lunedì 13 giugno 2016

Appena un po' più a sud delle foibe: antiguerriglia, guerra totale e pulizia etnica fascista in Montenegro

Federico Goddi: Fronte Montenegro. Occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943), LEG, PAGG. 308, EURO 26

Risvolto
Un fronte della guerra italiana oggi dimenticato, un sistema di un'occupazione militare sinora ignorato dagli studi. Eppure l'Italia fascista Iin Montenegro fra 1941 e 1943 sperimentò l'antiguerriglia come non fece altrove nei Balcani durante tutto il secondo conflitto mondiale. Nel quadro della guerra fascista il controllo di quel territorio - incastonato fra la Serbia occupata dai nazisti, lo Stato indipendente croato e l'Albania occupata dall'Italia fascista - rappresentava uno snodo importante. Inoltre il pur piccolo Montenegro offriva agli occupanti risorse economiche cui l'Italia fascista guardava con attenzione. C'era però un problema: i montenegrini mal sopportavano il dominio italiano e nelle montagne della loro regione venne a nascondersi, e ad operare, il cuore della resistenza antifascista e antinazista di tutta la Jugoslavia, compreso Josip Broz Tito. Federico Goddi ricostruisce tutto questo grazie ad un'assai ampia ricerca, dragando i più diversi archivi fascisti e traendo spunti dalla storiografia montenegrina. Ne scaturiscono le scelte del Governatorato militare italiano e l'impatto della quotidianità d'occupazione sulla società locale. Emerge distintamente come l'azione repressiva degli occupanti fu segnata da un complesso conflitto fra autorità militari con aspirazioni egemoniche e autorità civili. 
Italiani brava gente spietati nei Balcani 

Federico Goddi ricostruisce la vera storia dell’occupazione fascista in Montenegro dal 1941 e al 1943. Tra internamenti e rappresaglie a danno dei civili

SIMONETTA FIORI 12/6/2016 Restampa
Icattivi sono sempre gli altri. Così ce la siamo raccontata per svariati decenni a proposito dell’occupazione italiana nel Montenegro. Due anni di assedio, repressione e rappresaglie contro i civili tra l’estate del 1941 e il settembre del 1943. Pagine della storia italiana a lungo rimosse, scivolate sotto i più facili pregiudizi contro i Balcani “terra di violenza”, perché altrimenti come giustificare i crimini commessi dai civilissimi popoli occidentali? A rompere un protratto silenzio, nel corso degli anni, sono state le ricerche tra gli altri di Enzo Collotti e di Davide Rodogno. E ora un documentato saggio di Federico Goddi disegna il tassello mancante, che s’è poi rivelato il cardine dell’intero progetto fascista nei Balcani. Perché proprio in quel piccolo lembo di terra incastonato tra Serbia, Albania e Croazia il regime mise a punto agguerrite strategie repressive che anticipano d’un anno la famigerata circolare 3 C, comunemente considerata l’atto di inizio della politica della terra bruciata.
Grazie a uno sterminato materiale inedito, rinvenuto negli archivi di tre paesi diversi – Italia, Serbia e Montenegro – Goddi ricostruisce un articolato sistema di campi di concentramento in cui gli occupanti chiusero i civili montenegrini solo sospettati o comunque “indesiderabili perché filo serbi o comunisti”. Una politica d’internamento mirata soprattutto ai parenti prossimi dei ribelli, anche donne e bambini ritenuti colpevoli solo per ragioni di sangue, puniti con la fame e con la sete. «I civili arrestati costituivano una riserva umana per le rappresaglie », racconta Goddi. A un attentato partigiano, le forze armate rispondevano con l’immediata fucilazione dei civili internati.
La recrudescenza della violenza fu dovuta anche alla particolare natura della guerriglia partigiana, temibile per velocità e strategia, «attacchi brevi ma violenti, combinati sincronicamente, così da chiudere in una tenaglia psicologica un nemico in preda al panico». La reazione non si fece attendere. Già nell’agosto del 1941 i provvedimenti militari ordinano rastrellamenti di civili, case incendiate e fucilazioni in caso di mancata collaborazione. Nella repressione si distinsero in particolare due formazioni militari, la Pusteria e la Venezia, i cui generali s’erano formati nelle imprese coloniali d’Africa. Una tragedia umana che lascia ferite profonde nei nostri soldati: dopo l’8 settembre diverse migliaia tra loro sarebbero confluiti nelle file della resistenza jugoslava.
Il lavoro di Goddi è interessante anche perché per la prima volta offre un’analisi sociale dell’ambizioso progetto di Mussolini. L’unico capace di registrarne l’improponibile disegno fu l’emissario della Banca d’Italia le cui note preannunciano la disfatta. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ma piantiamola con questa retorica del fronte di guerra dimenticato! Sono decenni che escono libri sull'occupazione della Jugoslavia e TUTTI, tranne quelli pubblicati dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, connotati da un profondo livore verso l'Italia e da un supremo disprezzo per la legge e la logica. Tutti, infatti, sono accomunati dal "dimenticare" che rappresaglie e internamenti erano il risultato dei barbari omicidi, attentanti, torture e massacri compiuti dai partigiani slavi, illegittimi combattenti e pertanto criminali di guerra.
Vediamo, invece, quanti sono gli studi accademici condotti sugli italiani prigionieri (finché non venivano ammazzati) dei partigiani medesimi, o quanti sono gli studi sugli italiani deportati in Jugoslavia alla fine della Guerra. Quanti, per dire, sono i libri che espongono le condizioni di sopravvivenza (vita sarebbe una parola grossa) nel campo jugoslavo di Borovnica?
Il giorno del ricordo del 10 febbraio è diventato la scusa per il più bieco giustificazionismo a favore degli slavi, grazie al dominio di professori di estrema sinistra nelle cattedre universitarie di storia contemporanea e alla grancassa degli Istituti di storia della Resistenza.