giovedì 16 giugno 2016

Gli scritti 1933-2014 di Gillo Dorfles

 «Gillo Dorfles, Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014», a cura di Luca Cesari (Bompiani, Collana Il Pensiero Occidentale, pp. 2618, euro 70)Gillo Dorfles: Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014, Bompiani

Risvolto
Includere tutto quanto non può essere escluso dal discorso estetico. Questo potrebbe essere il principio orientativo che ha sempre guidato la ricerca di Gilio Dorfles nel campo dell'estetica, cominciata sullo spartiacque tra primo e secondo Novecento filosofico. Questo anche potrebbe riassumere il criterio adottato nell'ordinare un così possente "libro di una vita", che appare in tal misura ampio perché la vita intellettuale del suo autore è stata di particolare ampiezza. A suo confronto, le restrizioni schematiche di tanti indirizzi filosofici o estetici solo accademici paiono preoccupazioni di una scolastica che ha premura di creare partizioni. Che cosa è estetica, che cosa rientra in essa e che cosa no. Questo libro, invece, raccogliendo tutto intero un orientamento sin dalla sua origine, sin dal primo grado della sua iniziazione, potrà somigliare a una grande introduzione, anziché a un libro consuntivo. Ampiezza, dunque, secondo i canovacci della disciplina che non possono essere scissi, che già i fondatori della stessa (e tra di essi Vico e Baumgarten) dettavano come suoi protocolli, consapevoli che delimitare un sapere come l'estetica vuol dire circoscrivere un sistema "complesso".
Gillo Dorfles e il fascino dell’estetica senza paura


Eccentrico, stravagante, lontano da ogni accademismo: ritratto dell’inventore del kitsch

Esce oggi da Bompiani il volume curato da Luca Cesari con gli scritti del grande studioso Un vero e proprio viaggio in un universo intellettuale che sembra non conoscere ancora limiti

Corriere della Sera 16 Jun 2016 Di Vincenzo Trione
Il senso dell’itinerario intellettuale di Gillo Dorfles è nascosto nei suoi quadri. Esercizi di matrice astrattista, abitati da sagome mobili, da motivi fluttuanti, da barlumi di icone. In filigrana, quelle grafie pittoriche lasciano affiorare il rifiuto per le icone chiuse, risolte, compiute e, al tempo stesso, la predilezione per le forme aperte e asimmetriche. In quei dipinti, si intuisce il desiderio di replicare il flusso della libertà immaginaria. Assistiamo a un implicito elogio del divenire. Concepito come luogo poetico e teorico di straordinaria fertilità.
Il divenire, dunque. È questo il concetto intorno a cui ha ruotato la riflessione estetologica di Dorfles, avviata nel 1952 con il Discorso tecnico delle arti e proseguita con autentici classici della critica come Le oscillazioni del gusto, Il divenire delle arti, Simbolo comunicazione consumo, Artificio e natura, Dal significato alle scelte, L’intervallo perduto, Il divenire della critica, Elogio della disarmonia, Il feticcio quotidiano e Fatti e fattoidi, che vengono ora raccolti (insieme con altri saggi e articoli sparsi) in un ampio volume, intitolato (in maniera un po’ criptica) Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014, in uscita da Bompiani, nella prestigiosa collana «Il pensiero occidentale» (fondata da Giovanni Reale), per la cura attenta e rigorosa di Luca Cesari.
All’apparenza gli scritti radunati in questa sorta di «Meridiano Dorfles» ci mostrano uno studioso eterodosso, eccentrico, distante dai modelli accademici tradizionali: un unicum nella cultura italiana. Eppure, dietro la maschera di questo stravagante autodidatta di talento, si cela un pensatore che, sin dalle sue prime ricerche, non ha mai smesso di interrogarsi con vivace ostinazione proprio intorno al «divenire delle arti».
Lontano da un approccio di tipo storicista, iscrivendosi nell’orizzonte della fenomenologia, sensibile alle questioni sollevate dai padri dell’estetica della percezione (Arnheim), polemico nei confronti di coloro che hanno sostenuto le ragioni di una sorta di metafisica dell’originario, sorretto da un temperamento dinamico e inquieto, Dorfles ha sempre scelto di curvarsi sul presente, inteso come tessuto destinato a farsi e a disfarsi ininterrottamente; costellazione centrifuga, policentrica, discontinua: sostanza liquida e inafferrabile. Ne ha intercettato movimenti, emergenze, aporie. Ne ha vissuto e testimoniato le lacerazioni. Ne ha seguito gli intrecci, le confluenze e gli addensamenti. Da fenomenologo del gusto (come ama definirsi), ha aderito alla superficie degli eventi artistici della nostra epoca, svelandone anche i lati più oscuri. Senza mai rifugiarsi in utopie né in regressioni nostalgiche. Con disincanto. Da illuminista.
Dorfles, infatti, ha sfiorato tanti territori disciplinari, saldando intuizione critica e indagine sociologica. Ma, in fondo, ha sempre conservato una segreta coerenza. Il suo intento, come ha affermato in un articolo uscito sul «Corriere della Sera» qualche anno fa, è stato quello di rimanere fedele a un unico imperativo: essere up to date. «Ma con un granello di sale». La sua azione critica ha racchiuso una curiosità quasi adolescenziale per ciò che è inatteso e una sincera irritazione per ogni eccesso. La passione per ciò che si andava componendo dinanzi ai suoi occhi e un sottile snobismo aristocratico. Un’innata flessibilità e il bisogno di assumere posizioni severe di fronte a certi degenerazioni dell’arte e del costume.
Insofferente verso coloro che parlano «dall’alto d’una incrollabile fede in una verità (...) rivelata» e si affidano a «categorie estetiche immobili e predeterminate (...), depositari d’una verità non transeunte ma definitiva e inoppugnabile», sedotto dalla volontà di intercettare il manifestarsi della novelity (per dirla con Hume), interessato soprattutto dalla ricerca di coloro che sperimentano a oltranza, polemico verso ogni filologismo specialistico, senza mai smarrirsi in «fatue divagazioni attorno a impostazioni (…) astratte», Dorfles ha seguito con «obiettività» le inclinazioni e le metamorfosi — il divenire, appunto — delle esperienze poetiche novecentesche che, condannate a un «inevitabile e immancabile consumo», si consegnano a noi come geografie mutevoli. Di questi scenari, ha osservato, «siamo i vessilliferi e le vittime», incapaci però «di decretarne le leggi e di svelarne gli inganni». 


Queste intenzioni hanno condotto Dorfles a portarsi al di là di ogni suggestione di tipo idealistico, per disegnare i contorni di un sistema delle arti plurale all’interno del quale si dispone la complessa latitudine dei media visivi contemporanei. Pur rispettando la propria autonomia, nei libri del critico triestino (tradotti in molte lingue) diversi linguaggi entrano in relazione e si contaminano: la pittura è in dialogo con il design, la grafica con l’architettura, il cinema con la moda, la pubblicità con le ultime tendenze. 


Impegnato in «uno studio psicologico e sociologico dell’arte legato alla personalità umana», Dorfles si è sottratto alle consuetudini care a molti estetologi, i quali tendono spesso a elaborare speculazioni che prescindono completamente dal «proprio» delle opere d’arte, cui attribuiscono un significato paradigmatico e normativo. Egli, al contrario, ha preferito estrarre le sue teorie dagli «oggetti» con i quali di volta in volta si è misurato. Per questa ragione ha accompagnato i suoi studi con l’analisi di una molteplicità di «casi»; e ha affiancato al suo mestiere di studioso una feconda attività militante (come emerge dall’ampia raccolta, uscita recentemente da Skira, Gli artisti che ho incontrato). 


Il senso di tale strategia ermeneutica potrebbe essere colto ritornando a un saggio del 1966 di Adorno. Vi si legge: «Il rapporto dell’arte con le arti si può paragonare senza forzature a quello dell’orchestra (...) con gli strumenti; l’arte non è il concetto delle arti più di quanto l’orchestra non è lo spettro dei timbri. Nondimeno il concetto di arte ha una sua verità». 


Dal confronto con le diverse pratiche della contemporaneità Dorfles ricava la sua idea — già enunciata nel Discorso tecnico del 1952 – dell’arte non come Gestalt, ma come Gestaltung: non pura forma, ma forma in trasformazione, processo. Recensendo l’Estetica di Pareyson nel 1956, egli rilevava: «L’arte sta a rappresentare l’incarnazione quasi di quel processo ubiquitario che è posto alla base, non solo dell’operatività umana, ma della stessa spiritualità universale e che si estrinseca nel processo formale». 


Senza mai tradire queste convinzioni, sulle orme dell’estetica goethiana, affascinato dal sistema dei miti e dei simboli, Dorfles ha sempre manifestato le sue preferenze critiche per quegli artisti, per quegli architetti, per quei designer e per quegli stilisti che che, in linea con la lezione del Barocco, hanno pensato il loro lavoro e le loro iconografie come un’avventura «metamorfotica» e, insieme, «strutturante». Un percorso mitopoietico insicuro, nel corso del quale si riarticola un «pensiero per immagini (...) attivo e costruttivo anche al di là del tipo di (...) conoscenza totalmente concettualizzata». In quell’alveo le visioni si modellano come difficile gioco tra elementi razionali e fantastici, tra momenti irrazionali e consapevoli. Infine, come meraviglioso divenire.

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