mercoledì 29 giugno 2016

Guido Gozzano 100 anni dopo


Le poesieGuido Gozzano: Poesie, 2 voll., a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi

Risvolto

Ormai è pacifico intendere Gozzano come il poeta che ha dato la svolta decisiva alla poesia italiana nel primo Novecento: corrodendo la mitologia dannunziana con l’ironia ha permesso di abbassare i toni e di voltare le spalle alla retorica. Senza Gozzano non sarebbero arrivati Montale e la maggior parte dei post-montaliani. La poesia di Gozzano condensa un forte nucleo emotivo attraverso l’artificio: dei sentimenti, che per essere veri devono sembrare falsi; e formale, come i raffinati giochi sulla metrica tradizionale che la evocano nel momento stesso in cui la mettono in crisi. Per molto tempo considerato riduttivamente il cantore delle “buone cose di pessimo gusto”, la rivalutazione di Gozzano è partita proprio grazie a Edoardo Sanguineti, curatore dell’edizione commentata di tutte le poesie nella Nue (1973) poi aggiornata negli Struzzi (1984). Ora questa edizione viene riproposta in due piccoli tomi nella “Bianca”, quasi un approdo alla sede naturale, ed è un omaggio contemporaneo a Gozzano nel centenario della morte, e a Sanguineti, la cui scomparsa sei anni fa ha lasciato un vuoto di intelligenza nella cultura italiana.


Tutte le donne di Gozzano poeta postmoderno 
Cent’anni fa moriva il capofila dei Crepuscolari. Che, letto oggi, mostra tanti punti di contatto con la sensibilità letteraria del Novecento pieno, da Montale all’avanguardia di Pagliarani
PAOLO MAURI 29/6/2016
Acent’anni dalla morte (9 agosto 1916) Guido Gozzano ha ancora, possiamo ben dirlo, indici di gradimento molto alti. Il suo nome, anche a sproposito, viene spesso citato e certi suoi versi, «non amo che le rose che non colsi », sono dei passepartout ben accetti e condivisi. La stessa ricezione del poeta di Agliè ha una storia lunga e contraddittoria, che è poi di per sé un segno di forte vitalità. Sembrava un poeta retrò, ma la neoavanguardia lo capì benissimo. Sanguineti (1966) gli dedicò un libro intero, Manganelli scrisse: «Il suo discorso esplicito suggerisce una lettura oscura, irrequieta, instabile. La sua semplicità è complessa, la sua memoria languida e affettuosa è un gelido e paziente lavoro musivo, una accurata simulazione». E, aggiungiamo noi, le figure femminili che ha creato, sogno e insieme “doppio” del poeta, sono il suo emblema.
«Oggi t’agogno, / o vestita di tempo! Oggi ho bisogno / del tuo passato! Ti rifarò bella, / come Carlotta, come Graziella, / come tutte le donne del mio sogno! ». Gozzano, la poesia è molto nota, cerca di scritturare Cocotte, la cattiva signorina, secondo l’eufemismo materno, che aveva conosciuto tanti anni prima, da bambino quattrenne, promettendole una rinascita felice se solo acconsente a tornare in scena. Storia strana: lei lo aveva adescato, si fa per dire, mentre lui giocava al diluvio universale e adesso che Guido la sospetta decrepita al punto che «l’ultimo amante disertò l’alcova» si presenta poco più che ventenne, pronto a dirle «t’amo» e forse proprio perché sa che non è possibile se non recitando: del resto aveva il culto del falso e della recitazione. È sempre lui a indurre un’amica a vestire i panni di Carlotta: «Svesti la gonna d’oggi che assottiglia / la tua persona come una guaina, / scomponi la tua chioma parigina / troppo raccolta sulle sopracciglia; / vesti la gonna di quel tempo: i vecchi / tessuti a rombi; a ghirlandette, a strisce, / bipartisci le chiome in bande lisce / custodi delle guancie e degli orecchi».
Su Gozzano e la moda ha scritto pagine raffinate Giorgio Bàrberi Squarotti. L’esperimento, da cui sono tratti i versi fin troppo gozzaniani, è una poesia minore, ma è come un occhio segreto che spia la giovane protagonista del salotto di Nonna Speranza, evocata anche in una privata lettera a Carlo Vallini, dove il poeta immagina di possedere la ragazza su un divano chermisi, ma tutto va in fumo per il temuto arrivo degli «zii molto dabbene».
Le protagoniste delle poesie gozzaniane, da Carlotta a Felicita, da Ketty a Graziella, alla risorta innominata e ad altre ancora, hanno avuto, potremmo dire, un successo di immagine che ancora oggi non si è offuscato. Eppure sono così diverse dalle eroine della nostra più illustre poesia, anzi sembra proprio che Guido goda nel diminuirle e persino nell’aggredirle. Felicita è addirittura quasi brutta, priva di lusinghe e per giunta veste in modo campagnolo. Carlotta è dotata di un nome non fine… nonostante il giovane Werther. Però ecco subito le necessarie correzioni: Felicita si riscatta fino a diventare, grazie «ai bei capelli di color di sole / attorti in minutissime trecciuole», addirittura una beltà fiamminga e quanto alla seconda, se il nome Carlotta non è fine è però dolce «che come l’essenze / resusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline». La messa in scena è un indispensabile corredo dei personaggi gozzaniani e di quelli femminili in particolare. Vivono un loro piccolo romanzo. E opportunamente arredato. Ketty, la protagonista di Invernale pattina col poeta sul laghetto ghiacciato del Valentino, ma lui raggiunge presto la riva perché il ghiaccio scricchiola e qui l’onomatopea, ripetuta, sembra un ponte sospeso tra Pascoli e Montale. È stato Sanguineti a leggere una possibile relazione tra la storia di Ketty e quella, montaliana, di Esterina. Ma Invernale è poesia conclusa in un episodio, sigillata con quel sibilante “vile” finale con cui la ragazza liquida il suo pavido cavaliere, mentre Esterina è al centro di un ritratto diacronico e la sua vitalità osservata nel tempo («non turbare / di ubbie il sorridente presente») e culminante nel tuffo, che appare invece in presa diretta, contrasta con il ritrarsi abituale del poeta: «Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra». Comunque sia, Montale scrutinò le poesie di Gozzano da sommo e anche un po’ maligno intenditore, colse benissimo lo choc delle cose stridule ma i suoi fantasmi femminili furono altri: Arletta, Dora Markus, Irma Brandeis, la Clizia delle Occasioni, Ljuba, Gerti e tante altre figure entrano nelle poesie montaliane come interlocutrici privilegiate. Montale in qualche modo si riaggancia alla donna angelo della poesia antica, con soluzioni arditamente nuove come quando negli Orecchini accenna alla «iddia che non si incarna ». Nel poeta dei Colloqui l’apparente semplicità del dettato poetico nasconde una trama complessa, un doppiofon-do che non verrà mai svelato del tutto ed è precisamente quello che rende Gozzano unico tra i crepuscolari, un vero e modernissimo poeta novecentesco o, come ha scritto Giuseppe Zaccaria, addirittura un postmoderno. Gozzano incrocia D’Annunzio e si mette in salvo dalla malia e dalla retorica dei suoi versi e dei suoi personaggi, ma ne subisce indubbiamente il fascino. Il gioco delle metamorfosi tanto care al poeta vate, le ritroviamo senza più aura mitologica nelle «fiabe defunte delle sovrapporte » proprio a Villa Amarena e la seducente Ermione che diviene Natura incrocia in Gozzano «Dafne rincorsa, trasmutata in lauro / tra le braccia del nume ghermitore». Felicita non è Elena Muti o Mila di Codro, anche se per lei il poeta chiosa: «Donna: mistero senza fine bello!». Ironico, Gozzano scherza col fuoco e lo sa.
La sua è anche una poesia giocata sugli oggetti e qui sta il vero e profondo legame con Montale e con la più matura poesia del Novecento.
Ma restiamo alle protagoniste. Per trovare un personaggio-donna adeguato alle invenzioni gozzaniane bisognerà scendere fino agli anni Cinquanta del secolo, quando Elio Pagliarani licenzia La ragazza Carla. Un poemetto che troverà ospitalità anche nell’antologia I Novissimi curata da Alfredo Giuliani, dunque in piena neoavanguardia. Carla Dondi è una giovanissima in cerca di impiego nella Milano del suo tempo e sta imparando a battere a macchina con tutte le dieci dita, come si richiede negli uffici. È naturalmente azzardato esercizio cercare affinità dirette tra Gozzano e Pagliarani, anche se versi come questi che seguono, un po’ fanno pensare: «La scuola d’una volta, il suo grembiale / tutto di seta vera, una maestra molto bella / i problemi coi mattoni e le case e già dicevano la guerra / Mussolini la Francia l’Inghilterra ».
Le donne in Gozzano (non parlo della sua biografia, ma della sua poesia) sono spesso donne che lo amano e in qualche modo sollecitano la sua attenzione. «Tu civettavi con sottili schermi / tu volevi piacermi signorina », dichiara Guido raccontando la signorina Felicita e si dice disposto a lasciare tutto per lei, persino la letteratura. “Una risorta” viene appunto a risvegliare nel cuore di Guido un amore non sopito e i baci rendono vivi i ricordi: «Ma come una sua ciocca / mi vellicò sul viso, / mi volsi d’improvviso / e le baciai la bocca». Poi il poeta chiude con una citazione in chiave dantesca, altro che lungi dai letterati… Dunque Guido che si consolava, o diceva di consolarsi, con gli amori ancillari, la cuoca diciottenne, e che più e più volte avrebbe parlato della propria inaridita capacità di amare, finisce col presentarsi come il naturale protagonista di ogni suo verso. Soggetto e oggetto del desiderio, in un continuo altalenare tra pensieri di vita e annunci di morte. Alla fine si sente un perdente e lo dichiara, e in questo è veramente antidannunziano e premontaliano. Un perdente, aggiungiamo noi, che ha giocato fino in fondo la sua breve partita e lasciato vincere la poesia.
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