venerdì 3 giugno 2016

Il voto sul genocidio armeno: la storia come arma geopolitica


Se il Bundestag sgambetta la Realpolitik
di Gian Enrico Rusconi La Stampa 3.6.16
I parlamentari tedeschi che hanno votato, praticamente all’unanimità, la risoluzione che denuncia come «genocidio» lo sterminio della popolazione armena in Turchia negli anni 1915 e 1916, prevedevano le conseguenze immediate del loro pronunciamento? È giusto dire la verità su eventi storici tanto gravi, risalenti a cento anni fa, senza preoccuparsi degli effetti che ne possono derivare?
Oppure - rovesciando il ragionamento - perché mai il potenziale di ricatto di un governo autoritario, come quello turco attuale, dovrebbe impedire di dire la verità?
Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma dobbiamo cercare una risposta se vogliamo capire quanto sta accadendo tra Germania e Turchia e di riflesso a livello europeo. Infatti non solo potranno essere interrotte le relazioni diplomatiche, ma potrebbero essere azzerati i tentativi di trovare una soluzione concordata con l’Unione europea per la sistemazione (sia pure temporanea) della massa di rifugiati presenti nella stessa Turchia, con l’imprevedibile acuirsi dei problemi umanitari. Pagheranno ancora altri innocenti.
Da più di un anno il Bundestag tedesco aveva intenzione di prendere posizione sulla questione del genocidio degli armeni. Una posizione legittima e apprezzabile, preceduta del resto da analoghi pronunciamenti di altri Parlamenti (compreso quello italiano), da dichiarazioni di altissime personalità (compreso papa Francesco) oltre che da una ricerca e riflessione storica approfondita. «Genocidio» non è semplicemente la descrizione di un dato di fatto, per qualificare un evento violento, di amplissime dimensioni, perpetrato contro una popolazione. E’ un giudizio etico con specifiche valenze giuridiche: è un «crimine contro l’umanità» e come tale giudicato e condannato. Storicamente il genocidio per definizione è stato quello contro il popolo ebraico in Europa (Olocausto, Shoah). Commesso dai tedeschi, anche se con questa indicazione non si intende affermare una «colpa collettiva» ma si individuano responsabili precisi, cresciuti e maturati in ambienti culturali e sociali ben identificabili, magari in posizioni funzionali apparentemente secondarie (Eichmann).
Questa insistenza sui tedeschi non è casuale per quello di cui stiamo parlando. La dichiarazione dei parlamentari tedeschi infatti è ben consapevole di avere sulle proprie spalle il genocidio degli ebrei.
Ne sente tutto il peso che vorrebbe paradossalmente trasformare in motivo di amichevole raccomandazione ai turchi, perché diventino anche loro capaci di autocritica e di riconciliazione. «La nostra intenzione non è mettere la Turchia sotto accusa, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo», ha detto il capogruppo dei democratici cristiani (il partito di Angela Merkel). Ma forse lo stanno facendo con una qualche inconsapevole ingenuità, facilmente fraintesa, se si sentono dire in faccia da un politico turco che «il modo per chiudere pagine oscure della propria storia (tedesca) non è infangare la storia di altri Paesi con decisioni parlamentari irresponsabili e infondate».
In realtà i tedeschi, ripensando agli anni del genocidio armeno, avanzano addirittura un’autocritica riferita a quel tempo, quando l’impero ottomano era stretto alleato del Reich guglielmino, che ha quindi avuto una certa «corresponsabilità» perché, sapendo cosa stava accadendo, «non provò a fermare questi crimini contro l’umanità».
Ma rimane sempre l’interrogativo del perché il Bundestag ha preso la sua decisione proprio ora, in un momento delicatissimo del rapporto di Ankara con Berlino e Bruxelles?
Ricordiamo brevemente i fatti. Angela Merkel davanti all’eventualità di non saper reggere l’urto della massa dei migranti, attratti dalla accoglienza benevola della Germania, ha pensato di stabilire un’intesa con la Turchia in funzione di contenimento dei profughi provenienti dalle aree mediorientali, in particolare dalla Siria. Dietro all’offerta di un consistente contributo finanziario Angela Merkel fa una scelta politica rischiosa. La cancelliera, da sempre contraria a facilitare l’ingresso della Turchia nell’Unione, perché priva dei requisiti etico-politici e istituzionali indispensabili, è disposta a sacrificare i suoi convincimenti ad un obiettivo considerato di valore superiore. E’ segno di una spregiudicata Realpolitik o al contrario è un implicito riconoscimento della debolezza e vulnerabilità della sua posizione?
La contropartita richiesta da Ankara infatti è pesante: non solo chiede la liberalizzazione dei visti ai cittadini turchi per la Germania, la ripresa dei contatti per una possibile entrata nell’Unione europea e altre facilitazioni economiche, ma esige la non interferenza negli «affari interni» del Paese in un momento di manifesta limitazione e violazione delle libertà politiche e dei diritti umani. Nonostante ciò la cancelliera tedesca riesce a convincere la Commissione europea a far propria l’iniziativa tedesca. Ma non è chiaro quali garanzie gli europei siano in grado di esigere e di ottenere dalla Turchia affinché vengano rispettati i diritti umani e di libertà politica.
Ad un certo punto Erdogan spazientito e pressato da crescenti proteste interne minaccia Bruxelles di rompere il patto. Non c’era momento peggiore perché il Bundestag facesse la sua dichiarazione.
A questo punto non è chiaro chi possa riprendere il controllo della situazione. Non so se Erdogan si limiterà ad alzare la posta in gioco con l’Ue o invece, approfittando della reazione d’orgoglio nazionale ferito, si spingerà ulteriormente sulla strada del rafforzamento del suo potere autocratico.
Se c’è una autorità europea capace e risoluta a Bruxelles, questa è la sua ora.

Un macigno sul Sultano Nato
Genocidio degli armeni. In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad essodi Angelo d'Orsi il manifesto 3.6.16
Il passato che non passa, torna regolarmente agli onori (o ai disonori) della cronaca. Le scuse o le mancate scuse per i crimini commessi da una nazione ai danni di un’altra (Obama recentemente a Hiroshima per la prima tragica atomica Usa); l’incommensurabile orrore della Shoà, che ci viene ricordato, in ogni modo, quotidianamente; i massacri, le annessioni di territori con la violenza, i misfatti delle potenze coloniali, sono altrettanti capitoli della storia del mondo, davanti ai quali la tentazione è sovente quella giustificazionista (tutti gli Stati sono nati dalla violenza, per esempio), o liquidatoria (ne abbiamo parlato abbastanza).
Oppure, sull’altro fronte, si affaccia la tendenza etico-giurisdizionalistica: condanne di tribunali internazionali (spesso dalla dubbia legittimità, come quello sui crimini della ex Jugoslavia) o di parlamenti nazionali. No, il passato non passa, a meno che non intervenga la storia, come scienza dei fatti accaduti, documentati, a mettere le cose a posto. E la storia ha acclarato, ad esempio, senza alcun ragionevole dubbio, che i campi di sterminio nazisti sono esistiti.
Fra i grandi crimini del Novecento, a dispetto del silenzio dei governi e della società turca, vi è il massacro degli Armeni, avvenuto nel 1915-16, quando l’Europa si dilaniava nel primo conflitto continentale. Quanti furono i morti? Un milione? Un milione duecentomila? Un milione e mezzo? Certo fu un crimine sistematico, organizzato scientemente, anche se non eseguito in modo «industriale» come nelle «docce» e nei forni di Auschwitz. Molti morirono di stenti in marce forzate, di cui ci sono agghiaccianti testimonianze fotografiche. Altri furono passati per le armi nelle loro case, altri impiccati o fucilati un po’ dovunque, in carceri, per strada, in luoghi di deportazione, ammesso che vi arrivassero ancora vivi. Va ricordato che fra i massacratori vi furono anche milizie kurde, ossia espressione di un popolo a cui proprio la Turchia, innanzi tutto, ha negato nazionalità, sottoponendolo a una persecuzione infinita.
Quel massacro, avvenuto con la collaborazione delle autorità del Reich Guglielmino, allora alleato dell’Impero Ottomano (nella cui traiettoria si staglia quella turpe vicenda, in un processo guidato dai cosiddetti «Giovani Turchi»), non ha ricevuto finora i riconoscimenti che gli spettavano.
Fra i primi Stati a riconoscere che di genocidio si è trattato, è stata la Francia, e spesso per le vie di Parigi si assiste a raduni, manifestazioni, capannelli di armeni (un film recente, assai bello, Mandarines, di Zaza Urushadze) evoca gli strascichi attuali di quella vicenda, nella triste guerra del Nagorno-Karabak). Papa Francesco, Obama, il parlamento di Vienna, richiamarono con varia terminologia quell’evento, suscitando la reazione irritata del governo turco, che rispose con il canonico richiamo dell’ambasciatore. Ora che è il Bundestag tedesco a farlo, la reazione è stata ancora più dura, non solo richiamando l’ambasciatore, ma minacciando conseguenze non precisate.
In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso. Riceve denaro per bloccare i migranti, che in realtà sfuggono e cercano altre vie per l’Europa; vuole aderire all’Ue, ma non si sogna di ottemperare le regole minime ripetute in modo sempre più stanco dai rappresentanti istituzionali dell’Unione. Con l’arrivo al potere di Erdogan mentre si erode la laicità dello Stato – quello costruito, con la violenza, da Ataturk – se ne cancella ogni vestigia di democrazia: oggi raccontare la verità in Turchia significa esporsi al rischio di finire la carriera di giornalista, scrittore, blogger, fotoreporter in galera o peggio. Erdogan spadroneggia, e si permette il lusso di svillaneggiare il papa, di ridicolizzare l’Unione Europea a cui pure pretende di aderire, e senza tanti complimenti chiude ogni voce critica.
E in nome del quieto vivere, nella speranza che quel governo faccia il suo sporco lavoro (contro i migranti), le diplomazie europee tacciono, o al più balbettano. Il passato che non passa è però un macigno anche per le robuste spalle del nuovo sultano di Ankara.

L’ira turca: «È un errore storico, compromessa l’amicizia tra i paesi»
Turchia. Questa crisi potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo sui migranti stipulato con l’Uedi Giustino Mariano il manifesto 3.6.16
A nulla sono valse le pressioni esercitate da poco più di un anno da Ankara su Berlino, affinché il Bundestag non approvasse la risoluzione che riconosce come «genocidio» il massacro degli armeni avvenuto nel 1915 ad opera dell’Impero Ottomano. Con un solo voto contrario e un astenuto, la Germania ha infatti approvato la risoluzione dal titolo «Memoria e commemorazione del genocidio degli armeni e altre minoranze cristiane tra il 1915-16«, presentata da un vasto schieramento parlamentare che va dalla coalizione al governo, composta dalla Cdu della cancelliera Angela Merkel e dal Spd, il partito socialdemocratico e dai Verdi, che sono all’opposizione.
Ciò, come era ampiamente prevedibile, ha fatto irritare profondamente Ankara, il cui governo ha subito con veemenza dichiarato che questo riconoscimento è «un errore storico’» e a cui avrebbe dato una adeguata risposta richiamando da Berlino il suo ambasciatore. Il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, in visita di Stato in Africa, ha commentato con durezza tale decisione dicendo che essa avrebbe «compromesso seriamente i rapporti tra i due paesi» e attraverso il vicepremier Nurman Kurtulmus, ha fatto sapere che al suo ritorno avrebbe formulato una più precisa e puntuale risposta a quella che considera «una gravissima e inaccettabile provocazione, profondamente lesiva della relazione di amicizia tra Ankara e Berlino».
Il neo primo ministro turco Binali Yildirim, proprio poche ore prima del voto al Bundestag, aveva avvertito la cancelliera Angela Merkel che il risultato del voto sarebbe equivalso a una «vera prova di amicizia» tra i due paesi. Secondo alcuni osservatori turchi sarebbe in gioco la stabilita’ dei rapporti bilaterali in campo economico e militare. Ma in realtà Merkel ha subito cercato di gettare acqua sul fuoco dicendo che «l’amicizia tra i due paesi è molto solida» e solidi sono anche i loro legami strategici. La Germania è il paese col maggiore interscambio commerciale con la Turchia; entrambi i paesi sono inoltre membri della Nato. Attorno a questa vicenda storica dolorosa ogni anno si accende un’aspra polemica tra il governo turco, che nega la natura genocidiaria di quell’evento e i paesi che nel mondo la denunciano.
Ad ogni ricorrenza della data di quel massacro, il 24 aprile 1915, la comunita armena reclama il riconoscimento di quello che considera un genocidio. La Turchia di oggi non nega che vi siano stati quei «massacri»; l’anno scorso, l’allora primo ministro turco Ahmet Davutoglu, si era spinto ben oltre le dichiarazioni del presidente Erdogan nel riconoscere l’orrore di quegli eventi e infatti dichiarò: «Le deportazioni degli armeni sono un crimine contro l’umanità». È questa fu una dichiarazione considerata da molti storica, dopo decenni di forte rimozione di quella tragedia. E lo stesso presidente Erdogan aveva riconosciuto l’importanza che il 24 aprile ha per gli armeni.
Aveva descritto quegli eventi storici come «disumani» e aveva presentato le condoglianze ai nipoti di coloro che persero la vita parlando di un «dolore condiviso» e per la prima volta, un anno fa, proprio in occasione del centenario dei massacri, le due comunità, la turca e l’armena, celebrarono gli insieme la memoria dello sterminio. La Turchia rifiuta il termine «genocidio». Sostiene da sempre che non vi era alcuna volontà di genocidio da parte dell’allora governo dei «Giovani turchi»; che non vi era un piano premeditato di eliminazione di un popolo, che si è trattato di massacri e deportazioni da inquadrare all’interno del contesto della prima guerra mondiale.
Oggi della questione armena, di genocidio o massacri, si parla apertamente e sono stati pubblicati libri e prodotti film su questa immane tragedia e le vittime del 1915 vengono commemorate ogni anno il 24 aprile ad Istanbul e in tante altre città della Turchia.
Si tratta di un cambiamento radicale, di una accresciuta consapevolezza di quegli eventi. Alcuni osservatori ritengono che la crisi che si è aperta tra Ankara e Berlino potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo di riammissione dei migranti stipulato tra Unione europea e Turchia il 18 marzo scorso, voluto dalla cancelliera tedesca Merkel. Alla tenuta di questo accordo tiene moltissimo anche Ankara; con esso spera infatti di ottenere entro giugno la liberalizzazione dei visti d’ingresso per i propri cittadini nell’area Schengen. E ciò costituisce per la Turchia un punto fondamentale dell’accordo con l’Ue.
Tale questione si è arenata perché Ankara non ha alcuna intenzione di provvedere a riformare la legge liberticida antiterrorismo come prevista dai 72 criteri inseriti nell’accordo sulla liberalizzazione dei visti e ha minacciato di non rispettare il patto sui migranti se Bruxelles non provvederà ad abolire i visti.
E si teme che la crisi che si è aperta in queste ore tra Berlino ed Ankara possa ripercuotersi sull’accordo riguardante i migranti e che dunque il governo turco potrebbe esercitare un ulteriore pressione su Bruxelles per ammorbidire l’Ue sulla richiesta di riforma della legge antiterrorismo necessaria per procedere nel negoziato.

Berlino, gli armeni e lo schiaffo a Erdogandi Alberto Negri Il Sole 3.6.16
Alla cancelliera Angela Merkel sarebbe bastata una Turchia presentabile, da tenere nella sala d’attesa dell’Europa, utile per essere un partner affidabile nella gestione di un paio di milioni di profughi e come alleato nel marasma mediorientale. L’obiettivo forse è destinato a fallire, anche se non è detto che la crisi tra Berlino e Ankara, dopo il riconoscimento del genocidio degli armeni, significhi immediatamente il naufragio dell’accordo sui profughi. Probabilmente si apriranno nuovi contenziosi con Bruxelles. Certo questa intesa, criticata per le sue ambiguità, ondeggia a ogni folata di vento, come il recente siluramento dell’ex premier Davutoglu, e per un semplice motivo: a differenza dei suoi predecessori Erdogan non guarda all’Europa come a una meta da raggiungere
Considera l’Unione non un approdo ma soltanto una sponda per suoi progetti politici. È stato lui stesso qualche giorno fa a proclamarlo davanti a un milione di persone a Istanbul, circondato da bandiere ottomane e comparse vestite da giannizzeri che marciavano al passo dell’oca: «Per capire questa città non si deve guardare all’Europa ma alla Mecca, alla Medina, ad Al Qods (Gerusalemme)». Non solo deve essere seppellito il passato romano e bizantino di Costantinopoli ma Erdogan ha indicato una geopolitica completamente diversa, difficilmente compatibile con l’Unione europea e forse anche con la stessa Nato. Ogni occasione diventa un’opportunità da strumentalizzare in chiave islamica e soprattutto iper-nazionalista per dimostrare l’urgenza dei suoi progetti politici: varare una costituzione sul modello presidenziale e far fuori i curdi in Parlamento, ritenuti un vulnus alla compattezza dell’ideologia panturchista.
La crisi con Berlino per il voto del Bundestag sul genocidio armeno verrà enfatizzata con il richiamo dell’ambasciatore in Germania, come era già avvenuto l’anno scorso con il Vaticano e l’Austria sempre per lo stesso motivo in occasione del centenario del massacro degli armeni del 1915. Allora Papa Bergoglio aveva definito l’uccisione di 1,5 milioni di armeni «il primo genocidio del ventesimo secolo» ed Erdogan aveva accusato il pontefice di dire «stupidaggini». Questa volta le reazioni sono ancora più forti.
La signora Mekel si accorge, giorno dopo giorno, che la sua amicizia con Erdogan è disseminata di ostacoli. In primo luogo per i ripetuti attacchi del “sultano” alla democrazia, ai principi di separazione dei poteri, allo stato di diritto, alla libertà di espressione: la stessa Merkel ha protestato per la cancellazione dell’immunità parlamentare destinata a espellere soprattutto i deputati curdi. Dopo che le era stato rimproverato di sacrificare i valori europei sull’altare dell’accordo con Ankara, questa crisi dovrebbe aprire un nuovo capitolo anche per l’Unione: non più quello della “realpolitik” - chiudere un occhio sull’autoritarismo di Erdogan pur di frenare profughi - ma del “principio di realtà”, cioè prendere atto che la Turchia di oggi è un partner forse ineludibile ma ad alto rischio politico.



Armeni, schiaffo tedesco a Erdogan
Il Bundestag, con voto quasi unanime, riconosce il genocidio Ankara richiama l’ambasciatore. A rischio il patto sui profughi
Corriere della Sera  3 giu 2016 @danilotaino Danilo Taino
Erdogan non può nemmeno sognarsi di impedire un dibattito in un Parlamento europeo: questo è il messaggio più forte che il Bundestag tedesco ha mandato ieri al presidente della Turchia. Attraverso un voto quasi unanime a favore di una mozione nella quale il massacro degli armeni — tra 800 mila e un milione e mezzo di morti nel 1915-1916 a opera dell’Impero Ottomano — viene definito «genocidio». Come aveva abbondantemente avvertito da mesi, Ankara ha reagito all’uso del termine, ha richiamato il proprio ambasciatore da Berlino Assente la Merkel La leader ha detto di sperare che il caso non danneggi l’amicizia tra i due Paesi e ha convocato un rappresentante diplomatico tedesco per protestare. E’ una crisi bilaterale annunciata; ma non necessariamente drammatica.
Era da tempo che il Parlamento tedesco voleva discutere di quel massacro. Un po’ perché altri Parlamenti lo hanno fatto e un po’ perché i deputati ritenevano importante ammettere, durante il dibattito, anche le responsabilità della Germania, che durante la Prima guerra mondiale era alleata dei turchi, sapeva quello che stava succedendo e non è intervenuta (autocritica che ieri c’è stata). Per non irritare Ankara e la numerosa comunità turca in Germania, il governo aveva però sempre rinviato la discussione. Alla fine, ha dovuto convocarla proprio nel momento in cui i rapporti tra Angela Merkel e Recep Tayyp Erdogan sono diventati, nella loro difficoltà, strategici in ragione dell’accordo tra Turchia e Ue sui rifugiati.
Secondo alcuni una sventura diplomatica che potrebbe mettere in discussione il patto sui profughi. Forse, in realtà, un colpo di fortuna: avere impedito all’uomo forte di Ankara di bloccare la libera volontà del Bundestag non solo gli fa capire che il suo autoritarismo e le sue pretese hanno chiari limiti non valicabili; mette anche alla prova l’aggressività che mostra quando è sottoposto alla satira o contraddetto nelle sue richieste, consente di capire fino a dove è disposto ad andare nella reazione a quella che dipinge come un’offesa alla sua Nazione.
Prevedere cosa può produrre l’orgoglio personale di Erdogan è impossibile: nei giorni scorsi, aveva telefonato alla cancelliera Merkel per avvertirla che, se si fosse votata la mozione, i rapporti bilaterali, persino in campo militare, si sarebbero incrinati. E ieri ha detto che il richiamo dell’ambasciatore è «solo il primo passo». Il suo ministro della Giustizia ha sostenuto, con parole di fuoco, che la Germania non ha diritto di parlare di genocidio vista la sua storia. Probabilmente, però, la crisi sarà limitata: i due Paesi hanno interessi comuni forti, fanno parte della Nato e in più Ankara, alle prese con Siria, Isis e Putin, non può permettersi di isolarsi più di quanto già lo sia.
E nemmeno il governo di Berlino, naturalmente, vuole che la crisi si radicalizzi. Frau Merkel, ieri, non era al Bundestag. E nemmeno c’erano il vicecancelliere Sigmar Gabriel, il titolare degli Esteri Frank-Walter Steinmeier e altri ministri: tutti con precedenti impegni. Non bello; ma indicativo del non volere alzare i toni della disputa su una vicenda importante ma di un secolo fa. La cancelliera ha anche detto di sperare che la vicenda non infici l’amicizia tra i due Paesi.
Nel merito, i turchi sostengono che parlare di genocidio è una falsificazione storica. Non negano i massacri, anche se limitano il numero delle vittime. Dicono però che usare per le vicende del 1915-1916 lo stesso termine che si usa per l’Olocausto degli ebrei è insostenibile e mette una macchia ingiusta sulla Turchia. Opinione non del tutto isolata: famoso è il caso del grande storico Bernard Lewis che fu multato (un franco) in Francia dopo un processo per negazionismo del genocidio armeno: sostiene che le barbarie non furono preordinate a tavolino e finalizzate a sterminare gli armeni ma avvennero come reazione spropositata alla loro ribellione. Il Bundesbank la pensa diversamente. E anche questo fa discutere, al di là di Erdogan: non a tutti piace che la politica decida di scrivere una storia di Stato invece di lasciare il compito agli intellettuali e agli esperti.

Lo sterminio dei Pascià e le colpe (ora ammesse) della Germania
La collaborazione con l’Impero ottomano e il primo processo a Berlino nel 1921
Corriere della Sera 3 giu 2016 di Andrea Riccardi



Il Bundestag ha riconosciuto, con voto quasi unanime, i massacri degli armeni nel 1915 da parte degli ottomani come un genocidio. Il presidente turco Recep Erdogan ha subito condannato con forza il fatto e ritirato il suo ambasciatore a Berlino. Per una questione di cent’anni fa, si apre una tempesta diplomatica tra Ankara e Berlino, soprattutto non molto dopo l’accordo tra Unione Europea e Turchia sui rifugiati, propiziato da Angela Merkel. Attraverso l’intesa, Ankara ha acquisito una centralità nella politica europea quale scudo ai flussi di migranti e rifugiati: una funzione discutibile, ma che riduce assai la pressione migratoria. Tra l’altro, Germania e Turchia sono legate da un interscambio commerciale che vede l’economia tedesca al primo posto in Anatolia. Ci sono poi in Germania più di 1 milione e 500 mila turchi residenti e altrettanti con passaporto tedesco. Perché questa decisione «impolitica» della Germania, che si era invece manifestata molto realista verso la Turchia? È proprio un’espressione tipica delle democrazie europee che, pur praticando il realismo della politica, non sono dominate solo da questa logica. L’ha mostrato il voto del Bundestag, ben al di là della maggioranza di governo.
I tedeschi sono ovviamente sensibili alla tematica dei genocidi, anche se la Shoah e Metz Yeghern (il Grande male degli armeni) sono vicende storiche diverse. Non si può dimenticare che i tedeschi furono presenti in Turchia e alleati dell’impero nella Prima guerra mondiale. Hitler, alla vigilia dell’invasione della Polonia, nel 1939, avrebbe detto, per sminuire i suoi progetti genocidari: «Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?». Invece in Germania si conosceva il dramma armeno. Si tenne nella capitale tedesca, nel 1921, un processo al giovane armeno, Soghomon Tehlirian, che aveva assassinato a colpi di pistola Talaat Pascià, fuggito a Berlino dopo la disfatta ottomana. Talaat, Enver e Cemal avevano formato il triunvirato di «Giovani turchi» (il movimento nazionalista) che aveva portato l’impero in guerra. Sotto la loro direzione, erano avvenute le stragi e le deportazioni degli armeni verso il deserto siriano. Morirono anche altri cristiani ottomani, come siriaci o caldei (senza alcuna velleità nazionalista). Nel suo diario, l’ambasciatore americano a Istanbul, Morghentau, ricorda di aver difeso l’innocenza degli armeni con Talaat e di aver ricevuto da lui questa risposta: «Gli innocenti di oggi possono essere i colpevoli di domani». L’epurazione etnica degli armeni era una terribile misura preventiva. Finiva un tessuto di convivenza tra musulmani e cristiani, durato secoli, che costituiva una originalità del mondo ottomano.
Il processo a Tehlirian fu un atto d’accusa verso i turchi con l’audizione di testimoni tedeschi e armeni. Si concluse con l’assoluzione dell’imputato, che aveva perso la famiglia nelle stragi. Emersero pure complicità e indifferenze da parte dei militari tedeschi di fronte alla deportazione e all’assassinio degli armeni. Spesso la documentazione tedesca è una delle prove dei massacri. Il Bundestag ha riconosciuto la corresponsabilità della Germania, che «non provò a fermare questi crimini contro l’umanità». Non fecero così tutti i tedeschi. Alcuni ebbero forte sensibilità al dramma armeno: così il pastore protestante Johannes Lepsius, autore di un rapporto segreto sui massacri nel 1916 o il militare Armin Wegner, che ha lasciato una drammatica serie di fotografie (prese di nascosto) degli armeni stremati nel deserto siriano di Deir el Zor.
Da parte turca si nega la realtà storica del genocidio. Secondo gli storici turchi, i morti armeni nel 1915 sono stati dai 200 mila agli 800 mila, mentre la storiografia internazionale (in genere) parla di 1 milione e 500 mila. Per i turchi la morte degli armeni è uno dei vari terribili episodi durante la guerra, non un caso particolare. Anche la popolazione turca sarebbe perita (pure ad opera di rivoltosi armeni). Il 24 aprile 2014, anniversario del genocidio armeno, il primo ministro Erdogan ha inviato le condoglianze ai nipoti dei caduti armeni, chiedendo di «ricordare questo periodo doloroso con una memoria giusta». È un’attenuazione di un atteggiamento rigido, non il riconoscimento del genocidio. La Turchia attuale ha però una variegata opinione pubblica: non molto tempo fa un nipote del triunviro Gemal ha riconosciuto il genocidio degli armeni, inchinandosi al memoriale del genocidio in Armenia. Non tutta la storiografia turca è schierata in senso negazionista: nel 2008 un testo di richiesta di perdono agli armeni, promosso da uno storico turco, ha raccolto 30 mila adesioni di turchi. Forse è venuto il momento di superare le rigidità e la storiografia polemica. Vive in Turchia una comunità armena di circa 50 mila persone, mentre recenti immigrati armeni lavorano nel Paese. La questione del genocidio si riverbera però sui rapporti tra Armenia e Turchia, confinanti tra loro. La chiusura della frontiera manifesta ancora l’irriducibilità tra i due mondi.


“Armeni, fu genocidio” Berlino sfida la Turchia l’ira di Erdogan “Adesso reagiremo” 

Condanna del Bundestag cento anni dopo i massacri Ankara richiama l’ambasciatore. Merkel diserta il voto
TONIA MASTROBUONI Restampa 3 6 2016
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO. Il Parlamento tedesco ha condannato ieri il genocidio armeno. In sostanza, Angela Merkel ha delegato al Bundestag la riconquista di una fetta di dignità sacrificata nei mesi scorsi sull’altare della realpolitik dell’accordo Ue-Turchia. Ma la reazione di Ankara è stata violentissima. Il presidente turco Erdogan ha minacciato conseguenze «serie» per i rapporti con Berlino, e il suo governo ha immediatamente richiamato l’ambasciatore - una mossa, pare, ampiamente prevista, nella capitale tedesca. Anche il premier turco e fedelissimo del presidente, Binali Yildrim, ha reagito in maniera scomposta, parlando di un voto «nullo, inutile », e citando in Parlamento una fantomatica «lobby razzista degli armeni» che avrebbe ispirato il voto. Ma qualche ministro è andato ben oltre, brandendo il sempreverde randello delle colpe naziste: Bekir Bozdag, ministro della Giustizia, si è rivolto a Berlino con le seguenti parole: «Prima bruci gli ebrei, poi ci accusi di genocidio». Omettendo che la Germania ha fatto un decennale mea culpa sull’Olocausto, a differenza dei turchi che ostentano da un secolo un fiero negazionismo sulla strage degli armeni.
Insomma, difficile prevedere le conseguenze del voto sulle relazioni tra Berlino e Ankara, ma anche tra Ankara e la Ue. Alla cancelleria ostentano tranquillità. Angela Merkel ha detto dopo un incontro con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg che «anche se abbiamo opinioni diverse, i nostri rapporti di amicizia e strategici sono buoni. Il governo vuole favorire il dialogo tra la Turchia e l’Armenia ». Dopo che in Germania molte associazioni di turchi nazionalisti hanno nei giorni scorsi raccolto firme e manifestato in piazza, anche a Berlino, contro la risoluzione, la cancelliera si è rivolta anche a loro. «Voglio dire ai nostri concittadini di origine turca che non solo sono i benvenuti, ma che sono parte del nostro Paese». Nei giorni immediatamente precedenti al voto, ad alcuni parlamentari di origine turca erano anche arrivate delle minacce anonime.
Un clima agghiacciante, cui mezzo governo ha goffamente risposto dileguandosi nelle ore drammatiche del voto o sottraendosi ad esso pur stando in aula e cercando di minimizzarne le conseguenze. Tre pesi massimi come Merkel, il suo vicecancelliere Sigmar Gabriel (Spd) e il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd) non si sono neanche presentati al Bundestag per presunti impegni presi da molto tempo. Steinmeier, partito per un viaggio in Argentina, ha puntualizzato da lì che «si tratta di una decisione autonoma del Parlamento », aggiungendo imbarazzo ad imbarazzo. «Come ci aspettavamo ha aggiunto il capo della diplomazia tedesca - la Turchia ha reagito e spero che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane riusciamo a organizzarci in modo da contenere reazioni eccessive».
Il voto in parlamento, invece, ha registrato un solo contrario e un’astensione. Bettina Kudla (Cdu) ha fornito poi sulla sua pagina internet il motivo per il suo “no” alla risoluzione. Tra le altre cose, la parlamentare cristianodemocratica ha sostenuto che non sia compito del parlamento giudicare fatti storici avvenuti in altri Paesi. Ma al termine del voto, una delegazione di armeni che aveva seguito la storica giornata nella “piccionaia” del Bundestag, ha tenuto un cartello in alto con una sola parola, vergata in rosso e a caratteri cubitali: «Danke », «Grazie».
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“Si rompe il muro di silenzio ora esistiamo un po’ di più” 
La scrittrice italo-armena: “È un importante riconoscimento di fatti storici. C’è un parallelismo con la Shoah: in entrambi i casi, complicità tedesche”
GIAMPAOLO CADALANU Restampa 3 6 2016
UN PO’ di sollievo, l’idea che il peso di una tragedia si alleggerisca appena: è questo, per Antonia Arslan, l’effetto delle notizie che arrivano da Berlino. Studiosa e scrittrice, la Arslan ha raccontato al pubblico italiano il genocidio armeno nel romanzo La masseria delle allodole.
Signora Arslan, che significato ha la decisione del Bundestag?
«Il voto tedesco è molto importante, ma non per le conseguenze immediate: questi sono voti di principio, un riconoscimento dei fatti storici. È importante perché la Germania è sempre stata alleata della Turchia, anche ai tempi dell’Impero ottomano. Ci sono sempre stati solidi legami economici, che hanno permesso anche la costruzione della ferrovia Berlino-Bagdad, che hanno usato durante il genocidio. Per la verità, tutte le tecniche usate dal regime nazista per la deportazione degli ebrei erano già state sperimentate dai turchi con gli armeni…».
Che cosa cambia con la presa di posizione della Repubblica federale?
«La Germania resta una grande amica della Turchia, ospita milioni di lavoratori turchi, la cancelliera Merkel ha persino sostenuto Erdogan alle elezioni… Ma questo voto è l’affermazione della volontà di ristabilire la verità storica».
Ma nel concreto, che effetti avrà questa decisione?
«Non c’è un significato materiale, ma in termini ideali è un gesto significativo contro la pesante coltre di negazionismo. La decisione del Bundestag mina una costruzione menzognera che è stata imposta sulla Turchia e rinnovata Parlamento dopo Parlamento».
Ma perché in Turchia questo tema è considerato tabù? Come mai la cultura turca rifiuta persino di prendere in considerazione un ripensamento, a distanza di un secolo dai massacri?
«Questa è una domanda che si pongono tante persone di buon senso. Ma l’intero apparato della repubblica turca è basato su questa bugia. La gigantesca operazione di pulizia etnica ai danni delle minoranze viene completamente negata. Anche l’immagine del Paese costruita da Mustafà Kemal è segnata da travisamenti storici. E tutti devono partecipare a perpetuare questa rappresentazione: dai docenti universitari ai giornalisti, ai centri studi. Perché non si può ammettere la verità: per oltre un secolo abbiamo sostenuto una bugia».
Com’è possibile che nella società turca nessuno mostri imbarazzo per questa rimozione?
«Non è facile . C’è un libro, di cui ho curato da poco l’edizione italiana, che racconta il durissimo cammino verso la presa di coscienza: è firmato da Hasan Cemal, giornalista settantenne e nipote di Cemal Pasha, uno degli esecutori materiali dei massacri. Si chiama proprio: “1915: genocidio armeno”. Racconta la presa di coscienza di una persona cresciuta nell’adorazione del nonno. In questo momento il dibattito delle idee non attraversa una fase favorevole in Turchia, ma ci sono giornalisti e docenti universitari che hanno fatto un percorso di conoscenza ».
È curioso che ci sia questo collegamento con la Germania, un Paese che ha fatto i conti con il suo passato in maniera molto dura. Che ne pensa?
«In effetti c’è un parallelismo fra il “Grande male” armeno e la Shoah. E anche il genocidio armeno è stato compiuto con qualche complicità tedesca. Per questo è importante che oggi la Germania lo riconosca ».
Ma lei personalmente come ha reagito alla notizia del voto? Che cosa cambia, per lei?
«Io sono nata in Italia, non posso che esprimermi in italiano, ma c’è sempre questa consapevolezza di aver fatto parte di una famiglia distrutta. È una ferita mai sanata.Sprezzantemente ignorata. E quando un Paese la riconosce, come ha fatto l’Italia nel 2001, ci si sente un po’ più riconosciuti, si esiste un po’ di più». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Berlino riconosce il genocidio armeno È crisi con la Turchia 
Richiamato l’ambasciatore dopo il voto del Bundestag La minaccia di Erdogan: ci saranno serie ripercussioni 
Alessandro Alviani Busiarda 3 6 2016
Non è servita a molto la premessa con cui ieri mattina il presidente del Bundestag, Norbert Lammert, ha aperto il dibattito sulla risoluzione con cui i deputati tedeschi hanno definito «genocidio» lo sterminio degli armeni nell’Impero ottomano avvenuto un secolo fa. L’attuale governo turco non è responsabile degli eventi di allora, ma «è corresponsabile del modo in cui verranno affrontati in futuro», ha esordito Lammert. «Un parlamento non è una commissione di storici, né di sicuro un tribunale, tuttavia il Bundestag non può e non vuole evitare domande e risposte scomode», specie quando, come in questo caso, l’Impero tedesco ebbe una complicità, ha aggiunto. Precisazioni riprese anche da altri deputati, impegnati a ribadire che la risoluzione non rappresenta un atto d’accusa contro Ankara. Tant’è: subito dopo l’approvazione del testo, passato quasi all’unanimità (un solo no e un’astensione), la Turchia, che si rifiuta di parlare di «genocidio» e già alla vigilia aveva protestato e minacciato ripercussioni, ha richiamato il proprio ambasciatore. 
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha spiegato che la decisione del Bundestag avrà «serie conseguenze» sui rapporti bilaterali e ha annunciato che verranno discusse ulteriori misure. Il ministro degli Esteri Mevlüt Cavusoglu ha parlato di un passo «irresponsabile e infondato». Per il vicepremier Numan Kurtulmus si tratta di un «errore storico» e di una decisione «nulla». Ancora più pesante il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag: «prima bruci gli ebrei nei forni, poi ti alzi e accusi il popolo turco con calunnie di genocidio. Preoccupati della tua Storia». 
Dal canto suo Angela Merkel si è affrettata a ricordare che «Germania e Turchia sono unite da molte cose e, anche se ci sono divergenze di vedute su una determinata questione, la portata delle nostre relazioni e dei nostri rapporti strategici e di amicizia è molto grande». Vogliamo contribuire a promuovere il dialogo tra Armenia e Turchia, ha aggiunto la cancelliera, che non era presente al Bundestag per ragioni di agenda (martedì si era schierata a favore della risoluzione in una votazione di prova interna al suo partito). Assenti sui banchi del governo anche il ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier e il vice cancelliere Sigmar Gabriel. La vigilia del voto è stata segnata anche da mail di minacce e insulti inviate a diversi deputati, specie quelli di origini turche.
Nella risoluzione, avanzata dalla maggioranza (Cdu/Csu e Spd) e dai Verdi, la parola «genocidio» compare quattro volte, a partire dal titolo: «Ricordo e commemorazione del genocidio degli armeni e di altre minoranze cristiane negli anni 1915 e 1916». Il destino degli armeni «è esemplare della storia degli stermini di massa, delle pulizie etniche, delle deportazioni e dei genocidi che hanno segnato in modo così terribile il Ventesimo secolo», si legge nel documento, che condanna anche la complicità e il «ruolo inglorioso» del Reich tedesco, allora principale alleato militare dell’Impero ottomano: pur avendo ricevuto precise informazioni sullo sterminio «non provò a fermare questi crimini contro l’umanità». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

A Bruxelles i timori sul piano migranti “Ci saranno conseguenze sull’intesa” 
Dalla Commissione si parla di una nuova missione turca “L’accordo non va rotto: abbiamo bisogno di loro e viceversa” 
Busiarda
Alla terza telefonata diventa chiaro che, quando si parla di Turchia, ottimismo e pessimismo sono ormai scelte puramente politiche. Una fonte diplomatica francofona avverte che a Berlino il parlamento «ha provocato i turchi e ha creato i presupposti per una crisi dalle conseguenze pesanti sui rapporti con l’Europa e sull’intesa per fermare i migranti, perché è stata la Merkel a volerla e la Merkel è tedesca». 
Alla Commissione Ue, dove la speranza è alimentata dalla volontà, si fa invece notare che «si tratta di un fatto bilaterale, che è una decisione dei deputati e la cancelleria non c’entra». Chi vuole la pace spera nella pace. Chi poco digerisce Erdogan e i suoi, ha altre idee per la testa. 
Il presidente turco minaccia conseguenze molto serie. Non è una notizia, la dialettica del sultano difficilmente sceglie i mezzi termini. Il pronunciamento del Bundestag sul massacro armeno di cent’anni fa capita in un momento in cui le relazioni fra i ventotto e la mezzaluna sono complesse, delicate e necessarie. In marzo l’Unione ha siglato con la Turchia un accordo che, fra le critiche e le denunce di violazioni, ha di fatto posto fine al transito di siriani in cerca di asilo sulla rotta greca e balcanica. Mercoledì, secondo l’Unhcr, sono passati in sette. Lo scorso anno in questa stagione sarebbero stati decine o centinaia.
Il nodo dei visti
Il risultato è statisticamente positivo, ma sotto il tappeto tessuto dei numeri in calo, c’è la polvere di troppi dissidi. In cambio dello stop ai flussi di disperati, l’Europa ha promesso ad Ankara la liberalizzazione dei visti e tre miliardi, per cominciare. Nonostante gli sforzi, sembra difficile che già in giugno si possa avere l’intesa sulla libera circolazione di 80 milioni di turchi. Manca una serie di capitoli, a partire dalla modifica della discussa legge antiterrorismo che finisce per essere applicata anche ai giornalisti d’opposizione. Per Erdogan, è una ferita politica non da poco sul fronte interno.
I tentativi di ricucire
Fonti della Commissione Ue invitano a aspettare che passi la nottata. «Sappiamo per esperienza quanto è difficile fare i conti con il passato - ha detto il socialdemocratico tedesco Rolf Muetzenich - ma solo facendo così la fiducia fra gli essere umani può essere consolidata». «Ci vorrà subito una missione di Frans Timmermans», sottolineano al TeamJuncker. Il vicepresidente della Commissione era ad Ankara una settimana fa e, di lì, aveva dato conto dei progressi «concreti ma lenti» del negoziato. «L’Europa ha bisogno della Turchia e viceversa», si continua sottolineare, ma la corda può strapparsi da un momento all’altro. La fine dell’intesa turca farebbe ripartire il flusso dei migranti che nel 2015 sono stati 1,3 milioni. Non si può però difenderla a tutti costi. «La scommessa vera - dicono a Bruxelles - è superare le dispute centenarie in nome di una maggiore stabilità oggi». Difficile. Anzi, quasi possibile.  [m. zat.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



Armeni, fu genocidio 

Germania. All’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno. La Turchia ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: «Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania» 
Sebastiano Canetta Manifesto BERLINO 3.6.2016, 23:59 
Una risoluzione del Bundestag scompagina le relazioni con la Turchia e riapre i giochi di strategia dell’Ue sul fronte dei migranti. Ieri quasi all’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno predisposto da Cdu, Spd e Verdi. Ci è voluto un anno prima di mettere nero su bianco ciò che affermava il presidente della Repubblica Joachim Gauck «Il destino degli armeni esemplifica la storia dello sterminio di massa, la pulizia etnica le espulsioni e persino i genocidi di cui il Ventesimo secolo è segnato in modo così terribile». 
Immediata la «rappresaglia» turca: il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: «Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania», e non solo perché la «guerra sulla Storia» con Berlino rischia di far saltare l’intesa sull’abolizione del visto per i turchi nell’Ue in cambio degli hotspot nell’Odissea dei migranti. 
Il testo della risoluzione è poco più che simbolico, tuttavia in aula c’erano religiosi e esponenti della comunità armena che hanno alzato un esplicito cartello: «Grazie». Così, per la prima volta, la Bundesrepublik si allinea ufficialmente agli altri 20 Paesi che stigmatizzano il genocidio armeno come sancito fin dal 1985 dalla Commissione diritti umani dell’Onu e ratificato due anni dopo dall’Europarlamento. 
Il documento approvato ieri utilizza esplicitamente il termine tabù in Turchia per il massacro di oltre un milione di cristiani armeni nel 1915 da parte dell’impero ottomano, all’epoca alleato dei tedeschi. Pulizia etnica a cavallo del Caucaso, stragi senza pietà, deportazione dei pochi superstiti. Ciò che restava dell’Armenia venne inglobato nell’Urss alla fine della prima guerra mondiale. 
E tutt’oggi la Turchia ammette solo gli «eccessi di patriottismo» ma non transige sulla responsabilità del primo genocidio dell’età contemporanea.
Tant’è che alla vigilia del voto a Berlino centinaia di turchi hanno manifestato con tanto di bandiere nazionali di fronte alla Porta di Brandeburgo, a due passi da parlamento e cancelleria. Fino all’ultimo momento utile il premier Binali Yildirim ha messo in guardia i deputati tedeschi, chiamati nominalmente ad alzare la mano: «Sarà, a tutti gli effetti, un vero e proprio test sull’amicizia dei nostri Paesi». 
Ma alla fine si sono fatti convincere solo in due: un contrario e un astenuto. Ed è scattata la «ritorsione»: il vice premier Numan Kurtulmus non ha digerito «un errore storico» mentre Yasin Aktay, influente portavoce dell’Akp, minaccia perfino un contro-voto al Parlamento turco.
Merkel (che a fine aprile era in visita ufficiale nel campo profughi di Gaziantep) non si scompone, come sempre: «C’è molto che lega la Germania alla Turchia e anche se abbiamo una differenza di opinione su una singola questione la solidità della nostra amicizia e dei nostri legami strategici è troppo importante». 
Così nella conferenza stampa congiunta con Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, di cui Ankara fa parte. La vera partita però si gioca a Bruxelles. Martin Schulz, presidente del parlamento europeo, gela senza tanti complimenti le speranze del primo passo della Turchia nell’Ue: «La proposta della Commissione Junker per liberalizzare i visti dei turchi è ferma sulla mia scrivania. 
Il Parlamento non ne discuterà finché tutte le 72 condizioni richieste non saranno soddisfatte dal governo di Ankara. Sono loro che rischiano di far saltare il patto». Si tratta dello scambio deciso a marzo: finanziamenti dell’Europa per disinnescare l’emergenza migranti con l’offerta di libera circolazione dei cittadini turchi. Come ribadito dal ministro turco per gli affari europei Omer Celik «si tratta di un unico pacchetto: non abbiamo alcuna intenzione di modificare la nostra legislazione anti-terrorismo». 
Ma a Bruxelles è decisivo risolvere il problema della rotta balcanica: di qui l’intesa con la Turchia (che sarebbe un «paese sicuro» anche se persegue i curdi, i giornalisti non allineati e i non islamisti) impegnata a riprendere i migranti irregolari in cambio dei profughi siriani in Europa. 
Così la risoluzione sul genocidio armeno riaccende la crisi politica. Sul punto, tuttavia, la coalizione tedesca è però perfino più larga, mentre il capogruppo Cdu Volker Kauder fa quadrato intorno alla cancelliera: «Il nostro obiettivo non è mettere sotto accusa la Turchia, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo. E il fatto che la Turchia stia facendo notevoli sforzi per aiutare l’Ue a gestire la crisi dei migranti non cambia il fatto che agli armeni furono imposte sofferenze indicibili».

Nel Bundestag i demoni della storia
di Bernardo Valli Repubblica 3.6.16
IL SILENZIO del Bundestag sul genocidio degli armeni poteva apparire una complicità storica dei tedeschi con i turchi. I nostri pensieri non sono sempre lineari. La storia ci insegue e a volte i suoi demoni ci riacciuffano. Mentre undici Parlamenti europei si erano già pronunciati, riconoscendo il genocidio, quello di Berlino taceva. Quasi fosse inchiodato da una specie di omertà, in favore di un vecchio e nuovo alleato, qual è la Turchia. In realtà il sospetto va declassato. Il dubbio era infondato. Non solo perché il voto quasi unanime di ieri ha infine condannato il genocidio, definendolo tale. La Germania si è allineata ai Paesi amici e alleati, come la Francia e l’Italia, riconoscendo che un secolo fa si trattò di uno sterminio pianificato degli armeni, nonostante la Turchia ufficiale e larga parte della società continuino a considerarlo un (semplice) massacro provocato da una guerra civile. I parlamentari tedeschi sanno quanto sia importante assumere e analizzare le proprie colpe, anche quelle lontane nel tempo, comprese quelle condivise passivamente con gli alleati se sono crimini contro l’umanità, e quindi non potevano rinviare più a lungo il voto di ieri.
I Verdi avevano preparato il documento da tempo; pare che la Cancelliera l’avesse approvato già dall’anno scorso, ma che l’opportunità diplomatica ne avesse ritardato la presentazione al Bundestag. Dove, oltre ai Verdi promotori, anche i socialdemocratici dell’Spd, i cristiano democratici e cristiano sociali della Cdu e della Csu, componenti della grande coalizione, erano pronti a sottoscriverlo. Il presidente della Repubblica, Joachim Gauck, aveva anticipato l’idea nell’aprile 2015, mentre a Erevan, in Armenia, veniva ricordato il genocidio, alla presenza di tanti capi di Stato. Ma poi gli avvertimenti di Ankara, dello stesso presidente Recep Tayyip Erdogan, devono avere provocato qualche crampo. Circa tre milioni di turchi, in gran parte cittadini tedeschi, vivono in Germania. Numerosi sono gli interessi economici, finanziari, industriali, culturali tra i due Paesi. Ed era in gestazione l’accordo sui profughi, firmato nel marzo scorso con l’Europa ed ora in corso. Angela Merkel ne discuteva con Erdogan.
Non si può accusare la Cancelliera di debolezza davanti alle intemperanze dell’interlocutore turco. Lo ascolta, accoglie alcune sue richieste non prive di arroganza, come accettare che un attore tedesco impertinente con lui possa essere giudicato da un tribunale in patria, ma al tempo stesso manda il suo ambasciatore nel tribunale di Istanbul per verificare come vengono processati i giornalisti turchi denunciati da Erdogan. E in visita ufficiale in Turchia riceve e discute con gli oppositori e gli intellettuali che Erdogan detesta. Capita che Angela Merkel si pieghi ma subito raddrizza la schiena.
Ieri tuttavia non era in Parlamento al momento del voto. Né c’era il vicecancelliere, il socialdemocratico Sigmar Gabriel. Né il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Assenze vistose in una seduta del Bundestag in cui era all’ordine del giorno la valutazione di tragici avvenimenti avvenuti un secolo fa, che riemergendo provocano collere e minacce. Come se si trattasse di una plateale, controversa revisione della storia. Non votando personalmente una risoluzione tanto carica di significati, è come se Angela Merkel avesse fatto capire che lei non aderiva del tutto all’iniziativa del suo partito e degli alleati di governo. Ha dunque dovuto subire quel che aveva formalmente approvato, il 31 maggio, durante una riunione del gruppo parlamentare? Il comportamento non era degno della Cancelliera con la schiena dritta. E comunque in questa occasione non una Cancelliera di ferro.
Erdogan ha manifestato la sua stizza richiamando in patria l’ambasciatore a Berlino. E ha annunciato altri gesti di ritorsione. Ritirò provvisoriamente altri ambasciatori quando i Parlamenti europei votarono per il genocidio. Ma poi li rimandò al loro posto. Lui e il suo governo islamo-conservatore non hanno alcun legame ideologico con i “giovani turchi” promotori del genocidio che fece più di un milione di morti. Ma il nazionalismo, l’orgoglio turco e calcoli di politica interna creano una forte solidarietà con quei predecessori. Anche perché nel Paese persiste l’allergia alle minoranze. Gli armeni di oggi sono i curdi, sia pure in un contesto diverso, perché i curdi al contrario degli armeni nel 1915 e ’16 si difendono, reagiscono. Combattono.
Redatto da Cem Ozdemir, di origine turca e copresidente del gruppo dei Verdi al Bundestag, il documento appena approvato condanna anche il deplorevole ruolo del Reich tedesco, che in quanto principale alleato dell’Impero ottomano non ha fatto nulla per impedire il crimine contro l’umanità. In realtà i tedeschi occupavano posti di rilievo nell’esercito turco impegnato nella Guerra mondiale, quando avvenne il genocidio. Il generale Fritz Bronsart von Schellendorf era vice capo di stato maggiore e firmò ordini di deportazione degli armeni poi massacrati. E altri ufficiali impegnati in Turchia più tardi occuparono posti di rilievo nel Terzo Reich. Rudolf Höss è stato comandante del campo di Auschwitz, e Konstantin von Neurath, che aveva esercitato un comando nella Quarta armata ottomana, negli anni Trenta era Obergruppenführer nelle SS. Nel giugno 1915, l’addetto navale a Costantinopoli, Hans Human, scriveva: «Per il complotto con i russi gli armeni sono più o meno sterminati. È duro ma necessario».
Lo storico Michael Hesemann spiega il comportamento di Pio XII durante la Seconda guerra mondiale con la sua esperienza nel 1915. A quell’epoca il futuro papa Pacelli aveva un importante incarico nella Segreteria di Stato, in Vaticano, e fu testimone dei due interventi di Benedetto XV in favore degli armeni presso il sultano Mehmet V. Il risultato fu che l’eccidio si intensificò. Più di un quarto di secolo dopo Pio XII, ospitò tanti ebrei nelle chiese e istituzioni cattoliche, ma non denunciò lo sterminio nazista nel timore di avere un effetto negativo, come il suo predecessore. Questo dice lo storico, la cui tesi avvalora il fatto che il genocidio degli armeni fu in qualche modo il preludio all’Olocausto. Per questo capita di immaginare i demoni della storia, ieri, nella democratica aula del Bundestag. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il regista Atom Egoyan: “Ammettere la complicità svela le menzogne della Storia”
“Il coraggio di Berlino aiuta a cancellare l’oblìo del mio popolo” intervista di Arianna Finos Repubblica 4.6.16
«DOPO la condanna tedesca il governo turco non potrà continuare a negare il genocidio armeno. Perciò aspetto con ansia il prossimo passo». Il regista Atom Egoyan, canadese di origine armena, si batte da sempre per mantenere viva la memoria dell’eccidio, che ha anche raccontato nel pluripremiato Ararat.
Cosa pensa della decisione del Bundestag?
«La Germania ha dato prova di grande autorità morale, con un altro esempio straordinario di come ha saputo riconciliarsi con un capitolo oscuro del proprio passato. È stata alleata dell’Impero Ottomano e c’è una forte evidenza della sua consapevolezza, della complicità nel Genocidio Armeno. Che fu una sorta di prova generale di Olocausto: i tedeschi impararono dai turchi come sotto la copertura della guerra si potesse perpetrare un crimine come quello».
Perché la decisione è arrivata proprio ora?
«Non l’avrei immaginato, infatti. Ho letto libri, visto documentari tedeschi, so che nel paese si discuteva. Ma è stato molto coraggioso farlo in un momento tanto delicato, e senza trarne vantaggi, anzi. La Germania ha bisogno più che mai, con l’emergenza immigrazione, di avere un buon rapporto con la Turchia. Ma ha vinto il desiderio morale di riconoscere i propri errori».
Che significa per gli armeni, per lei?
«È un grande momento. Anche se non sentiamo più, come un tempo, che il nostro è stato un genocidio dimenticato, dopo il riconoscimento dello scorso anno e la dichiarazione di papa Francesco. Resta la tristezza per tutti gli armeni morti pensando che il loro dramma era stato negato e dimenticato. In troppi hanno creduto di morire sepolti nell’oblio».
La sua vita e il suo cinema sono influenzati dal trauma del genocidio.
«Aver subito uno sterminio di massa è qualcosa che ti accompagna per sempre. Un trauma che, ancor più se negato, si tramanda attraverso le generazioni. Ma se siamo arrivati al traguardo di oggi è anche grazie all’impegno di intellettuali e artisti armeni che hanno tenuto viva la memoria anche quando il mondo sembrava indifferente. Non c’è un altro evento di questa portata che sia ancora negato: l’Unione sovietica ha ammesso i crimini di Stalin, i giapponesi affrontano il massacro di Nanchino. La decisione tedesca consegna una lezione fondamentale».
Quale?
«Che anche se chi ha perpetrato un crimine continua a negarlo, esiste la possibilità di un riconoscimento internazionale. E che se si insiste nel rifiutare la menzogna, le cose possono cambiare. Oggi viviamo in una comunità globale in cui ciascuno è responsabile anche delle azioni, e trasgressioni, degli altri. I miei film hanno sempre affrontato il tema della verità: bisogna fare i conti con il passato, anche il più crudele. Nascondendolo, è la nostra umanità a venire distrutta».
Il governo turco ha reagito con durezza.
«Era prevedibile. Non si vuole credere di essere stati capaci di tali orrori. Ma è assurdo continuare a dipingersi come vittime delle menzogne dell’Occidente. Va anche detto con chiarezza che ogni popolo si può rivelare capace di azioni come queste, tutti dobbiamo restare in guardia. Per anni noi canadesi abbiamo creduto di essere stati più umani e giusti degli Usa verso i nativi. Poi abbiamo scoperto che non era così, e abbiamo affrontato le conseguenze di questa terribile verità».
In Turchia qualcosa sta cambiando...
«Ci sono associazioni, ma anche individui coraggiosi che non vogliono più chiudere gli occhi. La scorsa estate ero in Turchia e sono rimasto impressionato dal cambiamento: fino a dieci anni fa la questione non sarebbe stata nemmeno affrontabile».
Con chi avrebbe voluto condividere questo giorno?
«Con mia nonna. È stata un’orfana del genocidio. La canzone principale del film Ararat si chiama Yeraz, “sogno” ed era dedicata a lei. Volevo che lei, ovunque fosse, potesse vedere dove siamo arrivati oggi. Da ragazzina, dopo il “grande trauma”, non sapeva nemmeno dove fosse nata e chi fossero i suoi genitori. Ecco, mi piacerebbe che ora sapesse che la sua storia è ancora viva».

Il genocidio degli Armeni Il Bundestag e il primato democratico sulla diplomazia
di Montesquieu Il Sole 4.6.16
Il voto del parlamento tedesco sul “genocidio” degli armeni suggerisce alcune riflessioni di tipo istituzionale. La politica estera dei singoli stati , e nel suo insieme la politica internazionale, propongono in misura del tutto particolare il tema del rapporto tra principi ed interessi , tra ideali e convenienze.
La prima riporta a un aspetto fondamentale di tutte le democrazie di tipo parlamentare: quel voto esalta in modo esemplare l’autonomia del parlamento tedesco rispetto al governo, e anche la supremazia delle decisioni del potere legislativo su quello governativo. E quindi attesta, in un ideale check up democratico, la buona salute della separazione dei poteri in quell’ordinamento. Se è vero che le decisioni di politica estera spettano in via ordinaria ai governi, l’intervento delle camere delimita in modo dirimente il campo d’azione dell’esecutivo . Per intenderci , oggi il governo federale tedesco non potrebbe pronunciarsi in termini negativi rispetto all’ipotesi del “genocidio”, nemmeno per derubricarlo al livello del meno insopportabile, per le stesse autorità turche, concetto di “sterminio”. La differenza tra i due termini sta nella finalità di cancellazione di un popolo, insita nell’idea di genocidio, ma non necessariamente presente in quella di sterminio. La seconda riflessione riguarda la difficile relazione tra princìpi e interessi, tra ideali e convenienze: relazione spesso difficile, nei rapporti tra stati, perché esposta a ritorsioni soprattutto di tipo economico. Non è difficile attribuire alla totale assenza della cancelliera Merkel dal dibattito parlamentare la volontà di salvaguardia dell’intreccio di interessi politici ed economici che legano alla Turchia la Germania e l’Unione europea, soprattutto in questo momento. Come dire: i genocìdi non sono da condannarsi in sé , ma in relazione alla capacità ritorsiva dello Stato responsabile. E , quanto a capacità di reazione, la Turchia non ha davvero rivali. Nella seconda metà degli anni ’90 l’ambasciatore turco a Roma fece due visite al segretario generale pro tempore della camera: la prima per diffidare la camera stessa dall’ospitare una delegazione del parlamento curdo in esilio, la seconda dal discutere una mozione sul genocidio armeno, primo firmatario l’ex-ministro Pagliarini . È immaginabile che, accanto alle minacce ritorsive ufficiali, in tutti i Paesi che hanno affrontato questo tema intimidazioni sottotraccia di questo tipo siano state largamente praticate. L’Italia deve alla sensibilità democratica del presidente Mattarella il gesto ulteriore di avere ricevuto in forma ufficiale – unica alta autorità nazionale - il capo del governo armeno in visita nel nostro paese.

Si può notare, in sintesi, che le ragioni dell’economia sempre più spesso tendono a sopraffare i princìpi ai quali le istituzioni dovrebbero attenersi. Soprattutto nelle crisi economico-sociali, sempre più devastanti, spesso decisive anche per le sorti delle competizioni politiche dei singoli paesi. E quindi non c’è da stupirsi per le condotte spesso oscillanti e opache delle diplomazie, e della stessa Unione europea: ma il limite del rispetto dei princìpi democratici non dovrebbe mai essere oggetto di baratto. Soprattutto quello del rispetto dei diritti individuali e delle basi dello Stato di diritto: ed è davvero timida e tenue, e a volte inavvertibile, la reazione delle grandi democrazie - e della più grande in particolare, quando si tratta dello Stato turco -, a fronte dei giornalisti imprigionati e condannati, delle testate soppresse, dei magistrati destituiti e sostituiti;di intere comunità cristiane - ormai si definiscono “cripto cristiani”, ad esempio quelli del Ponto - costrette a nascondere le propria fede e a fingersi se non a diventare musulmani; di intere minoranze, come quella curda - che sono colpite e inquadrate nel mucchio del giusto contrasto alle condotte terroristiche dell’estremismo curdo. Anche in territori stranieri . E tanto d’altro; per cui a volte, per avere ospitalità nella comunità democratica, di altro non si viene richiesti se non della forma embrionale delle democrazie, il voto popolare. Tanto sta concedendo l’Unione europea, ad esempio, alla Turchia .

Ma attenzione: c’è una differenza di fondo, tra economia e democrazia, tra le molte altre: l’economia è la scie nza dei cicli, non c’è crisi economica cui non segua una ripresa, e viceversa. La democrazia si perde una volta sola, e non riparte da sé, se non al costo di prezzi altissimi. Ben maggiori di quelli prodotti dalla più devastante recessione o crisi economica.



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