martedì 28 giugno 2016

Differenza femminile e narrativa

Anna M. Crispino, Marina Vitale (a curadi): Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuka e Goliarda Sapienza, Iacobelli

Ossimori che intrecciano differenze e scritture 
ANTICIPAZIONI . «Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuka e Goliarda Sapienza», un volume collettivo e a più voci per Iacobelli editore fra letteratura e critica. Un estratto dall’introduzione

Anna Maria Crispino e Marina Vitale Manifesto 28.6.2016, 16:48 
L’ambivalenza, un tempo forse meno riconosciuta, riconoscibile e confessabile come dinamica sottesa alla «irrazionalità» e «incongruenza» che il giudizio maschile imputava – e spesso tuttora imputa – ai comportamenti femminili considerati privi di «ragionevolezza», ha perso la sua connotazione di «duplicità bugiarda» per assumere le connotazioni di un sentire che sembra governare in modo particolare le relazioni tra donne, nella sfera privata e in quella sociale e politica. L’ambivalenza, fuori dal suo ambito psico(pato)logico, ci appare sempre più come ciò che consente di tenere insieme le parti diverse e a volte conflittuali del proprio sé. È nel rapporto tra l’Io e il mondo che, più in generale, il riconoscimento e l’accettazione del nostro essere ambivalenti ci obbliga a una riformulazione della categoria di «soggetto», alla sua scomposizione e al suo scardinamento. 
L’ambivalenza «del» testo, riguarda il tratto radicalmente e ineludibilmente fondante della «letterarietà» del testo letterario – sempre a metà strada tra verità e finzione, tra l’ancoraggio al «reale» e il «volo della mente». Questo gioco tra realtà e finzione, immaginario e fattuale, è tanto più delicato nel tumultuoso svolgimento degli eventi politico-istituzionali che hanno plasmato per circa sette decenni la vita italiana dall’inizio del Novecento ne L’arte della gioia di Goliarda Sapienza; le vicende politiche italiane degli ultimi settant’anni e quelle più locali, ma pur sempre intimamente incardinate con la più ampia storia nazionale, nella quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante; e le politiche americane di controllo dei flussi migratori e in particolare l’incoraggiamento dei ricongiungimenti familiari per le «spose per corrispondenza» giapponesi nel periodo tra le due guerre mondiali e le successive misure poliziesche verso la comunità giapponese dopo Pearl Harbour in Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka. 
Se la classica letteratura sul «doppio» mantiene drammaticamente separate «le due metà» fino alla catastrofe finale, il gioco del doppio si dispiega anche – in tanta letteratura, soprattutto in quella scritta da donne – nella relazione madre-figlia. Roberta Mazzanti ne segue l’incessante presenza-con-variazioni nel corpus narrativo e saggistico di Ferrante, analizzando l’alternarsi di sostituzioni e slittamenti in una variegata gamma di triangolazioni in cui l’endiadi madre-figlia si integra e si complica di volta in volta con sorelle, amiche, figliolette e persino bambole, includendo rapporti di fusione e separazione, protezione e competizione, desiderio e repulsione, in un quadro di quasi ossessiva presenza-assenza della madre naturale e di sua costante, ma instabile, sostituzione con doppi reali o immaginati nel corso del lungo, faticoso divenire a cui Ferrante si riferisce con il termine diventare. 
In Otsuka prevale invece, in più punti, l’angoscia di un «non essere più», che si aggiunge al «non essere ancora» . Una impasse che caratterizza la condizione di molte (e molti) migranti. Su questa condizione, riferita alle successive ondate e generazioni di migranti su suolo italiano negli ultimi decenni, si interroga l’intervento di Monica Luongo, con un’attenzione particolare alla diversa ambivalenza connessa con i vari progetti migratori di uomini e soprattutto donne di diverse appartenenze etniche. In Otsuka la sfumata omogeneità del «noi» si spezza ulteriormente nel rapporto con la nuova generazione nata nel nuovo mondo e portatrice di una diversità sconcertante, di una ambivalenza profonda tra la cultura dei genitori immigrati e quella della comunità ospitante.
Questa mutazione è stata raccontata tante volte con accenti diversi e mediante linguaggi diversi. Si pensi ad esempio alla videoinstallazione ideata nel 2002 da Zineb Sedira con il titolo Mother Tongue (Lingua madre) discussa nel contributo di Cristina Giudice. 
La componente memoriale è un altro aspetto costitutivo dell’ambivalenza identitaria che si manifesta attraverso il riaffiorare di un sé precedente che non è mai definitivamente perduto, né mai completamente (o semplicisticamente) ritrovato. Sapienza ce ne mostra l’inevitabilità in molte tappe del «divenire» di Modesta, come sottolinea Marta Cariello.
L’accezione articolata e complessa del concetto di «ambivalenza» tende a superare le nette contrapposizioni binarie a favore di una visione sfumata e resiliente che tolleri, inevitabilmente, anche zone di «opacità» (Serena Guarracino, Laura Marzi-Francesca Maffioli); sostituisce la logica dell’aut-aut con il tentativo di tenere insieme i due corni della contraddizione senza escluderla per arrivare a una scelta univoca, positivamente marcata da una pretesa, ragionevole ma spesso astratta e talvolta autodistruttiva, coerenza. 
Negli scritti di Ferrante quel momento di crisi si manifesta con un malessere tra il fisico e lo psichico, definito «frantumaglia» nel volume omonimo e che Lila esperisce come «smarginatura», quando diventa per lei insopportabile il binarismo della normatività sociale e di genere, quando più si rende conto delle pressioni socioculturali esercitate su di lei dal rione, dalla famiglia, dagli amici e dalla cricca camorristica locale, nell’ambito sessuale (o più ampiamente di genere) e in quello del potere. Ne parlano Lidia Curti e Ambra Pirri, riferendosi anche alla categoria freudiana del «perturbante». Modesta, da parte sua, pur esercitando in modo supremo l’arte di smarcarsi dai cliché e schivare le gabbie del conformismo, precipita occasionalmente in stati di ritiro psichico e di sospensione della vita; mentre le «noi» di Otsuka sentono di scomparire, diventare fantasmi, quando diventa troppo grande la frattura tra la realtà ostile e le loro aspettative e progetti di vita. 
Più che l’antitesi di opposti inconciliabili, la figura retorica più adatta a definire le condizioni esistenziali vissute dalle personagge nei loro travagliati percorsi biografici è piuttosto quella dell’ossimoro, richiamato nel contributo di Paola Bono, figura del fecondo intreccio tra diversità, foriera di novità e rinnovamento; esempio di «soggetto eccentrico» nel senso anti-identitario proposto da Teresa de Lauretis e dalla teoria queer.
Ma può valere, ad esempio, in altro modo anche per la «riscrittura» teatrale della storia di una Modesta immaginata, prefigurata per forza di desiderio da Sylvia De Fanti a confronto con la figura di Sant’Agata, patrona di una città, Catania, che le dedica una festa «sacrissima e profanissima in quanto tale eccede». 
La discussione del soggetto queer, accennata anche nel saggio di Pirri, costituisce la base dell’intervento di Antonia Anna Ferrante la quale parte da un’attenta analisi delle posizioni di genere incarnate nelle personagge di Sapienza e di Ferrante, per proporre un dialogo immaginario di queste due autrici con Carla Lonzi e Paul B . Preciado. Raccontare storie e relazioni non ancora raccontate, prevedere (ossimoricamente) l’imprevisto, come ci invita a fare Nadia Setti, può portare a scoprire che nel gioco dell’uno, del doppio, delle simili ma non uguali, l’identità sempre rincorsa è un’illusione, un bluff, non la si raggiunge mai: «Non ci sono punti fermi. I punti fermi sarebbero le certezze, la ripetizione e la conferma dell’immagine di sé e dell’altra, la persistenza del desiderio». Niente a che fare con l’esigenza di significare nella scrittura – e nella lettura – il nomadismo, l’impermanenza, il continuo divenire di un sé in relazione.

Una letteratura disubbidiente Narrativa. Un'intervista con la scrittrice Bianca Pitzorno, ospite al festival «L’isola delle storie» di Gavoi. «Non so se sia mai veramente esistito un matriarcato, me lo auguro, ma nella storia che conosco le donne sono state sottomesse. Alcune si sono ribellate: è di loro che racconto nei miei libri»
Arianna Di Genova Manifesto 1.7.2016, 0:04
Da bambina Bianca Pitzorno doveva sopportare che in casa tutti leggessero, mentre lei non sapeva da dove cominciare. L’oggetto libro sprigionava un fascino denso di promesse. Le venne una specie di smania per la lettura (narrata in Storie delle mie storie), un’ossessione che le costò cara. «Mi dissero che a scuola avrei imparato a leggere e a scrivere – racconta Pitzorno – Ero così stupida da essere convinta che mi avrebbero insegnato a scrivere libri. In prima elementare sono rimasta così delusa che mi sono fatta bocciare. Sono stata una delle poche ragazzine borghesi, di buona famiglia e buone finanze, che ha ripetuto la prima classe. Accadeva solo agli alunni poveri, loro venivano mazziati e respinti. Io, invece, ero la figlia del dottore. Però mi ero ribellata, non m’importava niente di fare le aste né di copiare frasi prive di senso, tipo ’il sole splende, gli uccellini cinguettano’. Io volevo scrivere direttamente i libri».
Ride Bianca Pitzorno nel ricordare quell’inciampo scolastico, che poi, in fondo, non fu altro che un momento di libertà che si era concessa, sfuggendo alle regole. La scrittrice di Sassari, autrice amatissima, soprattutto dalle bambine, per le tante avventure create con i suoi romanzi, sarà ospite al festival «L’isola delle storie» di Gavoi, in Sardegna, in due puntate: oggi presenterà il suo ultimo libro per adulti La vita sessuale dei nostri antenati (uscito nel 2015 per Mondadori), mentre sabato sarà protagonista dei dialoghi alla finestra, intervistando la regista e scrittrice Cristina Comencini (Essere vivi, Einaudi). «Mi interessa molto il discorso dei due linguaggi. Lei è nel cinema e scrive romanzi. Io ho lavorato sette anni alla Rai e sono dovuta scappare: sono una persona solitaria, che ama il silenzio. Nello studio tv, già solo i tecnici erano una legione e per realizzare un programma bisognava andare d’accordo con un gruppo di trenta/quaranta persone. Non ho retto. Avevo l’alternativa della scrittura in solitudine, in biblioteca e a casa mia, con la vecchia macchina da scrivere. Ho scelto quella strada. Sono curiosa ora di sapere come Cristina Comencini riesca a passare dalla scrittura solitaria alla bolgia della troupe, che oltretutto deve dirigere».
La sua decisione, dopo decenni di scrittura per ragazzi, di rivolgersi adulti ha toccato un tema particolare: il rapporto di differenti generazioni di donne con il corpo e il desiderio. Come mai è partita proprio da lì?
In Sardegna lo sanno tutti, fuori di meno: già nel 1984 io scrivevo per adulti e, soprattutto, avevo pubblicato una biografia di Eleonora d’Arborea, la nostra eroina più grande. Eleonora d’Arborea, nella seconda metà del Trecento, fra le altre cose per cui è lodata e ammirata – ahimé – dai sardi separatisti, ha redatto un codice di leggi modernissimo per quel che riguarda la condizione femminile dell’epoca. Per esempio, una donna poteva ereditare come i maschi e la sua testimonianza valere quanto quella degli uomini. Poi c’è la questione dello stupro: per Eleonora d’Arborea era un reato contro lo Stato. Lo stupratore doveva pagare un’enorme multa allo Stato e poi indennizzare la donna, non sposandola, ma procurandole un marito che piacesse a lei e dotandola adeguatamente. Da gran frequentatrice di archivi, notai un altro dettaglio: suo nonno aveva lasciato un testamento nel quale aveva destinato un tot di fiorini alle figlie minori che, secondo la tradizione, si sarebbero fatte suore: se però avessero desiderato vivere in altro modo, avrebbero potuto usare quei soldi per ciò che volevano. Il maschio di casa si era interessato alla felicità della donna. Il testamento è stato studiato da moltissimi storici, ma queste tre righe nessuno le aveva mai commentate. Mi vergogno a dire che le ho scoperte io, però sono stata la prima a parlarne in pubblico. E non mi meraviglio che la nipote Eleonora, nel suo codice di leggi, abbia scritto che lo stupratore debba trovare un marito che piaccia alla donna.
Per tornare al libro La vita sessuale dei nostri antenati, questo seme lo coltivavo da molti anni, anche quando scrivevo per i più giovani. Le due città di Donora e Ordalè sono immaginarie, ma sono l’emblema della cittadina di provincia mediterranea, che potrebbe trovarsi in Sardegna ma anche in Puglia (non in Sicilia perché la dominazione araba ha lasciato altri costumi, soprattutto per quel che riguarda le donne). Ed è proprio il pregiudizio della provincia al centro di tutte le preoccupazioni delle antenate di Ada, la protagonista. Il rapporto con il sesso era stato un problema della mia generazione, ma anche di quella di mia madre, nonna e bisnonna. Sono nata prima del ’68, quando c’era ancora la legge Merlin sulle casa chiuse e la verginità era una cosa fondamentale. Ho voluto raccontare la nostra vita, le nostre difficoltà, conquiste e lotte. Mentre buttavo giù la storia di Ada, mi è capitato fra le mani, per caso, l’albero genealogico di una famiglia che risaliva al Cinquecento. Mi ha sbalordito l’enorme quantità di figli che metteva al mondo ognuna di queste signore. Essendo un albero genealogico, raccontava di persone che lasciavano traccia di sé, quindi non famiglie di poveri contadini. Eppure, la media di figli era undici a testa, fino ad arrivare a ventitré/centiquattro. Mia nonna, quando parlava delle sue antenate non accettava che noi facessimo allusioni alla loro vita sessuale. Anche di se stessa diceva che era castissima e sublime. Le donne attrezzate per il sesso erano «perdute», le altre – quelle perbene- chiudevano gli occhi e pensavano di essere altrove. Il discorso del piacere e desiderio non esisteva. Allora mi sono detta: «Non posso parlare alle nuove generazioni facendo un confronto soltanto con quello che è stato per me: guadagnare il proprio piacere, il proprio desiderio e la propria libertà. Devono anche poter vedere l’abisso che c’è stato dietro di noi, nel senso di una lunghissima strada al contrario. Sapere cosa hanno dovuto passare le donne della nostra civiltà (senza parlare di quelle asiatiche e arabe). Sia nelle narrazioni per adulti che in quelle per i più piccoli, il suo filo conduttore è un’idea di romanzo di formazione tutto al femminile…
Si dice che scrittrici e scrittori propongano sempre lo stesso romanzo. Un po’ è inevitabile: la wetalschauung che ha ispirato la loro vita è quella. È vero, se uno legge tutti i miei libri, per grandi o piccoli, la protagonista è sempre femminile e si trova a dover affrontare problemi che riguardano il suo ruolo di donna nella società e, in qualche modo, affrontarlo o subirlo, a seconda delle storie. Devo confessare che tante volte mi capita di leggere libri, soprattutto di autrici italiane più o meno contemporanee, nei quali non mi riconosco assolutamente. Non mi riconosco in quei problemi, soluzioni, rabbie. E non è solo a causa della mia esperienza personale. Ho frequentato la scuola in classi femminili e non me ne lamento. Ho sempre mantenuto rapporti stretti con le mie compagne: ho ancora le amiche del liceo, nonostante io sia andata a abitare altrove e abbia avuto una vita completamente diversa dalla loro. Ora ho 74 di anni e siamo ancora delle ribalde ragazze sovversive. Tutte quante. Sarà stata la città dove siamo cresciute, sarà stato l’ambiente borghese e illuminato in cui ci hanno educate, ma noi non abbiamo mai piagnucolato e pigolato. Ci siamo sempre rimboccate le maniche, abbiamo protestato, avute le nostre devianze, ciascuna individualmente e in maniera differente, però pochissime hanno accettato un ruolo dato per scontato. Non ho un’amica che abbia un matrimonio e dei rapporti «normali» con i figli, come leggo in certi romanzi che sembrano fornire un ritratto, uno spaccato di quella che è la condizione femminile delle donne oggi. Appartengo a una tribù un po’ anomala, forse.
In effetti, le sue protagoniste letterarie sono sempre state portatrici di grande libertà individuale, a ogni costo…
Nei miei romanzi per ragazzi, si può trovare un’amazzone contemporanea di Alessandro Magno, così come una bambina col falcone nel Medioevo. Le donne hanno avuto sempre problemi di inserimento nella società e quelle di carattere più forte non hanno accolto il ruolo subalterno supinamente. Non so se sia mai veramente esistito un matriarcato, me lo auguro, ma nella storia che conosco io le donne sono state sottomesse. Qualcuna ha accettato di esserlo, altre si sono ribellate. Nei miei libri, racconto di quest’ultime.
Ne «La vita sessuale dei nostri antenati», ma anche in molti altri suoi libri, lei si diverte a fare sciarade letterarie, gioca con le parole e le citazioni. Fa parte del suo piacere di scrivere?
Un libro abbastanza tipico mio è Parlare a vanvera, costruito con racconti umoristici e finte etimologie, che io narro «alla maniera di». «Rompere gli indugi» per esempio: indugi sono delle statuette di indù che sono classificate in un museo come «indù a, b, c, indù g», mi rifaccio ad Agatha Christie, o anche a Sherlock Holmes, comunque all’indagine inglese. Oppure, «scendere a patti», qui c’è Vittorini; o ancora, per «fare filare» mi richiamo ai romanzi medievali come Beowulf. Faccio sempre delle allusioni: nella Stoffa del campione mi ispiro a Boccaccio. Sono laureata in lettere classiche. Anche se ho fatto tutt’altro nella vita e non mi sono guadagnata il pane con quegli studi, resta la mia formazione fondamentale, la conoscenza della letteratura dall’antichità a oggi. Quando scrivo, inevitabilmente attingo a ciò che ho letto. Non sarei mai diventata una scrittrice se prima non fossi stata una lettrice onnivora e insaziabile.
Tornerà a scrivere per le lettrici e i lettori più giovani?
Ho smesso di scrivere per ragazzi nel 2000: l’ultimo è Tornatràs. Sono passati sedici anni, sono anziana, non frequento più bambini, non sono nonna. Ho scritto per loro quando la mia generazione si è riprodotta. Avevo intorno i figli dei miei amici, che frequentavo non professionalmente, non mi sono mai ispirata a scolaresche, ma parlavo singolarmente con ogni bambino. Non frequentandoli più, non voglio inventarmi niente. Soprattutto, non mi piace l’indirizzo che ha preso la letteratura per l’infanzia che fa dei predicozzi, delle narrazioni per mascherare i saggi. I ragazzi capiscono benissimo la saggistica e un ragionamento: per affrontare la Costituzione, non c’è bisogno di mettere in scena una famiglia. Né per parlare di mafia, di far innamorare la figlia del giudice e il rampollo del mafioso. Oltretutto, si raccontano un sacco di bugie: non è vero che l’amore risolve tutto. E un bambino coraggioso non può sconfiggere la mafia, semplicemente perché lo ammazzano.
È vero che lei disegna e ha illustrato suoi libri?
Da giovane, sognavo di iscrivermi all’Accademia per diventare pittrice. Non mi è stato consentito perché ai miei tempi le ragazze che ci andavano erano considerate delle poco di buono. Ho continuato sempre a disegnare da dilettante, ho pure frequentato Brera a Milano, di sera mentre lavoravo. Non ho imparato nulla e ho smesso. Ho illustrato La voce segreta per amore della mia direttrice editoriale Margherita Forestan che me lo chiese rendendo furibondo il grafico della Mondadori. Ai bambini comunque erano piaciuti quei disegni, riconoscevano i personaggi. Poi, Forestan ha cominciato a fare illustrare i miei romanzi da Quentin Blake: non avrei mai potuto desiderare di più.

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