giovedì 23 giugno 2016

"Calcolabilità giuridica"

Natalino Irti: il populismo pesa anche sulla legge 
Convegno ai Lincei sulla «calcolabilità giuridica» un concetto che risale a Weber ed è ancora attuale 
Busiarda 23 6 2016
Filosofi (Pietro Rossi), matematici finanziari (De Felice, Carleo, Moriconi) e giuristi (De Nova, Onida, Alpa, Di Porto, Nuzzo, Canzio, Patroni Griffi) che riflettono sulla disgiunzione tra «sapere tecnico-economico» e «sapere giuridico» e sui problemi del valutare, prevedere, giudicare. A convocarli Natalino Irti, professore emerito alla Sapienza di Roma e giurista anomalo per attitudine sincretistica, di cui esce per Giappichelli una raccolta di saggi dal titolo Il diritto incalcolabile. Dal retrobottega del diritto ai massimi sistemi. Partendo da Max Weber.
Cos’è la calcolabilità giuridica?
«Il tema risale al grande Max Weber, che, descrivendo genesi e caratteristiche del capitalismo occidentale, segnalò l’essenzialità del calcolo giuridico, cioè della possibilità di prevedere l’esito delle controversie. L’imprenditore conta sul futuro, e dunque ha anche aspettative di carattere giuridico, sia nei rapporti con le pubbliche istituzioni sia nei contratti privati».
È imprescindibile per la nostra società?
«E’ un riflesso del razionalismo occidentale, che utilizza a tale scopo lo strumento della legge e ne affida al giudice l’applicazione nel caso concreto. La distinzione tra “fare” e “applicare” la legge, ossia tra potere legislativo e potere giudiziario, è fondamentale. La nostra Costituzione si muove in questa logica».
Come mai Weber, fondatore della sociologia, si occupa della sovrastruttura giuridica?
«Le sue riflessioni sulla calcolabilità giuridica sono suggerite, tra l’altro, dall’alta considerazione che egli aveva dei giuristi del suo tempo. Weber aveva conseguito il dottorato con una dissertazione di storia del diritto commerciale, e percepiva l’influenza che il ceto dei giuristi, come élite della borghesia tedesca svolgeva sull’intera società».
Questo vale ancora oggi?
«Weber fu ascoltato consigliere di Hugo Preuss, padre della costituzione di Weimar. Oggi questa influenza è tramontata».
Eppure il ruolo sociale dei giudici non è affatto diminuito.
«Infatti non a caso io ho parlato dei giuristi e non dei giudici. L’opinione di questi ultimi ha la forza della sentenza. Anche quando è sbagliata. Invece l’identità sociale dei giuristi è scomparsa».
La calcolabilità giuridica vale anche per forme «anomale» di capitalismo, come quello cinese?
«Il problema si va imponendo anche in Cina, dove è avvertito il bisogno di un codice civile unitario, che permetta agli imprenditori, nazionali o stranieri, di formulare serie aspettative sulle controversie future. Al convegno interverrà anche un collega dell’Università di Shanghai».
Stiamo vivendo una crisi della calcolabilità giuridica?
«La razionalità del sistema si è venuta incrinando negli ultimi anni. Indicherei, fra gli altri, tre fattori: l’impiego giudiziario di “clausole generali” e di “valori”, non ricavati dai testi legislativi; la considerazione del “fatto”, delle circostanze concrete, che esigono una risposta non “mediata” dalla legge; infine, il ricorso, sempre più assiduo, ai “precedenti”, ossia alle sentenze già pronunciate su casi identici o simili».
Qual è la conseguenza?
«Il dilagare del soggettivismo del giudicante, talvolta con vene di irrazionalità. Allora il calcolo del futuro giuridico diviene impossibile, e l’attesa del cittadino può rimanere delusa. L’affidamento in ciò che dice la legge non basta più».
Giudici come anodine bocche della legge: è ancora possibile, in una società post moderna?
«L’immagine risale al barone di Montesquieu. E indica, a mio parere, la grandezza del giudizio, che non è reso da un piccolo e solitario “io”, ma dall’impersonale volontà della legge. Questa è anche la logica della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa».
Non è passatismo, professore?
«Non si tratta di rimpiangere il passato, ma di esigere chiarezza sull’ordinamento giuridico, di sapere se siamo in uno Stato legislativo o in uno Stato giurisdizionale, o se ci troviamo in una fase di transizione fra l’uno e l’altro».
Non crede che il soggettivismo del giudicante vada a braccetto con l’involuzione del legislatore, sempre più caotico e incompetente?
«Ho segnalato il problema della legge fin da un lontano saggio del 1978 sulla “età della decodificazione”. La soluzione può giungere soltanto dalla storia del nostro Paese e dall’unità etico-politica della società italiana. Il giurista vede, registra, denuncia, è pronto al dialogo con la classe politica, ma oltre non può andare».
Legislatore remissivo e caotico e ipersoggettivismo del giudice: c’è il rischio che questo produca una combinazione di populismo, sia a livello politico sia giudiziario?
«Sì. E il sistema capitalistico non si oppone».
Come mai?
«Vedo due possibili motivi: perché questo agevola le scorribande finanziarie o perché preferiscono costruirsi un diritto tutto per sé, fatto di arbitrati, che prescinde dalle istituzioni pubbliche».
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