giovedì 9 giugno 2016

Imprenditoria italiana stracciona e parassitaria: nel XXI secolo siamo sempre il paese del lavoro a domicilio e sottopagato

Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilioTania Toffanin: Fabbriche invisibili, ombre corte

Risvolto
All'interno delle abitazioni, in tutti i paesi del mondo, donne di ogni età lavorano per l'industria manifatturiera: scarpe, abiti, gioielli, componenti informatici, giocattoli sono solamente alcune delle merci prodotte. Attraverso questa forma di produzione le lavoratrici a domicilio assicurano cura ai propri familiari e sostengono il reddito familiare, spesso senza un adeguato riconoscimento economico e sociale. Lavorando a casa esse riducono il costo del lavoro delle imprese e sopperiscono alle lacune dello stato socio-assistenziale. Considerata marginale all'interno del sistema manifatturiero, questa forma di produzione ha invece resistito al passaggio di tre rivoluzioni industriali, adattandosi ai continui cambiamenti associati alla divisione internazionale del lavoro. Tuttavia, nonostante la diffusione sperimentata a livello globale, questa forma di produzione è stata studiata in modo piuttosto discontinuo e principalmente in corrispondenza di periodi recessivi. Per contro, a domicilio le donne hanno continuato e continuano a produrre per l'industria manifatturiera anche nei periodi di maggior crescita economica, a riprova del ruolo cruciale detenuto da questa forma di produzione all'interno dell'economia globale. 

L’altra metà del made in Italy 

SCAFFALE. «Fabbriche invisibili» di Tania Toffanin per ombre corte. Il lavoro a domicilio è svolto soprattutto da donne.Un’inchiesta nel distretto calzaturiero del Veneto 

Roberta Ferrari Manifesto 9.6.2016, 0:05 
«Noi lavoranti a domicilio abbiamo speso ognuna un milione; per 10.000 che siamo equivale a 10 miliardi per comprare “le nostre fabbriche casalinghe”, cioè le macchine. In compenso, quasi nessuna ha il libretto di lavoro, perciò dopo anni di schiena rotta, niente pensione». Era il 9 marzo del 1968, la società, come si diceva all’epoca, viveva in funzione della fabbrica ed essa estendeva il suo dominio a tutta la società. Il lavoro a domicilio avrebbe raggiunto di lì a poco il punto di massima diffusione e cominciava a uscire almeno in parte fuori dalle mura domestiche. Sindacati, leghe operaie, inchieste dedicate al lavoro femminile cominciavano a occuparsi di quello che fino a poco prima era stato considerato solo un fenomeno residuale, una strategia per arrotondare, una forma di resistenza al disciplinamento della fabbrica, spesso illusoria: padrona del luogo di lavoro, schiava del tempo di lavoro. 
Il libro di Tania Toffanin (Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, ombrecorte, pp. 223, euro 18) comincia proprio con questa premessa: «il lavoro manifatturiero a domicilio non è un fenomeno ma una forma di produzione». L’analisi sociologica non si ferma a una valutazione quantitativa del lavoro a domicilio ieri e oggi, ma grazie a un’approfondita analisi storica porta alla luce tanto le condizioni politiche in cui si è dato – il sistema patriarcale che favorisce il mancato riconoscimento del lavoro delle donne, domestico e a domicilio, le forme paternalistiche di management industriale – quanto il contesto economico e sociale in cui esso si sviluppa, prende pienamente forma e rimane anche in tempi più recenti, nei processi di delocalizzazione in specifiche aree di produzione.
Per l’autrice non si tratta infatti di ricostruire una tipologia di lavoro protoindustriale, quanto piuttosto di mostrare come in tempi e luoghi diversi il lavoro a domicilio è l’emblema della coesistenza di regimi di produzioni pre-fordisti, tayloristi/fordisti e post-fordisti, ovvero inseriti in una nuova divisione internazionale, tecnica e sessuale del lavoro, caratterizzata da forme diverse di decentramento produttivo. Mettere in luce il rapporto di funzionalità tra lavoro a domicilio e sviluppo capitalistico significa comprendere quali sono i suoi caratteri produttivi essenziali: il pagamento a cottimo, che nega di fatto l’autonomia nei tempi di lavoro, il dominio assoluto e unilaterale del padrone sui livelli salariali, l’assenza di controlli e di regolazioni sufficienti tanto legislative quanto sindacali, che esclude le donne anche dalle conquiste operaie.
Il libro dedica un capitolo all’analisi delle relazioni di produzione e riproduzione in quello che veniva chiamato il «distretto calzaturiero veneto», ricostruendo un profilo dell’area indagata sia attraverso l’esame dei dati, sia servendosi di un’indagine condotta in due fasi tra fine anni novanta e inizio duemila, e tra 2012 e 2015. L’autrice intervista le «mistre», la manodopera di mestiere, del settore calzaturiero tra Padova e Venezia, uno dei luoghi in cui oggi si sono insediate le aziende più note dell’alta moda come Prada, Armani, Louis Vuitton, Christian Dior. 
Sono molte le migranti che anche in Italia lavorano ancora a domicilio, basti pensare alle camiciaie cinesi della Bolognina o di Prato, in concorrenza con le mistre della Riviera del Brenta di cui ci parla l’autrice.
Nella stessa «fabbrica invisibile» lavorano, dall’altro capo del mondo, le fabbricatrici di pizzo di Narsapur, legate alle mistre venete o cinesi dalla stessa catena globale di sfruttamento. Proprio per il fatto di rappresentare il nesso tra manodopera a basso costo non sindacalizzata e industrializzazione diffusa, il lavoro a domicilio anche oggi, nelle sue dimensioni ridotte ma non meno alienanti nei paesi industrializzati, e dislocate e occultate in quelli «in via di industrializzazione», diventa una lente con cui leggere trasformazioni che investono tutto il lavoro. Prima di tutto la stretta relazione tra territorio e struttura produttiva resa possibile da una forza-lavoro com’è quella femminile, spesso anche migrante, centrale nel processo di accumulazione, e che viene così sottratta, oggi come ieri, allo spazio conflittuale della fabbrica: «quando ero in fabbrica era come se avessi avuto una finestra aperta sul mondo, perché si discuteva di tutto quello che succedeva (…) ero sempre la prima a scioperare, ma ora non posso mica farlo da sola». Da questo punto di vista, il lavoro a domicilio ha anticipato tendenze tipiche della precarizzazione degli anni duemila e dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro. 
Anche dopo la sua regolazione nel 1973, il lavoro a domicilio ha continuato a essere laboratorio di irregolarizzazione del lavoro, oltre che di informalizzazione dei rapporti di potere: le donne venivano costrette a iscriversi all’Albo degli artigiani di modo che le imprese potessero sfruttare l’apprendistato come un contratto di lavoro vantaggioso, una pratica tornata assai in voga di recente. Oggi infatti possiamo dire che lavoro informale e formale si nutrono l’uno dell’altro grazie a un’irregolarizzazione che si muove indifferentemente su entrambi i canali di produzione.
La ricerca mostra come senza il lavoro delle donne, segregato in casa e a basso costo, non esisterebbe né made in Italy né alta moda italiana sul mercato globale. Da questo punto di vista il mito etico del made in Italy è solo un mito. Il lavoro a domicilio ha permesso al capitale industriale di conservare a lungo due caratteristiche cruciali per il suo sviluppo: l’ideologia della domesticità, necessaria alla riproduzione della forza lavoro maschile contrattualizzata, e il lavoro irregolare a basso costo impiegato in segmenti produttivi particolari, perché necessari per la produzione di merci non standardizzate. Mettere al lavoro l’angelo del focolare, portare la catena accanto alla cucina, permette non solo la segregazione delle donne, ma la doppia svalutazione simbolica e monetaria del loro lavoro nella sfera produttiva e in quella riproduttiva: un doppio disconoscimento e un duplice sfruttamento. 
Fabbriche invisibili non è la fotografia in bianco e nero di un mondo del lavoro scomparso o sommerso, ma ci mostra il lato oscuro della luna: tanto del capitale, quanto delle lotte sul lavoro. Il pregio del libro è infatti non solo quello di portare alla luce una forma di produzione occultata e di metterla in connessione e in tensione con quel lavoro riproduttivo di cura ancora oggi delegato alle donne. Col venir meno dello Stato sociale, oltre a essere gratuito e non riconosciuto, il lavoro domestico viene peraltro esternalizzato e venduto ad altre donne, al prezzo di una monetizzazione dei servizi che si regge sulla dequalificazione del lavoro femminile e sui bassi salari di tutte, lavoratrici in casa o fuori casa, producendo una catena di sfruttamento globale su cui si muove un patriarcato altrettanto globale e tutt’altro che in crisi.
Il punto di forza dell’analisi di Toffanin è proprio quello di far valere il ruolo di questa parte della forza lavoro, le donne, nella ridefinizione del processo di accumulazione capitalistica. Il lavoro a domicilio svolto dalle donne è cioè, ancora oggi, rilevante soprattutto per quello che ci dice su tutto il lavoro. * Una versione più lunga della recensione sarà pubblicata su connessioniprecarie.org

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