venerdì 3 giugno 2016

"Il nostro problema più grave non è Israele, ma Hamas": negre bianche e dissidentesse di professione anche per i palestinesi


Emanuela Zuccalà Avvenire 3 giugno 2016


Israele boccia il summit di Hollande
Medio Oriente. Per il governo Netanyahu il vertice internazionale che si è svolto ieri a Parigi «allontana la pace» e «radicalizza i palestinesi». Il presidente francese va avanti e punta ad organizzare una conferenza a fine anno per rilanciare il negoziato. Ieri è tornata in libertà la parlamentare palestinese e dirigente del Fronte popolare (Fplp) Khalida Jarrar detenuta in Israele per 14 mesi
di Michele Giorgio il manifesto 4.6.16
GERUSALEMME La Conferenza di Parigi «allontana la pace». È stata immediata e pesante la reazione del governo Netanyahu alla conclusione ieri del summit internazionale con i rappresentanti di una trentina di Paesi – ma senza israeliani e palestinesi -, organizzato dalla Francia per rilanciare la soluzione dei “Due Stati” e che dovrebbe portare, nei desideri dei francesi, a una conferenza internazionale entro la fine dell’anno. «Si tratta di una occasione perduta. – ha protestato con forza il ministero degli esteri israeliano – Invece che insistere con il presidente palestinese Abu Mazen affinchè riprenda le trattative dirette senza precondizioni la comunità internazionale gli ha permesso di continuare a sfuggire. Nella storia questa conferenza sarà ricordata per aver contribuito ad irrigidire le posizioni palestinesi». Per il premier israeliano Netanyahu c’è un’unica strada, quella degli ultimi venti anni: il negoziato bilaterale, ossia la trattativa dove Israele può imporre le sue condizioni al debole presidente Abu Mazen e ottenere un accordo svantaggioso per i palestinesi. Qualche ora prima dell’apertura del vertice parigino, il giornale filo-governativo Israel ha-Yom, aveva espresso apprezzamento per l’azione svolta dietro le quinte dall’Egitto, finalizzata a portare i laburisti nel governo Netanyahu, a conferma che l’esecutivo israeliano guarda con più fiducia alle iniziative degli alleati arabi che a quelle europee. A inizio settimana Netanyahu si era detto interessato a discutere il Piano Arabo di pace del 2002, elaborato dall’Arabia saudita con cui Tel Aviv ha segretamente stretto i rapporti negli ultimi 2-3 anni.
A Parigi non è stato deciso nulla che possa portare a uno spostamento effettivo del negoziato dal binario bilaterale a quello multilaterale, come teme Israele. Il presidente Hollande, aprendo il summit, ha detto che lo status attuale in Medio oriente, in Israele e Territori occupati, favorisce «gli estremisti di ogni parte». Quindi ha esortato israeliani e palestinesi a «fare la scelta coraggiosa della pace» altrimenti «questo vuoto verrà riempito da estremisti e terroristi». Il primo obiettivo della conferenza, ha aggiunto Hollande, «è confermare collettivamente che la pace passerà da due Stati, Israele e uno Stato palestinese, che vivono fianco a fianco nella sicurezza». Parigi non nasconde la speranza che la conferenza di fine anno, alla quale vuole anche israeliani e palestinesi, stabilisca i “parametri” che dovranno guidare la futura trattativa tra le due parti. Su tutto pesa non solo il rifiuto di Israele ma anche l’atteggiamento degli Stati Uniti. A Parigi c’era il Segretario di stato John Kerry ma Washington è tiepida verso l’iniziativa di Hollande e a fine anno potrebbe addirittura schierarsi contro la conferenza internazionale quando le chiavi della Casa Bianca verranno consegnate al repubblicano Donald Trump o alla democratica Hillary Clinton, entrambi, con motivazioni diverse, lontani dalla linea dell’Amministrazione Obama su questi temi.
Nelle strade di Israele e dei Territori occupati il summit di Parigi non ha suscitato reazioni, è stato ignorato dalla gente. A Ramallah migliaia di persone hanno festeggiato il ritorno a casa della parlamentare e dirigente del Fronte Popolare (Fplp, sinistra marxista) Khalida Jarrar dopo 14 mesi di detenzione in Israele. Jarrar, 53 anni, era stata arrestata ad aprile dello scorso anno e condannata a 15 mesi di carcere perché parte di una «organizzazione terroristica» e per «aver incitato al rapimento di soldati israeliani». Accuse gravi secondo la legge israeliana che tuttavia avevano prodotto una condanna relativamente lieve, a conferma, sottolineano i palestinesi, che contro Jarrar non esistevano prove e che contro di lei si è svolto un processo politico. La condanna secondo l’opinione di molti nei Territori sarebbe stata una ritorsione alla decisione di Khalida Jarrar di non restare confinata per sei mesi a Gerico su ordine dell’Esercito. Sei deputati palestinesi sono ancora detenuti in Israele, assieme a circa settemila prigionieri politici. 



Si apre la Conferenza di Parigi su Israele e Palestina, Netanyahu è contro
Medio Oriente. I rappresentanti di una trentina di Paesi occidentali e arabi si riuniscono oggi nella capitale francese per fissare i parametri di futuri negoziati tra israeliani e palestinesi. Netanyahu considera l'incontro una minaccia. Proteste in casa palestinese. Il Fplp accusa Abu Mazen di fare tutto da solo senza consultare l'Olp
di Michele Giorgio il manifesto 3.6.16

GERUSALEMME In una Parigi piegata dal maltempo, con la Senna pericolosamente in piena e un Francois Hollande al minimo dei consensi per il Jobs Act che ha fatto infuriare i lavoratori, i rappresentanti di circa 30 Paesi occidentali e arabi (Italia e Usa compresi) si riuniscono oggi per un incontro internazionale sulla questione israelo-palestinese. Mancheranno proprio loro, israeliani e palestinesi. L’idea della Francia è che questo summit diventi il primo passo per arrivare il prossimo autunno a una Conferenza internazionale, questa volta anche con israeliani e palestinesi, che apra la strada alla soluzione dei Due Stati. Hollande e il suo governo si aspettano che dal vertice escano i “parametri” su confini, sicurezza, profughi palestinesi, lo status di Gerusalemme, le colonie ebraiche costruite nei Territori palestinesi occupati e lo sfruttamento delle risorse naturali. Parametri che dovrebbero segnare il percorso di ogni futura trattativa diretta tra israeliani e palestinesi, insieme ad un timing preciso per un accordo.
Non sorprende che Benyamin Netanyahu si sia scagliato contro il summit. Il premier respinge a muso duro la possibilità che la questione israelo-palestinese sia affrontata anche nel quadro di incontri internazionali e non più soltanto con l’inutile negoziato bilaterale, mediato dagli alleati americani, che in 20 anni ha solo prodotto fallimenti. «Se i Paesi riuniti a Parigi – ha protestato Netanyahu – vogliono far avanzare la pace, dovrebbero unirsi al mio appello al presidente palestinese Abu Mazen per arrivare a trattative dirette. Questa è l’unica strada per la pace, non ci sono alternative». Una posizione non condivisa dall’Autorità nazionale palestinese schierata a favore dell’iniziativa francese che, pensa il presidente Abu Mazen, rappresenta, forse, l’ultima possibilità per arrivare ad un accordo. Una posizione che non tutti i palestinesi condividono. Il Fronte Popolare (Fplp), la più importante delle formazioni della sinistra, chiede manifestazioni di protesta ovunque, anche all’estero. Il Fplp spiega che queste iniziative non mirano a realizzare i diritti palestinesi bensì a negarli, a cominciare da quello al “ritorno” nella loro terra dei profughi. Il Fronte popolare inoltre denuncia il “monopolio” dell’Anp che non ha presentato la proposta di partecipazione al vertice in Francia davanti all’Olp, per essere discussa da tutte le forze politiche palestinesi. Oggi è prevista la liberazione di una deputata e leader del Fplp, Khalida Jarrar, detenuta per oltre un anno da Israele.
Da settimane Tel Aviv tenta di ostacolare l’iniziativa francese. Netanyahu ha persino ripescato il Piano arabo di pace del 2002 che Israele non ha preso in considerazione per 14 anni, pur di sparigliare le carte. A nulla sono serviti gli sforzi di Parigi per convincerlo ad appoggiare l’incontro. Il ministro degli esteri Jean-Marc Ayrault, il premier Manuel Valls e l’inviato speciale di Hollande Pierre Vimont sono giunti in diverse occasioni a Gerusalemme, dove però si sono trovati davanti a un muro. La presenza oggi nella capitale francese del Segretario di stato Usa John Kerry, letta inizialmente da alcuni osservatori come uno schiaffo dell’Amministrazione Obama a Netanyahu, in realtà avrebbe il fine di evitare che l’incontro vada “troppo avanti” nella formulazione dei “parametri” di un eventuale negoziato. Indiscrezioni circolate nelle ultime ore dicono che Usa e Israele hanno avuto consultazioni su come affrontare insieme questa (piccola) sfida lanciata da Hollande per rilanciare la trattativa israelo-palestinese.

Gaza, il cemento-fantasma e la ricostruzione che non c’èGaza. Come funziona la ricostruzione? L'Onu si è inventato un sistema complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19miladi Chiara Cruciati il manifesto 3.6.16
GAZA Una donna guida tre capre dentro il perimetro dell’asilo. Prende un pallet di legno, lo appoggia all’ingresso di una delle aule e la trasforma in un piccolo recinto. Approfitta dello stop ai lavori per la ricostruzione della scuola distrutta durante Margine Protettivo dalle bombe israeliane: da settimane l’ingresso di cemento dentro la Striscia di Gaza è bloccato dalle autorità israeliane, convinte che non arrivi ai legittimi destinatari ma finisca nelle mani di Hamas per la ricostruzione dei tunnel sotterranei. Come tanti altri progetti anche questo, l’asilo di Umm al-Nasser, comunità a nord di Gaza, è fermo.
Sono trascorsi quasi due anni dalla fine dell’operazione militare che nell’estate del 2014 devastò come mai prima la Striscia di Gaza. In mezzo la promessa mai mantenuta della comunità internazionale di donare 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione e un sistema di distribuzione dei materiali edili che differenzia tra progetti infrastrutturali di Qatar e Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi), progetti delle organizzazioni non governative e ricostruzione di abitazioni da parte di privati. Ideato dalle Nazioni Unite e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, è stato immaginato come un fiume da cui partono tre torrenti diversi. Ma il fiume è quasi a secco.
I progetti di ricostruzione delle ong internazionali per rimettere in piedi scuole, cliniche, pozzi, reti idriche sono alimentati dal primo torrente e dal cosiddetto Grm (Gaza reconstruction mechanism): «Il Grm è l’ente che gestisce l’ingresso di materiali di ricostruzione a Gaza – spiega al manifesto Mitia Aranda, architetto dell’ong italiana Vento di Terra, impegnata nella ricostruzione dell’asilo di Umm al-Nasser – È formato da tre soggetti: il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale introdotto».
«La procedura da seguire è la stessa per tutte le organizzazioni: si presenta il progetto e si seleziona una compagnia locale riconosciuta come legittima dallo Stato di Israele. Progetto strutturale e architettonico e contratto con la ditta locale vengono portati al Ministero di Gaza, con l’indicazione delle quantità e la natura di materiale necessario ai lavori. A quel punto il progetto  viene iscritto nel Grm. La ditta locale chiede lo sblocco delle quantità di materiali edili che saranno consegnati al distributore, anche questo locale e anche questo approvato da Israele. Il cemento viene quindi portato in cantiere e l’Unops ne monitora l’utilizzo».
Oggi di operai nel cantiere di Umm al-Nasser non ce ne sono. Il cemento non entra da settimane: la data prevista per l’inaugurazione dell’asilo (entro inizio luglio, la fine del mese sacro di Ramadan) potrebbe restare un miraggio.
Poco più a sud, nel campo profughi di Beach camp, gli operai si muovono veloci nel cantiere della scuola dell’Unrwa: a piano terra spostano i sacchi di cemento, al primo piano fissano le reti di metallo a protezione delle finestre. Il 72% dell’edificio è stato completato, si prevede di finire i lavori ad agosto, prima dell’inizio dell’anno scolastico. L’ingegnere Abdul-Karim Barakat ci fa visitare la scuola, un edificio di 42 classi a forma di U: «Oggi [19 aprile] abbiamo ricevuto una comunicazione dall’Access Coordination Unit dell’Onu che ci ha assicurato l’ingresso del cemento. Per il resto della Striscia l’accesso è stato bloccato, ma non per i progetti infastrutturali di Nazioni Unite e Qatar, che proseguono».
La ricostruzione è in stand by solo per le abitazioni civili e i progetti delle ong, qui si continua a lavorare perché Onu e Qatar hanno accordi bilaterali direttamente con Israele: il secondo torrente. Ma non mancano gli ostacoli: «Siamo comunque in ritardo di due mesi – ci spiega Barakat – a causa del lento afflusso dei materiali che Israele considera a doppio uso, metalli, legno, acciaio. Ovvero materiali che Tel Aviv reputa utilizzabili anche per la costruzione dei tunnel sotterranei. Per questo dobbiamo chiedere un permesso speciale, che richiede tempo. Le reti per le finestre, ad esempio, non arrivano da mesi». Per il resto il sistema è apparentemente lo stesso del Grm: si presenta il progetto, si indice la gara d’appalto e si indicano i materiali necessari. La compagnia locale assunta dall’Unwra, obbligatoriamente registrata alla Palestinian Union Contractors, gestisce poi i subappalti per le diverse attività di costruzione, dalla falegnameria all’idraulica.
A monte sta la linea diretta che dal 2010 collega le autorità israeliane all’Unrwa e che permette l’accesso di materiali edili senza grossi intoppi per i progetti infrastrutturali: «Il cemento non entra per la ricostruzione delle abitazioni civili – ci spiega il vice direttore dell’ufficio Unrwa della Striscia, David de Bold – perché Tel Aviv ritiene ci sia una ‘perdita’ nel sistema di distribuzione. Questo rallenta la ricostruzione delle case distrutte e danneggiate, seriamente provata anche dalla mancanza di fondi: secondo la Banca mondiale del denaro promesso dalla comunità internazionale è arrivato solo il 20%. L’Unrwa aveva chiesto 700 milioni, ne abbiamo ricevuti 270. Con quel denaro possiamo ricostruire 2mila case su un totale di 7mila di proprietà di rifugiati. Ciò significa che dobbiamo investire fondi per sostenere le famiglie sfollate: distribuiamo denaro alle famiglie rifugiate per pagare l’affitto, per un totale di due milioni ogni mese. Denaro che potrebbe essere usato per ridare loro una casa».
Case fantasma e decine di migliaia di gazawi ancora schiacciati dal peso dello sfollamento: ad oggi le unità residenziali ricostruite sono meno di 2mila su un totale di 12.576 abitazioni totalmente distrutte e 6.455 gravemente danneggiate, quindi inabitabili. Fuori, oltre il muro che assedia Gaza, c’è Israele che, dopo aver distrutto, oggi gestisce tempi e modi della ricostruzione. Mettendo in piedi un ingente giro d’affari: «Il 70% del costo di un edificio va per i materiali da costruzione – ci spiega J. A., cooperante che segue da vicino il sistema della ricostruzione – Dopo il golpe in Egitto il 2013, tutto il materiale entra da Israele. Fate da soli il calcolo, quanto incassa Israele con il business della guerra».
Sullo sfondo restano i privati, le famiglie di Gaza, individuate dal Grm come beneficiarie ma che di cemento ne vedono ben poco: è il terzo torrente, ma di acqua non ce n’è. «Mentre l’Unrwa ha condotto un censimento sulle case dei rifugiati demolite, il Ministero dei Lavori Pubblici di Gaza si è occupato delle abitazioni dei non rifugiati. 9mila i primi, 3mila i secondi: un totale di 12mila case. Cosa deve fare una famiglia per avere il cemento? Si registra al Ministero e viene inserita in una delle liste dei donatori, quella dell’Unrwa, quella del Qatar e quella del Kuwait, i due paesi che hanno messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione dei privati. Entra quindi nel sistema del Grm, con la quantità di materiale accordata. Alla famiglia viene comunicato l’arrivo dei materiali e il distributore dove ritirarli. A monitorare il tutto è l’Unops che, con telecamere in ogni compagnia di distribuzione, controlla le consegne ai beneficiari».
Fuori dal sistema restano quelle famiglie che vorrebbero ampliare la propria casa o costruirne una nuova, vista la naturale crescita della popolazione. Hanno bisogno di cemento ma non rientrano nel sistema Grm: «È qui che entra in gioco il mercato nero: alcuni distributori bypassano i controlli e rivendono i materiali destinati ai beneficiari a chi beneficario non è, a prezzi molto più alti del previsto – continua J. A. – Se il Grm ha stabilito un prezzo di 520 shekel [120 euro circa] a sacco di cemento, ovvero 50 kg, sul mercato nero viene rivenduto a 1.500-2000 shekel [350-470 euro]».
La mancanza di cemento crea un gap, un vuoto dove le famiglie beneficarie restano invischiate: in molti chiedono prestiti per iniziare a ricostruire, aspettando di ricevere la donazione. Ma la donazione non arriva e ci si ritrova indebitati con banche e privati e con una casa ricostruita a metà. Chi può prova a fare economia del cemento che riceve: «Se il Grm ti riconosce 100 tonnellate di cemento, la quantità media per un’abitazione di 100 m², la famiglia ne usa di meno, risparmia un 5-6% del totale per rivenderlo poi sul mercato nero».
A Gaza il sentimento che prevale è la rassegnazione. Solo così, ci dicono, possono spiegarsi i 30 casi di tentato suicidio e i 5 di suicidio da gennaio, numeri impressionanti che raccontano la frustrazione di chi è stato spogliato della propria dignità. Sharif Hamad vive a Beit Hanoun, ha perso la sua casa (un palazzo di 8 appartamenti, dove vivevano 8 famiglie) e oggi vive in affitto. Da un anno è stato inserito nella lista del Kuwait insieme ad altre 1.150 famiglie ma ad oggi non ha ricevuto nemmeno un sacco di cemento: «Israele ha raggiunto il suo obiettivo – ci dice – Dall’ultima operazione voleva ricavare una tregua di 15-20 anni e l’avrà. Ci ha lasciato nel limbo della ricostruzione, o meglio della non ricostruzione, impegnati a garantirci un tetto sulla testa invece che a pensare ai nostri diritti di popolo sotto assedio. Lavorano sulle frizioni interne alla società, tra chi riesce a costruire e chi no, tra chi sfrutta il mercato nero per arricchirsi e chi è ancora sfollato. E Israele fa affari: qui a Gaza un sacco di cemento è venduto a 520 shekel, in Cisgiordania costa 380. Dove va la differenza? In tasca a Tel Aviv».

Solo il 3% dell’acqua di Gaza è idonea al consumo umanoTerritori Palestinesi Occupati. Non rispetta i parametri internazionali anche l'acqua filtrata distribuita da società private e che beve gran parte della popolazione. L'allarme dell'Autorità Palestinese dell'Acqua: servono subito impianti di dissalazione ma i progetti procedono lentamente anche per l'embargo israelo-egiziano di Gazadi Michele Giorgio il manifesto 3.6.16
GAZA «Vieni avanti…parcheggia a destra. Il serbatoio dell’acqua è da quel lato». Tareq Yazji indica dove fermarsi all’autista dell’autobotte. L’uomo ferma l’automezzo e con gesti rapidi allunga un tubo e lo aggancia alla cisterna dell’abitazione. Più indietro i figli di Tareq si preparano a riempire tre grosse taniche. «Va avanti così da anni – ci spiega l’uomo – non abbiamo l’acqua potabile e dobbiano rifornirci con le autobotti. I bombardamenti (israeliani del 2014) hanno aggravato la situazione. In questa zona, tra Nusseirat e Khan Yunis, le autorità non sono ancora riuscite a riparare completamente la rete idrica. In ogni caso – aggiunge – quella che esce dai rubinetti serve solo per lavare, non si può bere». Tareq, sua moglie e i figli, come gran parte dei palestinesi di Gaza, bevono acqua filtrata. Circa l’85% degli abitanti della Striscia fa riferimento ai 150 impianti privati che filtrano l’acqua troppo salata di Gaza e la rendono potabile, o meglio “quasi” potabile. Studi recenti effettuati da Ong che operano a Gaza hanno messo in luce che il 46% dell’acqua filtrata è impura a causa di microrganismi presenti nelle autobotti
e un altro 20% a causa dei serbatoi vecchi e malandati usati dalle famiglie. Ciò che resta presenta altre impurità.
Tirando le somme, gli studi dicono che i palestinesi di Gaza hanno solo il 3% di acqua idonea al consumo umano. Bevono quella filtrata ma impura perchè non possono farne a meno. Poche centinaia di famiglie hanno la disponibilità economica di comprare ogni giorno l’acqua minerale per dissetarsi. Altre possono farlo occasionalmente , le rimanenti bevono l’acqua distribuita dalle autobotti. Il mese scorso Mazin Gunaim, capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua (Pwa, Palestinian Water Authority), ha rivelato che già alla fine di quest’anno la falda acquifera di Gaza non sarà più sfruttabile a causa della concentrazione di sale, dovuta in gran parte allo sfruttamento che per anni è andato oltre le possibilità, per le infiltrazioni di acqua di mare e per l’inquinamento. Un suo collega, Ahmad al Yacouby, ci avverte che la situazione è gravissima. «L’acqua a Gaza è un problema enorme e con molte facce», ci dice accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city «c’è la questione dell’acqua da bere largamente insufficiente per 2 milioni di persone, poi quella dell’acqua filtrata non del tutto sicura, quella dei pozzi inquinati e naturalmente c’è la questione delle acque reflue non trattate legata alla poca energia elettrica disponibile e al funzionamento intermittente dei depuratori. 90 milioni di litri di acque non trattate o parzialmente trattate si riversano ogni giorno nel mare di Gaza. Senza dimenticare che 120.000 abitanti sono ancora scollegati dalla rete idrica pubblica e il 23 per cento della Striscia non è collegato alla rete fognaria».
L’anno scorso le Nazioni Unite avevano avvertito che Gaza potrebbe essere inabitabile entro il 2020. Questa condizione in realtà è già visibile in un territorio teatro di tre grandi offensive militari israeliane e di altre “minori” dal 2006 al 2014, con decine di migliaia di sfollati, “bloccato” da Israele ed Egitto, con livelli di disoccupazione tra i più elevati al mondo, senza risorse e con una popolazione che presto supererà i 2 milioni. «Il problema più immediato è l’acqua» ricorda Ahmad al Yacouby «al quale occorre dare una risposta rapida: servono almeno 200 milioni di metri cubi all’anno. Se teniamo conto che i 55 milioni di metri cubi di acqua della falda acquifera di fatto sono inutilizzabili, che l’acqua piovana non riusciamo per vari motivi a raccoglierla e che molti pozzi sono inquinati, è evidente che l’unica strada percorribile è quella della costruzione di più impianti di dissalazione e di dover trattare e purificare le acque reflue per utilizzarle in agricoltura o in altri settori».
Non è facile però raccogliere donazioni e finanziamenti per centinaia di milioni di dollari in un quadro politico complesso che vede la maggior parte dei Paesi occidentali boicottare il governo di Hamas che amministra Gaza. Inoltre il blocco israeliano all’ingresso di materiali che, sostiene Tel Aviv, potrebbero essere utilizzati dal movimento islamico a scopo militare, rende ardua la realizzazione di progetti minori ma ugualmente importanti per la popolazione civile. Secondo EWASH, una coalizione di ong e associazioni non governative, 30 progetti per l’acqua a Gaza sono a rischio per la carenza di attrezzature. Tareq Yazji non si fa illusioni. «L’acqua sarà sempre poca a Gaza – perché il governo (di Hamas), quello di Ramallah e gli occidentali promettono e non mantengono. Io so soltanto che oggi ho i soldi per comprare almeno l’acqua filtrata e che la mia famiglia può bere, quando non li avrò la mia famiglia morirà di sete».

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