venerdì 10 giugno 2016

Gay Talese su Muhammad Ali




“Muhammad Ali, un amico che non si è mai venduto” 
“È stato molto criticato per le sue posizioni su Vietnam e Cuba ma oggi dopo il disgelo si capisce che aveva ragione lui” 

Paolo Mastrolilli Busiarda 10 6 2016
Nella sua vita Gay Talese non ha mai incontrato una provocazione che non gli piacesse fare, e questo a maggior ragione doveva valere per Muhammad Ali. Infatti negli Anni Sessanta l’inventore del New Journalism era stato il primo grande scrittore a difendere la scelta del campione di non andare a combattere in Vietnam, e poi erano rimasti amici, al punto che nel 1996 Ali lo aveva invitato ad andare con lui a Cuba per incontrare Fidel Castro: «In entrambi i casi - ridacchia Talese - Muhammad fu criticato aspramente, ma adesso guardate come è finita la storia. Ali è rimasto fermo e coerente, mentre gli Usa sono cambiati e hanno fatto amicizia col Vietnam e con Cuba. Chi ha avuto ragione, allora?». 
Cominciamo dal principio. Negli Anni Sessanta doveva essere impopolare difendere un campione che sfidava il Paese e si rifiutava di andare in guerra: perché lo fece?
«Non era impopolare. Era il segno di un grande pensatore internazionale, che aveva il coraggio delle sue idee. Allora l’America era pervasa da questo nazionalismo che non ammetteva eccezioni, e non aveva alcun riguardo per le posizioni di chi non la pensava come noi. Un po’ come accade oggi con la Siria, la Russia o la Cina. Era la stessa mentalità per cui Stalin, grande amico di Roosevelt e Churchill durante il conflitto mondiale, era diventato all’improvviso il nemico contro cui avevamo inventato la Guerra Fredda. E’ l’effetto della propaganda, che è così forte da riuscire a cambiare tutto. Il Vietnam faceva parte di questo fenomeno, da quando Kennedy aveva cominciato l’intervento, fino a quando Johnson si era distrutto la carriera per continuarlo. Il risultato di un pregiudizio; la politica che mente per imporre le sue logiche, e così uccide le persone. Ali disse di no, anche a costo di un enorme sacrificio, perché perse tre anni di carriera e un sacco di soldi. Altri erano andati in Canada, rimanendo marchiati a vita, ma lui è rimasto dov’era. Però sapete qual è la vera ironia?».
No, ce la dica.
«Qualche giorno prima che Muhammad morisse, il presidente Obama è andato in Vietanm a stringere le mani ai leader di Hanoi, mentre da anni i capitalisti americani concludono affari in quel Paese. Ali è rimasto fermo, e gli Usa invece si sono spostati, dandogli ragione».
Rimaneste amici dopo quell’episodio?
«Molto. Ho conosciuto la moglie, ci sentivamo spesso».
Che persona era?
«Vi racconto un episodio. Quando andai con lui a Cuba nel 1996, alloggiavamo all’Hotel Nacional, e tutta la gente affollava la lobby per avere il suo autografo. Era già malato di Parkinson, gli tremava la mano, però firmava ogni volta per esteso: Muhammad Ali. Avrebbe potuto cavarsela solo con Ali, tre lettere, ma sentiva il dovere di dare ai clienti il pasto completo. Ecco che tipo era».
Come andò l’incontro con Castro?
«Fidel era dispiaciuto, perché Ali stava già male e faticava a parlare. Però non rinunciò a fare lo showman. Si era portato dietro i dadi, e fece il suo trucco da mago con cui li trasformava in un fazzoletto rosso. Castro lo guardava affascinato, perché capiva la sofferenza di quest’uomo che da giovane aveva usato la parola per irretire il mondo, e ora che l’aveva persa cercava comunque il modo di stupire».
Quella visita ebbe anche un significato politico?
«Enorme: i due soli uomini che avevano resistito allo Zio Sam, ed erano sopravvissuti. Probabilmente le due persone con più coraggio, eroismo, perseveranza e testardaggine che io abbia mai conosciuto. Castro è un rivoluzionario che non ha mai baciato il sedere a nessuno, come invece ha fatto suo fratello Raul. Poteva vedere Obama in carrozzella e stringergli la mano, ma ha deciso che sarebbe stato ipocrita fare amicizia col Paese colonialista che per mezzo secolo ha usato anche la mafia per ammazzarlo. Ali era una sorprendente creazione della natura umana, un raro atleta che è riuscito a trascendere l’influenza limitata agli stadi. Uno sportivo non vuole rischiare l’impopolarità, perché ha una carriera breve e cerca di sfruttarla al massimo. Ali invece era pronto a sacrificarsi, ma anche nel caso di Cuba ha avuto ragione lui, perché adesso gli americani che lo criticavano stanno li a cercare di concludere affari».
Oggi si terranno i funerali di Ali. Se è vero che ha cambiato gli Usa, quale eredità lascia?
«E’ stato un pioniere. Ora sono tutti d’accordo con lui, ma prima lo avevano massacrato. La ragione per cui lo amano sta nel fatto che è rimasto sempre davvero fedele ai valori americani di imparzialità e giustizia, tenendosi al di sopra della politica con coerenza. Dicono che tutti sono pronti a vendersi, se il prezzo è giusto, ma Ali non lo ha mai fatto».
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