martedì 7 giugno 2016

Galasso ricorda Arturo Colombo


Il rigore laico di Arturo Colombo Fedele alle idee del Risorgimento
Addio allo studioso dell’Università di Pavia, firma del «Corriere»: aveva 81 anni
Corriere della Sera  7 giu 2016 Di Giuseppe Galasso
Una nativa passione repubblicana e democratica era certamente la cifra fondamentale della personalità di Arturo Colombo, scomparso ieri all’età di 81 anni, e non solo dal punto di vista delle sue convinzioni politiche. Quella passione egli l’aveva portata in sé, nel profondo del suo spirito, dagli anni in cui, nella fervida Italia post 1945 si era formato nel suo più genuino profilo culturale ed etico-politico. Ed era una passione che rimandava direttamente, e in ogni senso, al mondo del Risorgimento, quale nell’Italia del Dopoguerra lo riproponeva la tradizione mazziniana e cattaneana, ancora assai forte in quell’Italia, e lo riproponevano i fervidi fermenti del nuovo Partito d’Azione e vari circoli culturali laici, a cominciare da quelli che si riconoscevano nel «Mondo» di Pannunzio e in altri periodici di quel tempo.
La biografia politica di Arturo, firma assidua del «Corriere della Sera» per molti anni, ha da questo punto di vista un autentico valore emblematico. Rappresenta, infatti, una tipologia generazionale, il cui profilo meriterebbe di essere ricostruito a fondo. Quella generazione è stata non una base di massa, ma una base di grande forza e qualità della parte che — in un’Italia dominata dagli immensi eserciti del Partito comunista e dei democristiani, gli uni e gli altri coi loro satelliti e clienti — poté giocare l’agguerrita minoranza dei «laici», che consideravano il Risorgimento e i suoi valori e ideali l’irrinunciabile base di un’Italia più moderna, più europea, più profondamente inserita nell’Occidente in tutta la sua realtà morale e materiale, e che, magari, nella loro passione potevano anche non essere del tutto equi e comprensivi nei riguardi dell’Italia reale.
Questa parte dei «laici» non è oggi abbastanza considerata, anzi ricordata. Sembra che tutto si sia svolto in un pacifico idillio nazionale e liberal-democratico, con qualche agitazione, strappo e compromesso, ma in sostanza secondo un tracciato già predesignato. E non è stato, invece, così. Ci furono conflitti e scontri reali e forti, e non tutti riportabili e risolti nelle contrapposizioni determinate dalla « guerra fredda», secondo un altro modo di pensare facilistico e sommario. Arturo avrebbe ben saputo dirne qualcosa, con l’esperienza che ebbe della lotta politica dell’Italia del Si richiamava alla tradizione mazziniana e ai fermenti innovativi del Partito d’Azione suo e nostro tempo, di cui è stato un così appassionato e partecipe testimone (testimone minore, lo avrebbe portato a dire la sua naturale modestia e riservatezza, ma si sa che vi sono storie e cose per le quali le più preziose sono proprio le testimonianze dei «minori», se tali li si vuole definire).

Lo studioso fu conforme a questo profilo, con saggi e libri di sempre misurato equilibrio tra la forza delle convinzioni da cui erano dettati e l’onesta ricerca di fonti e documenti di cui corroborarle. Era la storia delle dottrine e delle forze politiche il campo di suo maggiore appassionamento. Era molto vicino in questo non solo ai professori con i quali aveva studiato o aveva ottenuto i suoi riconoscimenti accademici Il Canton Ticino era per lui una seconda patria, un modello di virtù democratiche Arturo Colombo (a destra) insieme a Giovanni Spadolini in un convegno a Bologna nel 1976. Tra i maestri e gli amici di Colombo vanno ricordati Norberto Bobbio, Vittorio Beonio Brocchieri, Leo Valiani, Alessandro Galante Garrone e soprattutto Riccardo Bauer, del quale curò raccolte di scritti

(Vittorio Beonio Brocchieri, Norberto Bobbio), ma anche a storici cui lo collegava una profonda comunanza di vedute, a cominciare da Giovanni Spadolini.

Spadolini era poi un caso particolare. Era un referente non solo storiografico e culturale, ma anche immediatamente politico. Per Arturo era nella linea degli Ugo La Malfa e degli altri leader e principali esponenti del Partito repubblicano, ossia della tradizione che egli sentiva più propria, e che in Italia, nonostante la grande parte che vi aveva, stentava a emergere in primo piano. L’Italia che egli desiderava la ritrovava nel vicino Canton Ticino, che fu per lui come una seconda patria e dove amava rifugiarsi così spesso e convivere con amici consenzienti e cooperanti nelle stesse idee: una controfigura elvetica dell’Italia che non trovava in Italia, l’ideale incarnato di un Paese sentito come prezioso modello di un superiore ethos civile e liberal-democratico.

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