venerdì 24 giugno 2016

Brexit ma soprattutto noi incorreggibili subalterni


Mi ero addormentato nel paradiso dell'amore continentale e mi risveglio nell'inferno dell'egoismo nazionalistico, anche se ancora non si vedono le cavallette. E giusto giusto quando i nuovi salvatori della Patria italica, onestissimi cavalieri della virtù, avevano cambiato cavallo...

Nessuna tragedia, nessuna salvezza. Nessuna manipolazione populistica della volontà popolare e nessun trionfo del suffragio universale. Nessuna rappresentazione referendaria della lotta di classe tra ceti abbienti e ceti popolari ma ampie divisioni all'interno di tutte le classi lungo le linee di faglia economiche ma anche culturali tra i sottogruppi.

Mentre respingiamo con un pernacchio il terrorismo psicologico europeista, non dovremmo accodarci a chi gioisce emotivamente per un evento che di per sé è una lotta interna alla borghesia britannica, europea, euroatlantica. E che in assenza di progetti politici seri - che non esistono e non esisteranno per decenni - non conduce in maniera spontanea né al socialismo né alla democrazia ma in determinate circostanze può essere occasione di uno sfruttamento non diverso da quello attuale.
Se la rottura dell'Unione è un campo di forze quanto la sua costruzione, in entrambi i casi non c'è purtroppo dubbio su chi abbia più chance di avere la meglio tra la sinistra e la destra.

Nessun evento ha di per sé un significato politico univoco e nemmeno gli Tsipras o i Cameron. Tutto lo assume solo dentro un orizzonte che è già orientato da rapporti di forza. E anche la natura della direzione egemonica dei processi e dell'opinione pubblica ha la sua rilevanza.

 importante il segnale che mette in discussione la narrazione prevalente delle élites: è il segno che la storia c'è ancora e che l'avversario è esso stesso diviso. Ma dentro o fuori, euro o lira, nulla procede da sé. E senza principi politici, senza bussola e soprattutto senza conflitto dal basso per l'emancipazione (per il quale va ricostruito un soggetto organizzato) ci sarà sempre e solo il conflitto dall'alto per la sottomissione.

Subalterni sono gli entusiasti dell'Europa ma non di meno gli entusiasti del sesterzio.

È difficile dire se le condizioni della lotta siano ora più favorevoli o più complicate. Ma è facile prevedere che tutto questo non ci esonera da un lavoro politico al quale non siamo affatto pronti nemmeno sul piano mentale.

Per fortuna, improvvisamente, anche quest'anno è esplosa l'estate [SGA].


Limes

Servergnini Corriere

La partita (coperta) della CityC
orriere della Sera 24 Jun 2016 Di Federico Fubini
La City ha seguito il referendum con l’apprensione di chi sa di giocarsi molto. Hsbc, la più grande banca britannica, aveva messo in guardia i clienti con una lettera in cui li allertava riguardo «eventuali turbative di mercato».
Il diaframma fra la normalità e il caos non dev’essere mai stato così sottile e invisibile come ieri all’ora di pranzo lungo il Tamigi a Canary Wharf. Nel nuovo distretto finanziario nella parte orientale di Londra, dominato di grattacieli delle grandi banche globali, una folla in gran parte maschile e di mezza età passeggiava fra caffè e ristoranti etnici assaporando un attimo di relax. Non si percepivano differenze da ieri, o da un anno fa. Nessuno alzava gli occhi alla striscia elettronica di notizie proiettata in rosso a ciclo continuo lungo la fiancata di un palazzo sul fiume: c’era scritto che Barclays, una delle grandi istituzioni di questo distretto verticale, aveva smesso di eseguire per i clienti certe banali operazioni sui mercati dei cambi.
Era giusto poche ore prima che i peggiori fantasmi del milione di londinesi che lavorano attorno alla finanza dessero l’impressione di dissiparsi. Nelle ultime ore di ieri, il mercato ha dato sempre più credito allo scenario che voleva da sempre: una Gran Bretagna ancorata alla Ue. L’universo della City contribuisce al 12% del reddito del Paese, gestisce quasi metà dei volumi di scambio dei mercati valutari del mondo e ha bisogno di restare in simbiosi con il sistema dell’euro.
I sondaggi di giornata da YouGov, a urne chiuse, hanno dato una prima, molto provvisoria, conferma: il fronte del «Remain», restare in Europa, sembra avanti 52% a 48%. Eppure dietro la superficie di normalità, nelle ultime ore i protagonisti di Canary Wharf avevano dato dei segnali d’allarme. In una nota Hsbc, la più grande banca britannica, aveva messo in guardia i clienti: «La stiamo allertando di turbative sui servizi in conseguenza di maggiore volatilità e mancanza di liquidità. Condizioni anomale di mercato potrebbero attivare sistemi di sicurezza».
Linguaggio volutamente burocratico per dire che se troppe schede fossero cadute nelle urne con la croce dalla parte sbagliata – la secessione dall’Unione - i fantasmi del 2008 sarebbero tornati: mercati paralizzati dall’incertezza, banche incapaci di finanziarsi, giorni di panico. Anche Ubs, Bank of America e Morgan Stanley avevano scritto qualcosa del genere.
Non è mancato ieri qualcuno che ha cercato di sopprimere l’incertezza con le proprie armi. Per chi ha un martello tutto somiglia a un chiodo, per chi ha molto denaro non c’è niente che non si possa acquistare. Poco importa che siano beni pubblici come un’informazione d’interesse nazionale – e mondiale - non ancora resa disponibile alla collettività. Per questo referendum era stato deciso dalle grandi reti televisive di non commissionare «exit polls», i sondaggi fra gli elettori all’uscita dalle urne da rendere noti a seggi chiusi: troppo alto il rischio di errore sul filo. Ma ieri sera alle 9:30 di Londra, mezz’ora prima della chiusura delle urne, altri «exit polls» privati sono atterrati sulle scrivanie dei pochi che se li sono potuti permettere: fondi speculativi, grandi gestori. Un sondaggio di quel tipo costa oltre centomila euro, ma per questi soggetti è denaro ben speso.
Alcuni di essi hanno avuto tempo di agire sul mercato delle valute in Asia grazie a informazioni d’interesse collettivo che, a quel punto, avevano solo loro. Nei trenta minuti prima della chiusura delle urne la sterlina si è impennata bruscamente sul dollaro (da 1,4799 a 1,4902). Per quella mezz’ora, prima che uscissero i sondaggi di YouGov, soggetti privati con molti mezzi hanno controllato un’informazione di rilevanza pubblica in regime di monopolio a scopo di lucro. Non è reato solo perché con questo referendum (e questa potenza di fuoco del sistema finanziario) la realtà ormai supera il quadro delle leggi esistenti.
Né è un caso isolato, in questi anni: anche i monopolisti globali della tecnologia, Google o Facebook, godono di un dominio asimmetrico su informazioni collettive. La differenza è che stavolta tutto si è giocato in pochi minuti. L’esito del referendum britannico era destinato in ogni caso a genere scie sismiche, e non solo sulla sterlina. Secondo Goldman Sachs lo spread fra Bund e Btp decennali, lo scarto di rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi, era destinato a tornare attorno ai 200 punti-base ( 2%) in caso di uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Anche i titoli delle banche quotate a Piazza Affari si sono rivelati molto esposti al referendum di Londra.
Proprio l’Italia del resto è una delle tessere del domino su cui erano appuntati di più gli occhi del mercato. Fra le vittorie del Movimento 5 Stelle alle amministrative e il referendum sulla Brexit, i banchieri di Canary Wharf hanno ricevuto continuamente domande dei grandi clienti sui crediti inesigibili delle banche italiane, sul debito pubblico e sulla stabilità politica del Paese. Perché il mercato funziona così: una cattiva notizia Oltremanica basta a concentrare l’attenzione sulle altre aree fragili. E anche uno scampato pericolo lascia tutti con un dubbio: nessuno sa quanto è sottile – e invisibile – il diaframma di normalità che ancora protegge gli assetti politici in Europa.

Ma nessuno può sentirsi un'isola
Corriere della Sera 24 Jun 2016 Di Niall Ferguson
Nessun uomo è un’isola, diceva John Donne, e ogni omicidio cambia un po’ il mondo. Chiunque sia stato assassinato mercoledì scorso in Inghilterra — e qualcuno probabilmente lo è stato, visto che nel 2015 sono stati 573 gli omicidi registrati — la vittima avrà lasciato amici e parenti. Da qualche parte, lontano dall’attenzione mediatica, si piange il morto, si soffre in silenzio.
A mio avviso l’assassinio di Jo Cox appartiene al genere di reato che cambierà il mondo, e di molto. Vorrei solo poter dire la stessa cosa per le 49 persone che hanno perso la vita a Orlando, una settimana fa.
Al di là dell’atroce tragedia, e malgrado il numero ingente di vittime a Orlando, in confronto a Birstall, i due avvenimenti presentano somiglianze solo superficiali. In ciascun caso, l’omicida è sembrato animato da una motivazione ideologica. Si è saputo venerdì che la polizia ha rinvenuto insegne naziste e opuscoli razzisti in casa di Thomas Mair. L’assassino di Orlando, Omar Mateen, aveva giurato fedeltà allo Stato Islamico su Facebook prima del massacro, e di nuovo per telefono durante la sparatoria.
Uno di loro ha urlato «Prima la Gran Bretagna!». L’altro, «Allahu akbar!» Subito dopo, in entrambi i casi, è stata rispolverata la vecchia storia dei disturbi mentali, come se le persone sane di mente non possano macchiarsi di tali atti. Mair aveva «trascorsi di malattia mentale», ha detto suo fratello. Mateen era stato «un giovane collerico, affetto da disturbi psichici, mentalmente instabile», nelle parole di Obama.
Esiste la tentazione, evidentemente, di concludere che siamo davanti a due facce dello stesso mostro, chiamato «estremismo» — due atti criminali ma di identica matrice terroristica, mentre l’unica differenza sta nella vasta superiorità della potenza di fuoco tra le mani di Mateen.
Certo, quando giovedì si è diffusa la notizia dell’assassinio di Jo Cox , la mia prima reazione è stata, «no, non un’altra volta!». Ho passato le due ultime settimane a viaggiare in Europa. A Belgrado, ho ascoltato notizie scoraggianti sulla radicalizzazione dei musulmani del Kosovo. A Dresda, ho sentito i manifestanti di estrema destra che urlavano «la Germania ai tedeschi!». A Berlino, qualcuno mi ha ricordato un’intervista rilasciata a febbraio del 2009, quando mi era stato chiesto quali sarebbero state, a mio avviso, le conseguenze della crisi finanziaria. Avevo risposto, con grande sorpresa del mio intervistatore: «Scorrerà il sangue, nel senso che una crisi di tale portata non può non esasperare i conflitti politici oltre che economici. Alcuni Paesi saranno destabilizzati. Scoppieranno guerre civili che finora sono rimaste sopite. Cadranno i governi moderati, per lasciare il posto agli estremisti. Tutte cose prevedibili». In questo caso, due nuovi eventi vengono a sommarsi all’elenco preannunciato.
Tuttavia, paragonare Birstall a Orlando significa trascurare due importantissime differenze. Benché i due crimini siano moralmente identici, occorre distinguere tra le minacce che essi rappresentano. Ovvio, i neofascisti come Mair sono ripugnanti tanto quanto gli islamisti co- me Mateen. Come ideologia, fascismo ed estremismo islamico sono altrettanto letali per la libertà umana. Oggi, però, la portata della minaccia neofascista è di gran lunga inferiore a quella islamista.
Non esiste Stato al mondo che abbia adottato la linea politica di Britain First o della National Alliance, un’organizzazione — quest’ultima — fondata sul principio della supremazia della razza bianca, con la quale si dice che Mair avesse contatti. Né sono a conoscenza che esistano territori sottoposti al controllo di questi gruppi o di altri simili. Per contrasto, le finalità degli estremisti islamici sono appoggiate in varia misura da numerosi Stati, e il cosiddetto Stato Islamico oggi controlla parte dell’Iraq e della Siria. In quanto al numero di attentati terroristici messi a segno dai neonazisti negli ultimi anni, il loro numero appare esiguo se confrontato a quelli commessi dai gruppi islamici. In base ai dati pubblicati dal Consorzio nazionale per lo studio del terrorismo e la risposta al terrorismo (Start), condotto dai ricercatori dell’Università del Maryland, i gruppi di estremisti islamici si sono resi responsabili di oltre l’85 per cento delle stragi provocate dal terrorismo in tutto il mondo, tra il 2006 e il 2014.
La seconda grande differenza tra Birstall e Orlando sta nelle distinte reazioni innescate dai due attentati. Sull’onda emotiva di tali atrocità, i politici americani non esitano a strumentalizzare gli avvenimenti a loro vantaggio. Subito dopo la strage di Orlando, il presidente Obama ha accusato le carenze normative sul possesso di armi. Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza, ha reiterato le sue posizioni sui limiti da imporre all’immigrazione dei musulmani. I rappresentanti della comunità omosessuale e transessuale (Lgbt) hanno dato la colpa all’omofobia. I portavoce del Consiglio delle relazioni americane e islamiche hanno scagionato l’Islam. E così via, aggiudicando a Trump il premio per la strumentalizzazione più vergognosa della tragedia.
Ma tutte queste spiegazioni non colgono nel segno. Attentati sanguinosi sono stati commessi anche in Paesi dotati di leggi severe sul possesso di armi. L’attentatore in questo caso non era un immigrato. Avrebbe potuto prendere di mira tante altre minoranze, come gli ebrei, oppure la folla di spettatori a una partita di baseball, visto che molti attentati terroristici sono del tutto indiscriminati. In quanto all’inevitabile affermazione che tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’Islam, è come dire che l’esecuzione dello zar Nicola II non aveva nulla a che vedere con il marxismo e che l’assassinio di Airey Neave non aveva nulla a che fare con le rivendicazioni repubblicane irlandesi.
Sventolare la definizione di «terrorismo locale» non ha fatto altro che generare ulteriore confusione. Il vero significato di quanto è accaduto a Orlando domenica scorsa assume una valenza globale. Malgrado le leggi varate sul controllo delle armi e sull’immigrazione, quasi tutti i Paesi al mondo oggi sono vulnerabili davanti ad atti di violenza imprevedibili commessi contro civili di ogni genere — a livello mondiale, le vittime sono in maggioranza gli stessi musulmani — per mano di persone che credono nell’interpretazione e nella pratica letterale dell’Islam non come religione, bensì come ideologia politica.
Le conseguenze politiche dell’assassinio di Jo Cox non potevano essere più diverse. Lungi dal voler strumentalizzare l’accaduto, i politici di tutti gli schieramenti a favore o contrari alla
permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea hanno sospeso le loro campagne e hanno serrato le file per esprimere tutto il loro sgomento e offrire le loro condoglianze. Alcuni giornalisti — mi riferisco ad Alex Massie — non hanno resistito alla tentazione di accusare i sostenitori del Brexit per la morte di Jo Cox, ma la stragrande maggioranza ha esercitato una notevole compostezza. Devo confessarlo, la mia reazione immediata, e viscerale, è stata quella di condividere le posizioni di Massie. Ma mia moglie, che dal canto suo ha ricevuto non poche minacce di morte, mi ha rimproverato. «Quello che ammiro del tuo Paese è che qui nessuno si azzarda a saltare a simili conclusioni!». Non so che cosa sarebbe successo se l’assassino di Jo Cox fosse stato un musulmano, al grido di «Allahu akbar!». Mi auguro che la reazione sarebbe stata altrettanto misurata. Spero inoltre — soprattutto per il marito e i bambini di Jo Cox — che la moderazione dimostrata dai nostri politici consentirà all’opinione pubblica di tirare le conclusioni da quanto accaduto la scorsa settimana (ma non vi rivelerò quali sono le mie previsioni). Potrei anche sbagliarmi. Sono tuttavia più che certo che la reazione scomposta dell’America al massacro di Orlando ha sortito precisamente l’effetto contrario.
Ricordiamo le parole di John Donne: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

Essere o non essere un’isola
Dai prati ai corgi della Regina, i britannici restano un’umanità speciale perché anfibia. E il voto sulla loro identità rilancia il Regno Unito come luogo della libertàFRANCESCO MERLO 24/6/2016 Restampa
MIA MOGLIE è inglese e ho due figli che hanno votato “Remain” «per non cacciare papà di casa», che è la formula scherzosa che riassume bene l’idea del mare aperto, del bisogno d’Europa intesa però come mondo. E tuttavia mia moglie ha zie e cugini che hanno votato “Leave” per la stessa identica ragione: «Perché l’Europa ci allontana dal mondo». Non sono gli estremisti della paura, non sono i populisti, non sono i nativisti alla Nigel Farage né gli eccentrici alla Boris Johnson, ma sono persone colte e intelligenti che hanno vissuto in Svizzera, in Francia, in Nuova Zelanda. Gli uni e gli altri, quelli che hanno votato “Remain” e quelli che hanno votato “Leave”, credono nella europeità dell’open sea di Winston Churchill, nella sua difformità rispetto ai progetti, ai sogni e qualche volta anche ai deliri franco-tedeschi, perché credono — scrive Shakespeare nel Riccardo II — in «questa isola di maestà, questa dimora di Marte, questo nuovo Eden e Paradiso Terrestre… questa pietra preziosa incastonata nel mare d’argento che la difende contro l’invidia di paesi meno felici come un muro e un fossato difendono una casa».
È questa l‘insularità degli inglesi che non sarà mai addomesticata né da un Parlamento sovranazionale e neppure da Internet. Ed è un’insularità tutta racchiusa nella sfumatura negativa con cui gli inglesi pronunziano l’aggettivo
continental, una vaga ironia che esprime estraneità e commiserazione. Continental è il breakfast che non sa di niente, è il vino, è la terrazza, è lo snob pacchiano, è salutarsi baciandosi sulle guance, è la precedenza a destra, è parlare con le mani, è la lingua inglese inevitabilmente masticata, è il barocco di chi mette più di quel che serve: «The French are glad to die for love» (i francesi sono felici di morire per amore) cantava Marylin e subito aggiungeva che il baciamano è « quite continental », molto continentale. Quando il 6 maggio del 1994 la Regina Elisabetta e il presidente Mitterrand inaugurarono l’Eurotunnel sotto la Manica un titolo spiritoso del Times riassunse così la paura dell’omologazione: «Mamma mia che puzza d’aglio».
Anche l’odore dell’isola — che è il luogo senza storia che dà origine alla storia — è speciale perché è unico. Ed è inutile contrapporre all’aglio del continente l’insularità fritta dei fish and chips mischiati al legno umido dei Piers, dei moli, e delle pietre bagnate da un mare sempre agitato. E c’è pure l’afrore di stalla dei garzoni che ravviva lo spirito di Lady Chatterley, l’odore del cavallo che è ancora l’odore tipico dell’Inghilterra, quello che diventa americano in Martin Eden, l’odore della fatica «dei bifolchi e dei facchini, dei sobborghi sozzi, puzza di verdure andate a male: quelle patate stanno marcendo, annusale, maledizione, annusale».
La ur-Pflanze, la pianta originaria che Goethe cercava nelle isole, secondo gli inglesi è la rosa d’Inghilterra, “lo splendido odore” con cui si apre Il ritratto di Dorian Gray, la rosa bianca di York fusa con quella rossa di Lancaster, la rosa dei Tudor a cui si aggiunge «l’effluvio greve dei lillà e la fragranza più delicata dei cespugli dell’eglantina, i fiori del citiso, dorati e dolci come il miele…». In realtà anche il giardino inglese è nato come un
opt- out, direbbe l’europeista con moderazione David Cameron, come un’opzione di uscita, qualche secolo prima che da Schengen e dalla moneta unica, dall’eccesso di geometria dei giardini continentali all’italiana e alla francese: il prato rasato, ma libero, contro la burocrazia di Bruxelles che imprigiona la bellezza negli arabeschi cromatici.
Il punto è che la Gran Bretagna deve, comunque, rimanere isola perché è il luogo che sta fuori dal tempo e dallo spazio, o forse è il punto in cui spazio e tempo si incontrano, un punto senza svolgimento dove tutto si conserva e dove le modificazioni, impercettibili, durano millenni. L’odore del giardino inglese di cui parla Oscar Wilde è in realtà una leggenda della botanica. E il Corgi, il famoso cane britannico che la Regina alleva, protegge e seppellisce nel castello di Balmoral, il Pem- broke Welsh Corgi che — scrisse spiritosamente il Guardian — «forse the Queen ama più del principe Filippo, dei suoi figli e dei suoi nipoti», piccolo, goffo, gambe troppo corte e testa volpina, è così strano che forse davvero è l’ur-Hund, il cane originario, il quale somiglia a tutti i cani ma non è un cane. Nelle isole, e tanto più in Gran Bretagna che è l’isola che non è stata mai invasa, tutte le forme portano tracce di antichità, sono come le ombre della caverna di Platone, e anche gli uomini e le donne sono prototipi e stereotipi di razze dimenticate o superate, con quel tanto di selvatico che affascina i cercatori di sensazioni forti, profonde e sensuali, come quando si addenta una pork pie o come quando il corpo acerbo, forte e nudo di Lady Godiva cavalcava per le vie di Coventry accecando tutti i giovani (tutti i Tom) di Inghilterra. Nell’opera di Mascagni, Lady Godiva è una vittima, nei versi di Bukowski è invece la fonte di ogni ispirazione artistica: «Una poesia è una città dove Dio cavalca nudo per le strade come Lady Godiva».
Dunque il codice mentale dell’inglese è come il Corgi della regina, inattuale e perciò dirompente, sorprendente e scandaloso. Quella isolana è infatti un’umanità speciale perché anfibia: cool, calm and collected (fresca, calma, composta) come la terra saggia e buona del Kent, e al tempo stesso rough, stormy, unruly (agitata, tempestosa, e indomabile) come il mare sconfinato della Land’s End, la punta Ovest della Cornovaglia. Aspettando il D-Day Churchill disse a De Gaulle: «Ogni volta che l’Inghilterra dovrà scegliere tra l’Europa e il mare aperto, sceglierà sempre
the open sea. E ogni volta che io dovrò scegliere tra te e Roosevelt, io sempre sceglierò Roosevelt ».
E qui si capisce bene come l’insularità possa diventare, anche senza la demagogia di un referendum, libertà o reclusione, che sono gli opposti simbolici di ogni isola del mondo. Nel 1969 tutti i ragazzi della terra si radunarono e si riconobbero nell’isola di Wight, nel Sud dell’Inghilterra: la libertà dell’isola contro i doveri, gli obblighi e le convezioni del continente. Ma l’isola è anche la punizione dell’uomo: Napoleone morì a Sant’Elena; a Ventotene fu fiaccata la dignità di Giorgio Amendola, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Ernesto Rossi…; Paul Gauguin mise in salvo nelle isole Marchesi la fantasia e i colori aggrediti dal grigio fumo della nebbia e delle ciminiere dell’Ottocento europeo. Alcatraz è il contrario di Mikonos, Guantanamo è il contrario della Key West di Hemingway. E però sempre i contrari sono complici. Ed è infatti questa doppia faccia della separatezza insulare a rendere gli inglesi così aperti e al tempo stesso così chiusi: l’isola è il mondo, è il luogo di ogni utopia (Thomas More), ma è anche il piccolo posto segreto dove si conserva la ricchezza, l’altrove dei dobloni che confortano il grigio continente, “l’Isola del Tesoro” come fierezza di essere diversi, necessari al mondo proprio perché unici e migliori, come vuole il paradosso di quel poeta veneziano, Mario Stefani, che scrisse un libro intitolato:
Se Venezia non avesse il ponte, l’Europa sarebbe un’isola.
Chiuso il referendum, stamani ogni inglese che si è guardato allo specchio si è comunque ritrovato più orgogliosamente inglese. Al di là del risultato, infatti, il rito del voto sull’identità ha rilanciato l’Inghilterra che celebra in se stessa l’isola-mare come il luogo della libertà e della civiltà occidentali, l’unico spazio d’Europa davvero transnazionale, il fuori mano e l’eccezione assunte come forza. È l’Inghilterra che ogni anno a Portsmouth rende onore alla Victory di Nelson rispettata come una chiesa. Gli inglesi credono infatti nel mare aperto, che è la sostanza della loro storia, e hanno in Nelson il vero eroe nazionale, il piccolo ammiraglio il cui cadavere fu conservato dentro un barile di brandy, l’uomo con un braccio solo, cieco da un occhio, goffo sulla terra e bellissimo in acqua, maldestro, imbranato e isterico in porto, ma intelligentissimo sulla nave che è sempre inglese perché è l’isola che va per isole, governata da un comandate che ne traccia la rotta e non può mai abbandonarla. La nave, dove libertà e reclusione coincidono perfettamente, è il luogo in cui l’inglese si illude di sentirsi più vicino alla propria origine. Scrisse Stevenson: «Noi inglesi abbiamo la pretesa che il mare sia inglese. Anche sotto i cannoni e negli spazi più ostili delle nazioni straniere e lontane, sul mare siamo in patria. È il cimitero dove i nostri avi riposano aspettando le trombe del giudizio universale, il nostro accesso al mondo e il nostro baluardo».
Ci voleva davvero un referendum, così terribile e appassionato, perché l’Inghilterra tornasse a proporsi come laboratorio dell’Occidente, lo scrigno dei suoi valori, la banca delle risorse del navigatore cosmico, dell’isolano primordiale che è l’uomo del futuro, dell’inglese come pirata d’Europa. È infatti l’insularità che ha trasformato la pirateria in civiltà. Il pirata, senza l’isola che gli è solidale, non sarebbe mai esistito e mai potrebbe esistere. Il pirata e l’isola sono come l’astronauta e le stelle. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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