giovedì 16 giugno 2016

La fine della sinistra storica e il "momento populista". Il borsino del voto dei Vip centrosinistri appassiona la stampa italiana: Hegel vota Fassino


Per il prof. Zagrebelsky, che dovrebbe farci vincere il referendum costituzionale, Hegel vota Fassino [SGA].

“Pronto, ciao sono Maria Elena” Boschi alla cornetta per Giachetti
«Ci devi dare 5 nomi di gente che accompagnerai ai seggi, così noi possiamo verificare»di C. Bertini, G.a. Falci La Stampa 17.6.16
Ora lo sforzo si ingigantisce, l’ultimo miglio può sembrare una montagna da scalare, ma Bobo Giachetti ci prova fino all’ultimo, perché «ce la possiamo giocare per mille voti». Per dare l’esempio alle nove di sera si chiude con la Boschi nel suo comitato di San Lorenzo a fare telefonate, «dobbiamo chiamare tutti, ex compagni di scuola, ex fidanzate, se riusciamo a convincere due persone a testa ce la giochiamo sul serio», azzarda la testimonial del governo. Dopo i discorsi entrano nel salone con i volontari e chiamano il primo. Tal Marcello. «Sono Giachetti, non è uno scherzo, cosa farai domenica? Non andrai al mare? Ti passo una persona». «Ciao, sono Maria Elena, ti do del tu anche se non conosco la tua età. Quante persone riuscirai a convincere per il voto di domenica? Cinque? Allora vogliamo i nomi, così dopo li chiamiamo per verificare». Si fa il numero di un Fabio che è occupato. Poi si tenta con Stefano, lei prova a convincerlo, «mi raccomando prova a portare un po’ di persone...». Insomma il clima è questo, un porta a porta telefonico che in queste ore coinvolge tutti i deputati romani chiamati in causa.
Giachetti le prova tutte: prova a fare il pieno a sinistra con l’effetto immagine che può avere un incontro a braccetto col sindaco di Cagliari appena neoeletto, icona degli amministratori di Sel. O magari rendendo pubblici forse oggi altri tre nomi della sua eventuale giunta, che avranno sempre il profilo di quelli già noti, da Turco a Rossi Doria. Tentando però di pescare in tutti i bacini, a destra e a manca, perché dopo la penalizzazione al primo turno per gli errori del passato, dopo il voto di protesta che pure è comprensibile, tutti quelli che hanno votato Meloni e Marchini e Fassina devono rendersi conto che la scelta è tra «una mano ferma» che sa governare la città e «un’avventura» che può rivelarsi disastrosa. Questo il messaggio che tenta di far passare Giachetti. E per questo il candidato di un Pd dilaniato dai veleni ieri per dare un segnale ai compagni si è fatto vedere con il sindaco più di sinistra di tutta la compagine eletta nell’era Bersani, cioè il cagliaritano Zedda. «Il mio è un appoggio da sinistra sperando in una ricomposizione a Roma, perché anche in politica stare a casa da separati non va bene». Primo assist. Secondo, un graffio alla Raggi. «Sono qui con Giachetti anche perché Cagliari è inserita nel dossier olimpico di Roma 2024 per quanto riguarda la vela. Non so cosa abbia fatto l’insegnante di educazione fisica a Virginia Raggi, magari non la faceva giocare a pallavolo, sennò non si capisce perché odia così tanto lo sport». Poi si passa ad un incontro con Delrio, che promette il prolungamento della metro B da Rebibbia a Casal Monastero. E infine al meeting con la Boschi. «Come tento la zampata? Solo convincendo uno ad uno gli elettori. Infatti giro le periferie con i pulmini, mi muovo a tappeto su territorio perché sappiamo che si gioca su un voto. Dunque dobbiamo fare in modo che chi è andato votare al primo turno torni al seggio. E bisogna riuscire a entrare nel fronte di destra e di sinistra». Anche se su quello dei compagni si sente più coperto. «E’ stato un processo lento ma c’è stato un posizionamento di qualcuno di Sel», nota speranzoso il candidato renziano.
I suoi punti cardine sono quelli dei si e dei no «a una città che ha bisogno di riscatto: io posso esser in grado di fare le Olimpiadi senza far danni, con il no la città si paralizza». Per dirla con il capo della sua campagna, Luciano Nobili, «ora la gente deve capire che il cambiamento vero di pratiche del passato ci sarà con noi, non con la Raggi». Nel Pd incrociano le mani e pregano per il miracolo.

La sinistra Marginale e divisa ma ora scommette sulla sconfitta di Renzi
di Sebastiano Messina Repubblica 17.6.16
MAI COME in queste elezioni la sinistra radicale ha avuto un ruolo così marginale. Cinque anni fa quest’area esprimeva il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e quello di Cagliari, Massimo Zedda, e faceva parte delle alleanze che vincevano a Torino, a Bologna, a Trieste e poi a Roma. Lo scenario è profondamente cambiato. L’alleanza con il Pd ha resistito solo a Cagliari – ma solo perché anche stavolta il candidato era il vendoliano Zedda – e a Trieste, forse per un soprassalto di coerenza asburgica. A Milano e a Bologna la sinistra radicale si è clamorosamente divisa, mentre a Roma è rimasta orgogliosamente fuori dal vero campo di gioco.
E oggi - a due giorni dai ballottaggi che riguardano le prime quattro città d’Italia, più l’ex roccaforte rossa – questa divisione è diventata ancora più lacerante. Perché se a Milano l’area che comprende Sel, Rifondazione, Possibile, L’Altra Europa e i Comunisti Italiani alla fine si sta schierando con Sala (ma solo «per votare contro chi non si vuol far vincere » come ha detto Basilio Rizzo, candidato sindaco escluso al primo turno) a Torino e a Bologna ha prevalso la linea di una surreale neutralità e a Roma Fassina s’è fatto scappare di preferire la Raggi, prima di rifugiarsi in una diplomatica scelta per la scheda bianca.
La verità è che la sinistra radicale, nelle sue variopinte sigle, ha scelto queste elezioni locali per lanciare il suo primo attacco a Matteo Renzi, evitando di andare fino in fondo solo dove avrebbe dovuto rinnegare i suoi stessi sindaci (Milano e Cagliari). Il suo piano è di vincere comunque, festeggiando sia la sconfitta dei candidati di Renzi, sia il successo di chi ce la farà con il suo appoggio. Ma se le cose non andassero proprio così, il sogno di dar vita a un soggetto forte a sinistra del Pd sfumerebbe per molte lune. 

Il campo del populismo democratico 

Ballottaggi. Si deve aprire un campo popolare, ancora inesplorato. La battaglia si gioca tutta nell’ambito del populismo. Dagli equilibri interni a questo campo sorgeranno istituzioni nuove 

Tommaso Nencioni Manifesto 16.6.2016, 23:57 
Da anni ormai, in occasione di ogni tornata elettorale, si registra un mancato sfondamento delle liste di sinistra, pur in presenza di un vistoso e progressivo scivolamento verso il centro del Partito democratico. 
Non scatta insomma nessun automatismo che permetta agli eredi più radicali della tradizione del movimento operaio italiano di conquistare una parte del campo lasciato libero dall’ala che a quella vicenda si richiama in maniera ormai sempre più sbiadita. Anche quando quest’ultima patisce una netta emorragia di consensi. 
I voti in libera uscita ingrossano le cifre o dell’astensione, o di movimenti che tendono a sfuggire agli schemi politici dell’ultimo ventennio. 
Il fatto è che se a questo scenario, ormai costante, si continua a guardare da un’ottica tutta elettoralistica, si corre il rischio di non riuscire mai a sciogliere il rompicapo, ed anzi di adagiarsi nella speranza che lo smottamento del voto popolare dal Pd finirà prima o poi, come per inerzia, per rianimare chi di quei voti si presenta come l’erede designato. 
Per capire che di illusione si tratta, basta una piccola radiografia del voto, e ci accorgiamo che, dal punto di vista della sociologia elettorale, la percezione che si ha delle due componenti della sinistra non varia di molto: il fenomeno che nelle grandi città caratterizza il voto democratico, asserragliato nei quartieri borghesi e “civilizzati” e volatilizzato nelle periferie “degradate” riguarda, in sedicesimo, anche le liste radicali. 
Bisogna dunque provare ad allargare lo sguardo e, a costo di essere schematici, a leggere l dinamiche elettorali alla luce dei grandi sconvolgimenti sociali dell’ultimo quarto di secolo. Perché la politica o si dà l’obiettivo dello sbocco in termini egemonici del conflitto sociale o è destinata ad una deriva tecnocratica che la svuota di ogni senso (a proposito dell’ondata di astensionismo in auge in tutta Europa…). 
La crisi del ciclo lungo del fordismo – che ha trovato nell’eclatante esplosione del 2008 un’epifania di fenomeni in atto da almeno un trentennio – ha prodotto sul conflitto sociale una doppia conseguenza: da una parte la sua proliferazione, il suo allargamento cioè a fasce della società che nella stagione precedente avevano composto quella “classe media” che aveva costituito il cemento ideologico e materiale di un assetto egemonico in espansione; dall’altra la sua perdita di centro: il blocco storico imperniato sulla classe operaia, a causa della crisi della grande fabbrica fordista e di modelli antichi di socialità, oltre che di una serie di sconfitte politiche, si è frantumato. Dunque un conflitto più esteso, che però ha perso in capacità di proiezione egemonica ciò che ha guadagnato in termini di estensione. 
Di fronte a queste tendenze, come hanno reagito i gruppi dirigenti di sinistra? Direi che, a seconda delle tradizioni, ha oscillato tra una risposta di tipo residuale ed una di tipo impolitico. La risposta impolitica è stata propria dei movimenti sorti già da decenni sull’onda dello scoppio della prima “crisi spia” del sistema fordista (gli eredi del “lungo Sessantotto”). 
Questo tipo di risposta ha forse fatto prima e meglio i conti con il carattere pluralistico assunto dal conflitto sociale nella nuova stagione, ma si è come adagiata su questa intuizione, nell’illusione che la dilatazione degli ambiti del conflitto fosse destinata ad assumere di per sé un carattere “neo-costituente”, e eludendo quindi la necessità di elaborare chiare ricette di natura politica e sociale – anzi, sviluppando un certo grado di subalternità alla costruzione dell’Europa reale come via acriticamente obbligatoria dalla quale passare nel processo di allargamento del conflitto. Nel frattempo, le esigenze storiche dei subalterni venivano come fagocitate dal carattere pluralistico del conflitto, fino a divenire quasi afone. 
La dimensione orizzontale del conflitto “plurale” non va demonizzata, perché è quello il campo all’interno del quale è necessario operare la ricomposizione di un blocco storico, nuovo, di opposizione alla feroce avanzata della contro-rivoluzione neo-liberale. Ma per produrre un cambiamento di largo respiro è altrettanto necessario, e urgente, mettere in campo un progetto che contempli anche la dimensione verticale dell’egemonia, della trasformazione delle strutture sociali e istituzionali. 
La risposta residuale ha consistito nella difesa dei residui del blocco storico di riferimento tradizionale, sempre operante ma in fase di progressivo sgretolamento. 
Chi ha sposato questa risposta, ha operato per limitare i danni, una rincorsa impossibile a porre delle toppe su un corpo ferito da fenomeni incalzanti di redistribuzione verso l’alto della ricchezza e del potere di classe. Di qui l’oscillazione tra il radicalismo che le sofferenze imposte ai ceti subalterni suggerivano e la subalternità al richiamo coalizionale, perché comunque accettando quel terreno ci sarebbe stato sempre un “meno peggio” da evitare. Un tipo di risposta che ha caratterizzato soprattutto gli eredi della sinistra storica, che un po’ ovunque hanno visto assottigliarsi le proprie fortune elettorali in parallelo con l’erosione del blocco sociale che si intendeva rappresentare. 
Al di là degli steccati della sinistra storica, si deve aprire un campo popolare ancora inesplorato di rappresentazione politica del conflitto, rompendo anche qualche tabù (tra cui l’importanza della leadership e dei canali di contro-informazione di massa). La disgiuntiva che ora si presenta tra la difesa delle istituzioni e la resa al populismo è una falsa disgiuntiva. 
Le istituzioni storicamente poste a garanzia dell’avanzamento dei ceti subalterni sono state svuotate: ne resta solo un guscio vuoto che si vuol riempire di contenuti autoritari. 
Allora forse la battaglia si gioca tutta nell’ambito del populismo. Dagli equilibri interni a quel campo sorgeranno istituzioni nuove. Se non si investe sulla messa in campo di un progetto populista democratico, si lascerà terreno fertile per un populismo autoritario ed escludente che rischia di forgiare le istituzioni di domani.

Sinistra modello Zedda o Lucifero
Verso i ballottaggi. Caccia ai voti, a Renzi ora piacciono anche quelli «che godono a perdere». Il sindaco di Cagliari oggi forse a Roma con Giachetti. Polemica sul presidente di Italianieuropei, ma in molti la pensano come lui la minoranza insorge: «Vogliono addossare a noi l’eventuale insuccesso a Roma»ROMA16.6.2016, 23:59
Una sinistra modello Massimo Zedda o una sinistra modello «Lucifero»? All’avvicinarsi dell’ora X dei ballottaggi di domenica prossima, il Pd tenta il tutto per tutto per recuperare voti da quella sinistra alla quale il premier-segretario Renzi si era fin qui rivolto con disprezzo definendola «quella che gode a perdere».
Ma ora tira una brutta aria nel Pd. C’è chi giura sull’esistenza di sondaggi che segnalano l’allarme rosso nelle tre principali città che vanno al secondo turno, Milano Torino e Roma. Per questo ora il premier segretario fa due passi indietro per evitare di far perdere i voti ai suoi candidati. E a loro volta i candidati democratici ora cercano il voto della sinistra-sinistra.
E così è successo che Massimo Zedda, il golden boy di Sel vittorioso a Cagliari sin dal primo turno, unico a passare subito nelle città capoluogo, martedì sera è volato a Milano al fianco dell’ex sindaco Giuliano Pisapia per sostenere la corsa di Beppe Sala. E oggi con ogni probabilità volerà a Roma per schierarsi al fianco di Roberto Giachetti, il candidato Pd che sta tentando una rimonta impossibile. L’idea dell’incontro pubblico sarebbe venuta al governatore Nicola Zingaretti insieme con lo stesso Renzi negli scorsi giorni. Zedda dovrebbe arrivare oggi pomeriggio direttamente alla Borgata Fidene, periferia nord est della Capitale, che due giorni fa è stata teatro di una rapina in farmacia finita con due feriti, il carabiniere e il ladro. Ieri in serata Giachetti era impegnato nell’ultimo faccia a faccia con Virginia Raggi, quello organizzato da Sky a Piazza del Campidoglio. Per questo fino a tarda serata l’appuntamento non era ancora definito in tutti i suoi dettagli.
Non sarebbe comunque la prima volta che il giovane Zedda, sindaco di una città di 160mila abitanti, viene a dare una mano al candidato della Capitale. Lo aveva fatto anche alla vigilia del ballottaggio del giugno 2013, quello Marino-Alemanno, salendo sul palco insieme a Pisapia, a Debora Serracchiani e allo stesso Zingaretti: tutti amministratori eletti da coalizioni di un centrosinistra che però di fatto ormai è solo un ricordo. Magari non a Cagliari, ma di certo a Roma e a Milano.
E qui parte invece il ragionamento dell’altra sinistra, quella che di votare i candidati Pd non ci pensa proprio.
Ieri per tutta la giornata hanno tenuto banco le dichiarazioni di Massimo D’Alema riportate da Repubblica che si sarebbe detto disponibile a votare «anche Lucifero» pur di mandare via Renzi. Parole smentite: «La ricostruzione è frutto della fantasia del cronista e della volontà dei suoi mandanti», dice una nota della portavoce Daniela Reggiani. Che poi il premier Renzi non ha voluto commentare proprio «in quanto smentite». Parole che la minoranza Pd teme essere state «spinnate» da qualcuno della maggioranza «per addossare a noi l’eventuale insuccesso a Roma», come pensa Davide Zoggia. Il senatore Miguel Gotor allude al presidente Matteo Orfini, il primo a chiedere a D’Alema una smentita.
Senonché in serata è invece il senatore Gaetano Quagliariello a confermare la sostanza della storia raccontando, stavolta alle agenzie, di una recente riunione fra gli esperti delle fondazioni Italianieuropei e Magna Charta per l’organizzazione di un convegno sul bipolarismo italiano. Alla fine della riunione, dice il senatore, «sull’uscio, ci si è fermati a scambiare qualche amena battuta sulla situazione politica, e non sono certo mancate le iperbole e le reciproche scherzose invettive». Dall’invettiva a Lucifero il passo è breve. Il tutto, conclude il senatore, «potrà essere agevolmente confermato da almeno cinque o sei docenti che con me hanno partecipato al siparietto».
Ma se anche D’Alema non avesse mai pronunciato quelle parole, il ragionamento in base al quale è meglio votare «Lucifero» – ovvero gli sfidanti del Pd nelle grandi città, in particolare le sfidanti di Roma e Torino – per azzoppare Renzi sulla strada del referendum costituzionale nella sinistra-sinistra ormai va forte. Lo fanno in molti, magari con qualche giro di parole, senza arrivare all’aperto invito a votare per le candidate Cinque Stelle. Basta leggere quello che scrive Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, sul sito Commo: «Se il nostro obiettivo è quello di vincere il referendum del prossimo ottobre sulla riforma costituzionale, e se riteniamo quella riforma un danno per la democrazia, non si può che accogliere con favore la battuta d’arresto che Renzi riceve dal voto amministrativo».

Centrosinistra e sindrome dello scorpione Marcello Sorgi Busiarda 16 6 2016
Benché abbia smentito di essere pronto a votare a Roma per la Raggi, aiutando la candidata sindaca del Movimento 5 stelle favorita alla vigilia, non ci sono dubbi su cosa abbia in testa Massimo D’Alema, l’avversario più dichiarato di Renzi nel Pd. D’Alema è sicuro che domenica il premier andrà incontro a una brutta sconfitta nei ballottaggi e già adesso cerchi di scaricare su altri il conto che tocca a lui pagare. Non serve neppure scervellarsi per capire ciò che sta accadendo nel partito del presidente del Consiglio.
Se le previsioni della vigilia saranno confermate dai risultati di domenica 19, stiamo per assistere a uno dei più classici suicidi del centrosinistra messi a punto negli ultimi vent’anni, non diverso, forse solo più grave, per coazione a ripetere e compulsività, degne di attenta analisi psicologica.
A seguire il percorso storico: nel ’94, dopo la prima sconfitta contro Berlusconi, Occhetto fu fatto fuori dallo stesso D’Alema, che mal tollerò, poi, la nascita dell’Ulivo e la vittoria di Prodi nelle elezioni del ’96, e provvide a liberarsene, per interposto Bertinotti, nell’autunno di due anni dopo. Sostituendosi a lui alla guida del governo, salvo essere deposto nel 2000 da Veltroni, intanto divenuto segretario del Pds, dopo il magro risultato della tornata di regionali su cui il «leader Maximo» si era pure permesso di scommettere. Prodi aveva fatto in tempo a ricandidarsi, nel 2006, e a vincere di nuovo, sebbene stentatamente, le elezioni contro Berlusconi, che il centrosinistra dopo neanche due anni provvedeva ad azzopparlo. Per mano di Mastella, ministro di Grazia e giustizia inquisito dalla stessa magistratura che doveva governare, e abbandonato alla deriva, ma sotto sotto anche di Veltroni, tornato in auge nel 2007 per costruire, sulle ceneri del centro e della sinistra - Margherita e Ds - il Pd. Acclamato nel 2008 come primo candidato premier del nuovo partito unico del centrosinistra, a Veltroni furono fatali la sconfitta contro Berlusconi e un paio di débâcles in successivi mini-test regionali. Dopo i quali, D’Alema già preparava dietro le quinte l’avvento della segreteria Bersani, a sua volta sepolto dalla «non vittoria» come lui stesso la definì, del 2013, e dalla fallimentare gestione della corsa al Quirinale finita con la rielezione di Napolitano.
Anche Renzi, che allora era soltanto il sindaco di Firenze, fu accusato in quell’occasione di aver armato una pattuglia di pugnalatori per infoltire la schiera dei franchi tiratori che bloccarono l’elezione di Prodi alla Presidenza della Repubblica. Ma questa dei complotti e dei tradimenti orditi e rinfacciati è una costante della vicenda del centrosinistra. E se nelle faide degli ultimi anni le impronte dei killer portano sempre a sinistra, la tecnica è spiccatamente democristiana, tal che si può dire che i Democrat degli Anni Duemila sono diventati gli eredi migliori dell’antica tradizione scudocrociata che fino agli ultimi anni del Novecento vedeva riuniti, a Piazza del Gesù o alla Camilluccia, i capicorrente Dc per trovare il modo di eliminare uno dopo l’altro, con minor spargimento di sangue possibile, il segretario e il presidente del Consiglio pro-tempore, e riaprire la partita interna dando le carte di una nuova spartizione del potere.
Si dirà che anche il centrodestra a un certo punto si è ammalato di faide interne, consunzione e frammentazione, fino a ridursi a pezzi com’è ridotto e a guardare come un miracolo la riunificazione di Milano sotto l’ombrello del tecnico Parisi. Ma alla crisi dell’ex schieramento berlusconiano non fu estranea quella personale del proprio leader, travolto da scandali personali, condanne giudiziarie, dalla decadenza da senatore imposta dalla legge Severino e alla fine anche dalla frettolosa rinuncia al patto del Nazareno e alla politica delle larghe intese con Renzi, che gli aveva consentito di restare a galla, malgrado le avversità e l’evidente conclusione del suo ciclo politico.
Ciò che invece si va delineando nel centrosinistra contiene elementi di novità legati all’evoluzione del quadro politico. A parte la rimarchevole costanza di D’Alema nel ritrovarsi, in situazioni diverse e con qualche annetto in più sulle spalle, nei pressi del patibolo destinato al segretario-premier, a rendere più facili le manovre contro un leader come Renzi, che ha ancora il controllo del partito e del governo, ha contribuito la crisi del bipolarismo e l’avvento del terzo polo rappresentato da M5s. Finché il gioco era centrodestra contro centrosinistra, infatti, e finché l’unico collante di quest’ultimo era rappresentato dall’antiberlusconismo, i complotti nascevano e morivano all’interno dello stesso schieramento, senza o quasi sponde esterne. Mentre adesso, all’ombra dei ballottaggi e degli schieramenti trasversali di avversari interni e esterni, è diventato più semplice colpire Renzi e nascondere subito dopo la mano, scaricando le colpe sull’astensione o sulla destra che vota per i 5 stelle, e spera che gli restituiscano il favore a Milano.
Al di là della tecnica facilitata dall’arrivo del tripolarismo, gli effetti, però, come in passato, saranno gli stessi: grazie alla resa nei conti nel partito e alla defezione (o al tradimento verso i 5 stelle) degli elettori di sinistra, il Pd sarà sconfitto a Roma, a Torino e a Milano - più Napoli, dove ha già perso, e magari Trieste, dove rischia molto. Di conseguenza, dovrà lasciare le amministrazioni di grandi città che da tempo controllava, preparandosi a perdere il referendum costituzionale di ottobre, dato che le due anime del partito si presenteranno schierate sugli opposti fronti del Sì e del No, e a tornare presto all’opposizione, dopo la caduta, difficilmente evitabile a quel punto, del governo.
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Bufera sulla frase di D’Alema
 Pd diviso, i renziani attaccano 
Il presidente del Consiglio: ha smentito, non sono interessato a commentare di Francesca Schianchi  La Stampa 16.6.16
La bomba viene sganciata dalla prima pagina di «Repubblica» di ieri. Un pezzo per descrivere l’ex premier Massimo D’Alema, bersaglio principe di Renzi nella fase della rottamazione, pronto a aderire ai comitati del No al referendum di ottobre, e disposto a votare anche «Lucifero» pur di cacciare Renzi, o più pragmaticamente la candidata del M5S Virginia Raggi alle comunali di Roma. Appena il tempo che la vicesegretaria Serracchiani derubrichi la cosa a «questioni personali» e il presidente del partito, Matteo Orfini, già stretto collaboratore di D’Alema, scriva in un Tweet «spero smentisca al più presto», che arriva la smentita della portavoce dell’ex segretario dei Ds, per le dieci del mattino («frasi mai pronunciate» in cui «l’autore non precisa né dove, né quando né con chi sarebbero state dette»), con tanto di velenosa allusione a presunti «mandanti», si immagina filo-governativi, del giornale. Che, prontamente, conferma invece tutto quanto, respingendo sdegnato la «grottesca» ipotesi di mandanti esterni.
Ci prova lo stesso Orfini, a quel punto, a mettere un punto alla vicenda («polemica chiusa», scrive), ma ormai il caso è scoppiato, e non sarà la nota dalemiana a chiuderlo. Perché l’episodio riporta alla luce tensioni e diffidenze reciproche tra minoranza e maggioranza del partito. Con i renziani che considerano la notizia verosimile, ma per lo più tacciono per cercare di sopire le polemiche alla vigilia dei ballottaggi – con qualche eccezione: «Berlusconi sostiene Marchini, D’Alema la Raggi, ora sai chi è il nuovo: vota Giachetti», twitta il senatore renzianissimo Cociancich - e la minoranza che invece definisce la polemica «misera» (Cuperlo) e sospetta una qualche «manina» all’opera nella diffusione di notizie per incolpare poi loro di un’eventuale sconfitta: «Informazioni fatte filtrare ad arte per vedere se si riesce a scaricare le responsabilità» sulla minoranza, dice chiaramente il bersaniano Davide Zoggia. 
Renzi in persona, in conferenza stampa, scansa la polemica: «D’Alema ha smentito queste dichiarazioni e comunque non sono interessato a commentare le dichiarazioni altrui». Un tentativo di chiudere, per ora, la questione. Che invece monopolizza la giornata politica: è l’ex ministro Gaetano Quagliariello, in serata, a lamentare le dodici telefonate ricevute da cronisti per avere informazioni, essendo stato lui presente alla riunione in cui D’Alema ha fatto «qualche amena battuta sulla situazione politica» con qualche «iperbole e scherzose invettive», scrive. Da cui le notizie che hanno terremotato la giornata politica di ieri. E che i Cinque stelle guardano da lontano senza dargli granché peso: «Se è vero quel che viene scritto, il voto di D’Alema per Raggi sarebbe un voto in più a Roma – minimizza Carlo Sibilia - Ci sembra una partita tutta interna al Pd».

Pensiamo a far vincere i candidati dem senza creare imbarazzi
I leader restano sullo sfondo ma le tensioni sono in agguato di Massimo Franco Corriere 16.6.16
In extremis, la politica nazionale sembra defilarsi dal palcoscenico dei ballottaggi di domenica. Dopo avere dominato il primo turno delle Amministrative, i leader debbono avere capito che in alcuni casi la loro presenza è ingombrante, se non controproducente. Sfuma a livello locale la presenza di Matteo Renzi, proiettato sulla scena internazionale; e inseguito da presagi elettorali contrastanti. Silvio Berlusconi è reduce da una seria operazione al cuore, in ospedale. Perfino Beppe Grillo, nella nuova veste di «garante» del Movimento 5 Stelle, rimane sullo sfondo: pronto al massimo a benedire una vittoria di Virginia Raggi a Roma.
È il segno di un’incertezza diffusa, nel centrodestra e nel centrosinistra; e insieme di tensioni represse solo per qualche giorno. Ma c’è da scommettere che siano pronte a riaffiorare con virulenza fin da lunedì. Accanto allo smarcamento dei candidati dai vertici nazionali, e viceversa, si intravedono già gli indizi di quella che si preannuncia come una pesante resa dei conti: in primo luogo nel Pd. La defezione della minoranza del partito dalla giornata di oggi con la quale il governo vuole celebrare l’abolizione di misure come Imu e Tasi suscita polemiche. L’assenza finisce per legittimare di fatto gli attacchi del M5S contro quello che chiama «balle Pd Day».
E in caso di sconfitta a Milano, o magari a Torino, lo scontro interno si inasprirà. La sagoma del «lanciafiamme» evocato da Renzi contro i suoi avversari potrebbe materializzarsi, accusando i vari Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Gianni Cuperlo di non essersi impegnati abbastanza; o, peggio, di avere remato contro i candidati sindaci del partito. Si tratta di uno scontro che promette di aggravare la spaccatura tra i Dem; e di rilanciare le voci di una scissione. La minoranza vede negli avvertimenti di Palazzo Chigi un segno di debolezza e di nervosismo.
Per questo definisce le accuse di «diserzione» come il tentativo di trovare un capro espiatorio preventivo dopo una campagna elettorale punteggiata da errori e sbavature. L’allusione è a qualche battuta infelice di alcuni membri del governo su tagli dei finanziamenti alle città che dovessero «tradire» il Pd. È un’impressione che Renzi corregge dicendo: «Lavoreremo con i sindaci di tutti i colori politici». Ma i distinguo costanti tra i Dem sottolineano una situazione quasi surreale; e allungano ombre sul referendum costituzionale di ottobre. La volontà di sterilizzare le conseguenze del voto di domenica può riuscire se, perdendo magari la capitale, il Pd vince a Milano, città strategica.
Altrimenti, lo scossone sarà inevitabile. Non significa che sarà messo in discussione il governo. Ma potrebbe imboccare il binario del logoramento. Per questo, la vera sfida consisterà non solo nel contare e pesare i municipi vinti o persi, ma nell’analizzare con lucidità e freddezza il segnale che arriverà dal Paese. Non sarà facile, eppure non c’è altro modo per riprendere in mano una situazione avviata su una china scivolosa. Leggere correttamente i risultati servirà a riprendere una strada vincente verso il referendum, «la madre di tutte le battaglie», a sentire Renzi. Fraintenderli, invece, offrirà a un «partito del no» all’attacco un supplemento di forza. 

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