venerdì 17 giugno 2016

Acciaio contro acciaio: la Seconda guerra mondiale di Israel J. Singer

Israel J. Singer: Acciaio contro acciaio, Adelphi

Risvolto
Le strade roventi popolate da orde di mendicanti, da cortei funebri, da bande militari tedesche che incedono con grande strepito, dai temuti Ussari della morte che sfilano in tutto il loro minaccioso splendore, da individui affamati e senza casa che si aggirano con espressione apatica, indifferente. Il gigantesco cantiere sulla Vistola dove gli operai – russi, ebrei e polacchi – si sfiancano assonnati e indolenziti, perennemente sovrastati dal fragore delle onde, dal rombo dei macchinari, dal ruggito delle voci che sbraitano in varie lingue. È la Varsavia che accoglie Binyamin Lerner, reduce da nove mesi sul fronte galiziano nella fanteria dello zar. E più che mai deciso a sopravvivere, anche a prezzo della diserzione, a conquistare il suo destino in un mondo divelto dalle fondamenta: a contrastare, acciaio contro acciaio, l'inesorabile violenza della Storia. Una violenza che Singer ha vissuto sulla propria pelle e nella quale – mentre seguiamo Binyamin dal vertiginoso caos di Varsavia a una comune agricola in Polesia e infine a Pietroburgo, cuore della Rivoluzione – ci sprofonda, letteralmente, con la prodigiosa maestria che i molti lettori della Famiglia Karnowski hanno imparato a conoscere. 
Un disertore nel caos della storia
Israel J. Singer racconta la Grande guerra attraverso le vicende di un uomo in cerca del suo destino
Corriere della Sera 17 giu 2016 Di Giorgio Montefoschi
Dopo nove mesi trascorsi sul fronte galiziano nella fanteria dello zar, il giovane ebreo polacco Binyamin Lerner torna nella sua città: Varsavia. Siamo nel cuore della Prima guerra mondiale, e all’inizio di Acciaio contro acciaio, il romanzo di Israel J. Singer pubblicato da Adelphi. La Polonia, terra di eterne contese, è al momento sotto il dominio dei russi, ma tutte le voci parlano della forte probabilità che l’esercito tedesco prenda il loro posto. Varsavia è immersa in una cappa di caldo massacrante. Il ponte sulla Vistola, che gli artificieri stanno minando per farlo saltare nel caso di una imminente ritirata, è invaso da una turba di gente che va e viene, creando un ingorgo mostruoso: soldati, fuggiaschi, malati, poveracci, animali, carrozze, camion, un corteo funebre ebraico, convogli militari. Sotto, a poche decine di metri da questa trappola immane, un gruppo di ragazzi e di ragazze sguazza felice nelle acque del fiume. E più avanti, un negozio di vestiti continua a tenere i modelli in vetrina, qualcuno ha comprato un mazzo di fiori. Varsavia sembrerebbe uguale a nove mesi prima. Invece c’è la guerra. E Lerner dovrebbe presentarsi al comando per tornare in prima linea. Ma il fiume è un’attrazione troppo forte. Anche lui scende vicino all’acqua, si sveste dei panni da soldato, cede al sonno.
Quando si sveglia — troppo tardi: ormai è diventato un disertore — l’unico rifugio possibile è la casa di suo zio: Reb Baruch Yosef. Viene accolto a braccia aperte, ma anche con qualche preoccupazione, perché i delatori sono ovunque; e passa qualche giorno. Una notte, Gitta, la figlia di Baruch Yosef, che di Binyamin è stata innamorata fin dalla fanciullezza, entra in silenzio nella sua stanza per osservare il ragazzo che dorme. È una notte di luna: riflessi meravigliosi si distendono sui suoi capelli neri. Binyamin si sveglia. «Mi ami ancora come una volta?», lei gli sussurra.
È una pausa, questa, destinata a durare ben poco. Reb Yosef, un visionario caparbio, è stato costretto ad abbandonare la sua tenuta al confine austriaco, ha fatto le speculazioni che era meglio non facesse, e ora è alle soglie dello stremo. Un ricco amico ebreo, tale Yekel Karlover, che invece ha saputo indovinare le speculazioni giuste, e vorrebbe sposare Gitta, non manca un giorno di farsi vivo con omaggi alla ragazza che lo rifiuta, proposte di affari al padre ed eventuale futuro suocero che, al contrario, in questo matrimonio vede la sua resurrezione. È una situazione parecchio complicata, che l’ostinazione a negarsi di Gitta, l’invadenza del pretendente, l’ira del suocero mancato, e soprattutto la presenza del vero ostacolo alle nozze, vale a dire Binyamin, rendono incandescente.
Lerner, dunque, abbandona la casa. È di nuovo un disertore, un uomo solo, nel mezzo di una città indescrivibile: profughi ebrei ammucchiati sui carri, sensali ebrei alla disperata ricerca di un abboccamento con un ufficiale russo, ambulanze stipate di moribondi e feriti, operai a torso nudo, odore di sangue, di catrame bollente. Poco più avanti: «Automobili cariche di ufficiali e donnine allegre che ogni tanto perdevano una piuma di struzzo, carrozze decorate con fiori e nastri di raso bianco» dirette a un ricevimento di nozze.
Ma i tedeschi avanzano, sono alle porte. E arrivano finalmente. I polacchi li guardano stupiti, con quei loro elmetti con il chiodo, e dicono: come sono piccoli i tedeschi. Ora, il grande ponte è stato distrutto e bisogna rimetterlo in piedi. Lerner si presenta e chiede di essere assunto. La sua baracca sembra la Torre di Babele: ci sono pericolosi criminali lasciati dai russi in ritirata, ebrei timorati di Dio ridotti pelle e ossa, minatori corpulenti, effeminati rampolli della nobiltà terriera, prigionieri di guerra, esiliati rispediti indietro dalla Siberia per combattere, contadini russi colmi della loro rassegnazione secolare. Intanto, è arrivato l’inverno: venti sferzanti portano i primi fiocchi di neve, gonfiano le onde scure del fiume, ghiacciano la melma nella quale questa moltitudine di derelitti trascina i tronchi, i propri corpi estenuati, le pietre, le catene. E la notte, nelle baracche, è un inferno: litigi, botte, ferite. Solo gli ebrei ortodossi, gli hassidim che hanno conservato i loro capelli lunghi, riescono a mantenere intatta la propria dignità umana: lavorano pur essendo incapaci, subiscono gli insulti senza protestare, rifiutano di ribellarsi, la notte — una volta Binyamin se ne accorge — si riuniscono davanti al muro di legno della baracca e insieme, a bassa voce, cantano le loro dolci preghiere.
Quella, dopo la notte di luna in casa di Reb Baruch Yosef, è la seconda e ultima oasi di quiete delle vicende che col loro incalzare travolgono ogni personaggio, ogni evento, ogni barriera verso un futuro cupo e ignoto. Ci sarà una rivolta. Lerner fuggirà e rincontrerà Gitta e nella casa di una benefattrice ebrea che alle pareti ha i santini di Cristo, torneranno ad amarsi. Si separeranno. Di nuovo si incontreranno e seguiranno un altro benefattore ebreo, che con la guerra ha guadagnato milioni, nelle sue terre per ricostituire una comunità di lavoro. Scoppierà il tifo. Gli ospedali si riempiranno di malati e di medici valorosi che non hanno nulla per curarli. I pidocchi nidificano sulle teste dei ragazzini. Le ragazze vengono stuprate dagli ufficiali tedeschi. Grossi ratti rubano gli ultimi chicchi di grano rimasti negli interstizi dei granai. Una donna senza gambe rimane incinta.
Tutti sono contro tutti. Gli ufficiali tedeschi, la notte dell’ultimo dell’anno, fanno venire dieci prostitute che ballano nude e si scatena prima un’orgia, poi una seconda rivolta. La guerra continua. Dal fango emergono cadaveri seppelliti in superficie che devono essere seppelliti più dentro la terra. Nei prati si allungano cimiteri immensi con le croci cristiane, le mezzelune, le lapidi ebree. L’umanità è lontana, sparita, perché gli uomini come tali non si riconoscono più, quando i giornali comunicano che a Pietroburgo c’è la rivoluzione. Allora Lerner va a Pietroburgo. Non si può dire che è pieno di speranza: va a Pietroburgo, sospinto dal movimento inconsapevole che lo sovrasta, e sovrasta chiunque, in questi disperati momenti, in questa sterminata regione del dolore che dall’Europa centrale va fino a Mosca e alle steppe. E a Pietroburgo, con l’assalto al Palazzo d’Inverno, si conclude il grandioso «romanzo del movimento», che non ha dato e non poteva dare tregua al lettore, e adesso sembra un gigantesco quadro futurista, con torri, elmetti, cannoni, e gli uomini, fermati per sempre nell’acciaio.

Massa e Shtetl nel fuoco del secolo: Israel Joshua Singer 
«Accaio contro acciao» di Israel Joshua Singer, da Adelphi. Pubblicato nel 1927, il romanzo dello scrittore ebraico-orientale mostra la «disgregazione» prima della Shoa, dunque sotto altra luce 
Andrea Colombo Manifesto 19.6.2016, 0:10 
Quando arrivò al fatale appuntamento con l’industria nazista dello sterminio, la comunità ost-juden era già stata squassata e minata irreparabilmente nelle sue fondamenta dall’irruzione della Storia. La specificità eminente dell’ebraismo orientale era stata proprio l’aver costruito, più che nelle altre realtà della diaspora, una sorta di «patria» nell’esilio, fondata sulla consapevolezza dell’esilio e sull’esaltazione della propria radicale alterità. Gli ebrei orientali avevano eretto siepi più alte delle altre comunità ebraiche nel mondo per difendersi dal flusso minaccioso della Storia: non si poteva evitare di subirlo, quando si presentava sotto forma di pogrom o di arruolamento forzato nell’esercito zarista, ma si trattava sempre di un fenomeno esterno, non diverso dalle calamità naturali. Non era e non doveva essere partecipato. 
A cavallo tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del secolo seguente, quella barriera iniziò a cedere. I racconti del ciclo Taiwe il lattivendolo di Shalom Aleichem, l’opera più significativa della letteratura yiddish prima dei fratelli Singer, descrivono appunto l’impatto della Storia sulla comunità chiusa ost-juden e l’effetto di progressiva dissoluzione che ne consegue. Taiwe fu pubblicato nel 1894. Un anno prima era nato Israel Joshua Singer, lo scrittore che avrebbe poi raccontato in tutta la sua opera lo sfaldamento di quel mondo. 
Israel era il più adatto ad assolvere a quel compito. Scriveva, a differenza del suo grande fratello, prima della Shoah, dunque senza essere condizionato dalla consapevolezza di quale sarebbe stata la tragica sorte degli ebrei orientali. Il rifiuto della cutltura nella quale era nato e cresciuto lo aveva coinvolto direttamente: l’insofferenza e la conflittualità nei confronti delle corti rabbiniche, della mistica degli hassidim e della rigida chiusura della cultura ost-juden sono il cuore dell’autobiografia uscita postuma nel 1946, pubblicata in Italia da Adelphi l’anno scorso, La pecora nera. 
A lungo e a torto considerato solo «il fratello di Isaac Bashevish», Israel Singer, nonostante le somiglianze superficiali, è un autore molto distante dal fratello minore e per molti versi ne è anzi l’opposto. La sua poetica è del tutto scevra da aspetti fantastici o visionari, e non si affida mai alla lente deformante della nostalgia. È uno scrittore realista con robusta venatura epica, capace di delineare caratteri e fisionomie interiori con pochissimi tratti di penna ma riportando sempre, anche quando sembra raccontare solo saghe di famiglia, i percorsi dei suoi personaggi nel grande flusso di quella Storia che aveva travolto il mondo chiuso dello Shtetl. 
Acciaio contro acciaio (Adelphi, «Biblioteca», pp. 240, euro 16.00) è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927 in yiddish. La traduttrice, Anna Linda Callow, ha compiuto una lavoro straordinario, partendo dalla traduzione inglese curata da Joseph Singer, figlio dell’autore, per poi confrontarla minuziosamente con l’originale yiddish per ripristinare e integrare almeno una parte dei tagli apportati dal curatore americano, il cui lavoro di editing mirava a snellire un testo giudicato altrimenti molto pesante. Il protagonista del romanzo è Binyamin Lerner, soldato dell’esercito zarista impegnato nella guerra mondiale, disertore non per viltà ma per incapacità di tenere a freno la lingua al cospetto dei superiori, operaio dopo l’occupazione tedesca di Varsavia, braccio destro di un miliardario filantropo che si è dato come missione la trasformazione di una moltitudine miserabile di rifugiati ebrei in armoniosa comunità di lavoratori, carcerato, rivoluzionario nella Pietroburgo d’Ottobre.
Ma lo stesso Lerner è solo un «personaggio principale». Vere protagoniste del romanzo sono le masse, che campeggiano praticamente in ogni pagina: flagellate dalla guerra, martoriate dall’occupazione tedesca, dalla fame e dalle epidemie, costrette a un lavoro tanto simile alla schiavitù da far quasi rimpiangere a Lerner le trincee, traversate da sussulti di coscienza collettiva che per farsi largo devono scontrarsi con l’ignoranza, le rivalità etniche, il razzismo, la diffidenza reciproca, il nodo scorsoio della tradizione, il terrore atavico dell’autorità. 
La vicenda si snoda nei due anni centrali della Grande Guerra. Binyamin Lerner si ritrova disertore, più per caso e circostanze fortuite che per scelta, all’inizio del 1916. Lo lasciamo quando entra alla testa di una milizia operaia nel Palazzo d’Inverno, mentre l’Aurora cannoneggia Pietroburgo. Sono gli anni nei quali si verifica, sulla spinta di una guerra di proporzioni sino a quel momento inaudite, l’entrata in scena delle masse come protagoniste della Storia. Comincia lì il secolo breve, quello che nel bene e nel male sarà segnato e condizionato dal protagonismo delle masse sino a quel momento relegate sullo sfondo e condannate al mero ruolo della carne da cannone. 
Il Singer del 1927 non è quello che dieci anni più tardi, deluso dalla Rivoluzione, scriverà A oriente del giardino dell’Eden, però non c’è nulla di oleografico o di ingenuamente superficiale nella sua visione delle masse. L’immagine che ne restituisce è colma di partecipazione ma impietosa: alla vicinanza e alla rabbia per le condizioni in cui sono tenute si accompagna sempre la percezione delle pulsioni minacciose che le agitano, la messa a fuoco lucida dei limiti che possono trasformarle in pericolo mortale. Anche per se stesse. 
Tra il dissolvimento del tessuto sociale e culturale ebraico-orientale e l’acquisizione di protagonismo da parte delle masse il nesso è immediato. Il vento che spinge verso il centro della scena le moltitudini anonime è lo stesso che abbatte la siepe eretta dall’ebraismo orientale per impedire alla Storia di contaminarne la diversità. Proprio perché Singer ignora l’epilogo apocalittico della Shoah, nei suoi libri la fine dell’ebraismo orientale figura come riflesso parziale in grado di esaltare un sommovimento generale. Nella sua «separatezza», la vicenda particolare degli «ebrei dell’Est» funziona come traccia privilegiata per decodificare e interpretare il quadro complessivo. 
A diffferenza che nei grandi romanzi successivi, in Acciaio contro Acciaio il tema della secolarizzazione e della conseguente disgregazione della comunità ebraica non è affrontato direttamente, né citato esplicitamente, pur rappresentando parte essenziale dell’insieme. Lo Shtetl è già alle spalle e Israel, tanto più in questa fase giovanile, è del tutto impermeabile al richiamo della sua mistica, che pervaderà invece l’opera di Isaac. Gli operai ebrei che lavorano a Varsavia sotto il comando tedesco sono una comunità etnica non diversa da quelle polacche e russe con cui dividono un lavoro massacrante. I miserabili rifugiati che Lerner, su mandato del miliardario e filantropo ebreo Aharon Lvovic, tenta di trasformare in comunità operosa e coesa sono e resteranno una ciurma ignorante, superstiziosa e infida. 
Lerner, come prima di lui Aharon Lvovic, sono il prodotto più vitale della disgregazione dello Shtetl: energici, intraprendenti, divorati dalla necessità di fare, dall’urgenza di incidere sul mondo, ma anche soli e disancorati. Nonostante disponga di forza, intelligenza e orgoglio in quantità, Lerner non trova mai un controllo sulla propria esistenza. Finisce sempre in situazioni che non dipendono da una sua scelta: è disertore, operaio, educatore e rivoluzionario, sempre per caso. Una scialuppa senza ormeggio, in balia della tempesta della storia del ventesimo secolo.

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