i problemi su cui cominciò a incepparsi il sistema di potere dopo gli sconvolgimenti del 1989, restano al dunque quelli di oggi: la collocazione internazionale dell’Italia, con particolare riguardo al Medio Oriente; i rapporti fra politica e magistratura; l’intangibilità o meno della Costituzione. Su tale questione, nel 1991, Cossiga invia un messaggio alle Camere che Andreotti si rifiuta di firmare e in privato gliene mette nero su bianco i motivi criticando con risolutezza il tono «eccessivamente negativo» del suo scritto e rimproverandogli di usare «più volte l’espressione delegittimazione, e questo potrebbe al limite portare anche alla legittimazione della disobbedienza civile ». La «spietata fotografia della situazione», secondo Andreotti, porta a «una squalifica generale che sarebbe ingiusta e foriera di incertezze». L’interpretazione del risultati del referendum Segni sulle preferenze non lo convince: «La reiterata contrapposizione tra popolo sovrano e rappresentanza è pericolosa».
In quel solo mese di giugno Sangiorgi dà conto di 34 lettere, tra ricevute e inviate. Un sintomo d’incomunicabilità che Andreotti nota: «Il mio telefonino tace e si moltiplicano le corrispondenze scritte». Poco dopo, a sorpresa, Francesco nomina senatore a vita Giulio, che però non la prende bene sospettando sia un modo per spedirlo in pensione. Ma siccome la storia è più complicata di come se la raccontano i potenti, beh, alla fine sarà proprio quella nomina, come riconosce con gratitudine a Cossiga la signora Andreotti, a salvare il marito dall’arresto.

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