lunedì 27 giugno 2016

Il cetriolone filosofico. La voce parmenidea del capitale legittima i processi di espansione neoliberale e destrutturazione della democrazia moderna

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Il sì, il no. Ma vince la tecnica
Riflessioni Il referendum costituzionale deciderà solo su un’«ipotesi» di cambiamento. E comunque non va persa di vista la prospettiva fondamentale: sulla politica a prevalere è l’economia. Che, a sua volta, non ha il primato assoluto

Corriere della Sera  27 giu 2016 Di Emanuele Severino
Che, votando per il «Sì», la Costituzione debba esser cambiata in un certo modo è un’ipotesi. Certo, le forze politiche da cui è sostenuta la considerano una proposta sostanzialmente adeguata ai bisogni della società italiana e capace di risolvere certi suoi importanti problemi. Ma è un’ipotesi perché è il risultato di un compromesso. E inevitabilmente. Gli avversari sostengono che le forze di governo hanno lavorato troppo poco per un compromesso soddisfacente, ossia per la condivisione più ampia possibile da parte delle opposizioni. Tuttavia, per quanto ridotto, esso c’è stato. E un compromesso è voler tenere insieme posizioni antitetiche; ossia è una contraddizione più o meno vistosa. Appunto per questo ho affermato che, dicendo «Sì» a quel certo modo di cambiare la Costituzione, si approva un’ipotesi. La quale dunque non può escludere che esistano altri modi e motivi di stare per il «Sì», senza condividere quelli proposti dal governo. Proprio perché le ragioni del «Sì» (come quelle del «No») non sono indiscutibili, la propensione per il cambiamento della Costituzione si distingue cioè dalla propensione per le ragioni con le quali oggi il «Sì» viene sollecitato. Inoltre, tali ragioni essendo un compromesso, nemmeno i loro sostenitori ottengono, in caso di vittoria, quel che avrebbero voluto ottenere.
D’altra parte, venendo ai sostenitori del «No», come pensano di ottenere — oggi o domani — quella condivisione più ampia possibile da avversari che, secondo questi stessi sostenitori, mostrano di non darle troppa importanza? Credono forse che quanto i loro avversari non sono disposti a concedere loro siano invece disposti a concederlo quando fossero essi, i sostenitori del «No», a proporre il loro modo di intervenire sul testo della Costituzione? Intendo dire che nemmeno i sostenitori del «No» potrebbero ottenere quella condivisione più ampia possibile che da essi viene perorata. Pertanto, se volessero esser coerenti, dovrebbero rinunciare al cambiamento (o non cambiamento) costituzionale da essi preferito. Se cioè, come condizione sine qua non, richiedono la maggior condivisione possibile, ogni modifica costituzionale verrebbe in tal modo indefinitamente differita e quindi bloccata. Oppure, voltando le spalle alla coerenza, dovrebbero rassegnarsi a un cambiamento che avrebbe lo stesso vizio da essi riscontrato nei sostenitori del «Sì», e cioè la mancanza di un’ampia condivisione. (E anche se i sostenitori del «No» e di una forma diversa di cambiamento ottenessero una più ampia condivisione, anche questo, e a maggior ragione, sarebbe un compromesso che non darebbe loro quel che avrebbero voluto). D’altronde, la Costituzione va cambiata perché, a sua volta, di contraddizioni ne contiene (e vistose); alcune delle quali sono state indicate anche da me, soprattutto quelle relative all’articolo 7, che dovrebbe regolare i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica.
I teorici del «No» affermano inoltre che la riforma costituzionale proposta dal governo è dannosa perché, oltre alla debolezza giuridica di certi suoi contenuti (che indubbiamente sussiste), indebolisce anche la democrazia italiana. Non sembra però che quei teorici ritengano che la indebolisca fino al punto da eliminare ogni futura consultazione elettorale con cui la maggioranza, delusa dall’attuale governo, possa deporlo. In democrazia i danni sono tali in quanto vengono percepiti come tali dalla gente. Quindi, nel caso di una vittoria del «Sì», se l’elettorato ne avvertisse come dannose le conseguenze, una futura consultazione elettorale gli consentirebbe di rimettere le cose a posto, ossia di mandare al governo la formazione politica che avrà convinto gli elettori della propria capacità di rimediare ai danni prodotti dall’eventuale vittoria del «Sì» in autunno. E peraltro, in un mondo sempre più pericoloso, non è forse richiesto un controllo tale della società, che riduce inevitabilmente le libertà democratiche anche se i politici possono non rendersi conto di tale inevitabilità?
Il «Sì» dà troppo potere al governo attuale — si obietta —, che diventa determinante nella elezione del Presidente della Repubblica, nella formazione della Corte Costituzionale, ecc... L’obiezione, insieme ad altre che in questi giorni si sentono ripetere, ha la sua consistenza. È però difficile accantonare l’ impressione che alla radice di tutte queste obiezioni agisca la rivendicazione del primato autentico della politica contro una forma di governo che afferma sì di esser d’accordo su tale rivendicazione, ma che in realtà sta accentuando la propria dipendenza dai poteri economici, ossia dal sistema capitalistico. 
Vorrei, allora, richiamare una dimensione concettuale che, mi sembra, è trascurata dalle pur alte competenze giuridiche dei costituzionalisti favorevoli al «No». Vado richiamando da tempo l’«inevitabilità» della sequenza, di carattere planetario, che dal tempo del primato della politica sull’economia conduce al rovesciamento dove è l’economia ad avere il primato sulla politica, e infine al tempo — di cui già si avvertono consistenti avvisaglie — dove sarà la tecnica ad avere il primato sull’economia (e sulla politica). Che la tecnica abbia questo primato significa che sarà la tecnica a poter rendere il mondo meno pericoloso e che per farlo dovrà tenere sotto controllo (e quindi limitare) la domanda di democrazia. 
La nostra è l’epoca della specializzazione scientifica, quindi anche giuridica; ma la scienza è diventata specializzazione proprio per sbloccare le paralisi dell’agire umano, ossia per aumentare la potenza dell’uomo, paralizzata invece dai Limiti che le gradi forme della tradizione le impongono. Se però la specializzazione è praticata in modo da farle perdere di vista il contesto in cui essa si trova, essa diventa un fattore bloccante, riduce la potenza dell’uomo. Ora, il contesto dei contesti, nel mondo attuale, è la sequenza a cui ho accennato: quella che dal primato della politica conduce al primato della tecnica. In questa situazione, ogni rivendicazione del primato della politica ha la pretesa di risalire la corrente, è cioè una lotta di retroguardia. La stessa economia capitalistica, che ancora domina il mondo, ha istituito rapporti tali, con l’apparato tecno-scientifico, che fanno trasparire la destinazione al dominio da parte di quest’ultimo. 
La cautela con cui si procede nelle riforme costituzionali è dovuta all’esigenza che non vadano perduti certi valori imprescindibili contenuti nella Costituzione italiana — soprattutto quelli riguardanti i diritti dell’uomo. Ma la destinazione al dominio della tecnica è insieme la formazione di un diverso modo di essere uomo — diverso dalle interpretazioni che dell’esser uomo sono state date lungo la storia dell’Occidente: cristiana, rinascimentale, illuminista, capitalistica, comunista, eccetera. La gran questione è allora se una Costituzione, mostrando di difendere i diritti umani — e dando a questo suo intento un’impronta decisamente giusnaturalistica — non abbia invece a difendere una di quelle interpretazioni, lasciando sullo sfondo il senso autentico che l’esser uomo ha assunto lungo la storia dell’Occidente. Giacché dubbi in proposito se ne possono e se ne debbono avere, visto anche che tutte le leggi — e soprattutto la Grundnorm in cui la Costituzione di uno Stato consiste — sono scritte dai vincitori (sempre poco propensi a ottenere la condivisione dei vinti). A chiarimento di quanto ho asserito, concludo dicendo che quel che ho chiamato «senso autentico» dell’esser uomo è sotteso (restandone variamente alterato) a tutte le interpretazioni che se ne sono date, ed è l’uomo come forza cosciente capace di coordinare mezzi in vista della produzione di scopi. Ciò significa che, al di là di ogni superfetazione, l’uomo è un essere tecnico. Infatti l’essenza della tecnica, quindi anche della tecnica guidata dalla scienza moderna, è appunto e innanzitutto quella capacità di coordinamento.

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