venerdì 3 giugno 2016

Il remake di "Radici" negli Stati Uniti



“Radici” e le colpe degli Usa 

Polemiche negli Stati Uniti per la nuova serie sulla storia di Kunta Kinte

ANNA LOMBARDI Restampa 3 6 2016
NEW YORK «IL MIO NOME è Kunta Kinte». Nelle case dell’America nera i tamburi hanno ricominciato a rullare. La tv sintonizzata su History Channel, dove da lunedì (e per quattro sere consecutive) va in onda un nuovo Radici.
Proprio la saga del principe mandingo rapito dai trafficanti di schiavi nel 1767 e venduto in Virginia alla piantagione dei Waller. Remake di quello sceneggiato seguitissimo anche in Italia che quasi 40 anni fa (era il 1977) incollò l’America al televisore imponendosi come programma più seguito della sua epoca e imbattuta serie tv più vista della storia. Cento milioni di spettatori calcola il New York Times in un editoriale intitolato Radici nell’era di Black Lives Matter, dove ricorda l’immenso impatto culturale di quel programma che per la prima volta parlò esplicitamente di schiavitù.
Il nuovo Kunta Kinte è l’inglese Malachi Kirby contornato da un cast di stelle che va dal premio Oscar Forest Whitaker ( L’ultimo re di Scozia) alla bellissima Emayatzy Corinealdi (protagonista di Miles ahead, il nuovo biopic su Miles Davis). E la storia è fedele a quella narrata da Alex Haley - che dei Kinte si diceva discendente - nel libro che nel 1976 gli fece vincere il Pulitzer: salvo poi finire in tribunale per plagio, un capitolo copiato dal racconto
The African dello scrittore Harold Courlander. Fino all’ammissione che Radici non era basato su documenti ma su quella che lui stesso battezzò “faction”: fiction basata su fatti storici.
Come da programma, anche il nuovo King Kunta – così canta arrabbiato Kendrick Lamar nell’omonimo rap – scatena polemiche. Con la black community più divisa che mai. A scagliarsi contro la serie, il rapper Snoop Dogg che in un video su Instagram invita al boicottaggio: «Vogliono solo ricordarci quanto in passato ci hanno umiliato». Più morbida Ava DuVernay, regista di Selma, su Twitter: «I nostri antenati non avrebbero mai immaginato che un giorno noi saremmo stati testimoni del loro dolore». Mentre in difesa del programma interviene DeRay Mckesson, leader del movimento Black Lives Matter: « Radici ci ricorda che siamo gli eredi di una lunga storia fatta di lotte per l’emancipazione».
Ma davvero questo Radici 2.0 come l’ha definito il New York Times, con le sue scene di feroci punizioni e stupri ripetuti, avrà un impatto sulla Black Lives Matter Generation? «Sì» dice a Repubblica Colson Whitehead, lo scrittore del Colosso di New York che ha appena finito un nuovo romanzo dove racconta la storia di una schiava in fuga: «Ricordo bene la sera del 1977 quando mio padre riunì la famiglia davanti alla tv. Avevo 7 anni ma quel Radici mi fece un’impressione enorme. Oggi siamo pieni di film che parlano di schiavitù: ma Radici è ancora importante. Quest’America, che ha eletto un presidente nero ma non riesce a proteggere i giovani dalla violenza della polizia, ha ancora bisogno di specchiarsi nel suo peccato originale».
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