giovedì 9 giugno 2016

La legge sulla Verità Storica di Stato e sull'Antisemitismo Ideale Eterno è stata approvata alla Camera. Papa Zagrebelsky è d'accordo

Negazionismo In carcere da due a sei anni
La Stampa 9.6.16
Manette per chi inciterà al negazionismo o al genocidio: lo prevede la legge definitivamente approvata dalla Camera. Reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La reclusione andrà da 6 mesi a 4 anni per chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: chi partecipa rischia da 6 mesi a 4 anni di prigione, che saliranno da uno a 6 anni per chi quelle associazioni promuove o dirige. È prevista la reclusione da 2 a 6 anni se propaganda, istigazione e l’incitamento si fondano «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra».

La memoria e la Storia di fronte al male
La Camera approva la legge sul negazionismo. Con quali conseguenze sulla ricerca?

ALBERTO MELLONI Restampa 9 6 2016
Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano. Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni. Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si rende responsabile.
Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.
Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra, disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.
Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001 prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.


Negazionismo la legge che fa litigare gli storici 
Dire che la Shoah o un altro genocidio non è avvenuto è reato Ma può un tribunale giudicare il passato?

SIMONETTA FIORI Restampa 10 6 2016
Chi nega la Shoah pubblicamente può essere punito con il carcere. Il negazionismo è diventato reato. Dopo nove anni di discussioni, di svariati rinvii tra i due rami del Parlamento, di vibranti appelli firmati dagli storici contrari, la Camera ha definitivamente approvato la proposta di legge che punisce il negazionismo con una pena da due a sei anni di reclusione.
Sotto il profilo giuridico, si tratta di una modifica apportata alla legge Mancino (legge 654 del 1975) che già puniva «la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale»: la modifica consiste nell’inasprire la pena nel caso in cui la propaganda sia fondata sul negazionismo, che diventa così un’aggravante. Ma non è chiamata in causa solo la negazione della Shoah. Pene più aspre anche per chi diffonda ideologie razziste fondate sulla «negazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». E qui toccherà ai tribunali dirimere questioni su cui la stessa comunità scientifica non ha mai trovato un accordo. Cosa distingue uno “sterminio” dal “quasi sterminio”? A che punto scatta la “nozione di genocidio”? «Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussioni possa finire in tribunale», ha dichiarato in passato Carlo Ginzburg nel contestare l’opportunità di una legge. E anche i giuristi si interrogano sull’opportunità del provvedimento quando la Corte di Strasburgo specie sui crimini diversi dall’Olocausto è sempre più favorevole alla libertà di espressione, contro i paletti posti dai diversi paesi. «Tutta la storia del Novecento rischia di finire in tribunale», sostiene Marcello Flores, direttore dell’Istituto storico della Resistenza. «E secondo quali criteri i giudici decideranno cos’è un crimine contro l’umanità e cosa non lo è?».
Si chiude così una storia infinita cominciata nel 2007, quando l’allora ministro della Giustizia Mastella avanza una proposta di legge per uniformare l’Italia ad altri ordinamenti europei (tra gli altri Germania, Austria, Belgio, Francia e Spagna). Quasi unanime la contrarietà manifestata dagli storici italiani tanto da indurre Palazzo Chigi a frenare sul dispositivo: il negazionismo è un fenomeno preoccupante, sostennero gli studiosi, ma si combatte con strumenti culturali, non penali. Sei anni più tardi, nel 2013, il Pd ripropone l’opportunità della legge. L’iniziativa appare legata a una suggestione emotiva, la tempestosa sepoltura dell’aguzzino Priebke che coincide con il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto. Ancora una volta, la quasi totalità degli storici denuncia i pericoli del provvedimento, tra gli altri «la trasformazione dei processi in cassa di risonanza per tesi ignobili». La legge fu messa da parte ma non per molto. E anche tra gli studiosi non sono mancate voci favorevoli alla necessità di una iniziativa legislativa, «che certo non risolve immediatamente il problema, ma può favorire una presa di coscienza da parte dei più giovani», ha sostenuto Anna Rossi-Doria. Ora l’ultima definitiva puntata, con l’approvazione della legge fortemente voluta dalla comunità ebraica. A festeggiare è soprattutto il presidente dell’Ucei Renzo Gattegna, che plaude a «un fondamentale strumento nella lotta ai professionisti della menzogna ». Soltanto il tempo potrà dire se è stata solo un’illusione.


PERCHÉ SÌ

Non sono opinioni ma propaganda per nuovi crimini 

GUIDO CRAINZ
Ho seguito con disagio il dibattito sollevato dalla legge sul negazionismo, con una crescente difficoltà a riconoscermi nell’opinione quasi unanimemente ostile degli storici (ha fatto eccezione Anna Rossi-Doria con un importante contributo ad un convegno su questo tema, e nell’intervista che le ha fatto di recente Simonetta Fiori per questo giornale). Il disagio è inevitabile, credo: è difficile considerare sostanzialmente positiva una legge giudicata da amici e colleghi come liberticida. È difficile resistere ad appelli contro di essa che hanno visto il confluire di veri maestri della storiografia e di giovani e appassionati studiosi. Eppure una legge contro la negazione della Shoah a me sembra fondata, mentre la sua estensione ad altri casi mi lascia enormi dubbi.
Sono molte le argomentazioni messe in campo contro la legge in sè: contro una sorta di “verità di Stato” e contro norme volte a colpire la libertà di ricerca e di opinione (e sia pure l’opinione più aberrante). In più forme si è affermato che la battaglia per la verità storica si fa nelle università e nei luoghi di cultura, non nei tribunali; che le “verità ufficiali” sono proprie dei regimi totalitari; e che la legge può essere sin dannosa, creando la convinzione che il problema sia stato risolto una volta per tutte e possa quindi essere accantonato e rimosso. A me sembra che queste e altre argomentazioni, non prive di ragioni, rischino però di eludere un nodo di fondo: stiamo parlando di libero pensiero o di falsificazioni colossali, intrise di evidenti finalità politiche e “pratiche”? È “libertà di espressione” accusare le vittime di aver “inventato il mito” delle camere a gas e di essere dei miserabili mentitori? È possibile ignorare i nessi evidenti fra il negazionismo e il deliberato alimentare umori e pulsioni antisemite? O rimuovere il fatto che nei casi più radicali è l’esistenza stessa dello Stato di Israele che si vuole colpire, rianimando i peggiori demoni della storia contemporanea? Su questo nodo centrale a me sembra difficile nutrire dubbi, e non occorre neppure ricordare che il grande convegno negazionista di dieci anni fa non si svolse in una sede scientifica ma alla corte di Ahmadinejad, a Teheran: quell’Ahmadinejad che univa la denuncia della “menzogna sulla shoah” alla volontà di annientare lo Stato di Israele (furono molto diverse le logiche che portarono all’utilizzo di un falso colossale ed evidente come i Protocolli dei Savi Anziani di Sion?). Per questo mi sono faticosamente convinto che è giusto punire per legge il negazionismo sulla Shoah (e mi sembra invece sbagliata una estensione del reato): per l’unicità della tragedia e per la connessione diretta fra il negazionismo e l’intento di dare nuovo e criminale impulso all’antisemitismo.
Certo, hanno ragione gli oppositori della legge, è arduo e pericoloso tracciare il confine fra l’esposizione di un’idea e l’incitamento all’odio o la promozione di un reato, ma il negazionismo sulla Shoah mi sembra averlo abbondantemente varcato. Negarla, insomma, non mi appare l’espressione di un’opinione ma la perpetuazione di quel crimine in altre forme, e la possibile incubazione di altri crimini. E i crimini non si combattono solo con la diffusione delle idee giuste e dei principi di legalità: si combattono anche con le sanzioni. Si combattono introducendo in modo formale un profilo di legittimità e di illegittimità, e questo la legge mi sembra fare (in modo imperfetto e talora discutibile, ma non vorrei che i limiti oscurassero la sostanza). Lo penso e lo scrivo con il pudore sempre necessario in questi casi ma con l’assoluta convinzione che all’antisemitismo — di destra e di sinistra — non possano essere concessi varchi. Mai e in nessun luogo, a partire da quelli dell’educazione (e senza dimenticare le vergogne che circolano in internet). Certo, una legge non risolve il problema: separa però ciò che è lecito da ciò che non lo è; e non chiude ma apre semmai ulteriori vie al diffondersi di prese di coscienza collettive. C’è da interrogarsi piuttosto sulle chiusure reciproche che vi sono state, a me sembra, fra dibattito parlamentare e dibattito degli storici: non è stato comunque un buon segno.
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PERCHÉ NO

Le idee e la ricerca non devono essere censurate 

ANNA FOA
Ecosì, alla fine, la legge sul negazionismo è stata definitivamente approvata dal Parlamento italiano ed è diventata legge anche in Italia. Ero, e continuo ad esserlo, tra quanti ritenevano questa legge un errore. Un errore sotto due diversi aspetti, quello della ricerca storica e della libertà di pensiero e quello dell’effettivo risultato che una legge del genere può portare. Cominciamo dal primo di questi due aspetti, quello che può sembrare meno importante, a torto perché implica una deroga ai principi fondamentali del nostro assetto politico e culturale. Con questa legge, infatti, si passa oltre quelli che erano i limiti della legge Mancino, legge che non era una legge su reati d’opinione, contrariamente a quanto sostenevano i suoi detrattori, che puniva chi diffondeva in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o incitava a commettere atti di discriminazione o violenze per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ora, la modifica inserita per colpire il negazionismo introduce forti aggravanti ove questi atti di razzismo si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». Si introduce così una forte ipoteca da parte dei tribunali e della legge sulla ricerca storica e sulla libertà di scrivere e pubblicare, una sorta di via aperta verso una verità decisa dall’alto. Infatti, chi stabilirà che cosa rientra nei reati previsti? Chi deciderà se uno scritto, una ricerca, un libro di storia si basano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o degli altri genocidi? Questo è un salto nel vuoto molto grave.
È ancora più grave, io credo, proprio perché la legge è volta a difendere la memoria della Shoah e non invece il razzismo o l’antisemitismo. Si fonda cioè sulle buone intenzioni. Ma come la mettiamo con la legge polacca che commina la galera a chi offenda nei suoi scritti l’onore della Nazione, reato per cui è stato nel dicembre incriminato lo storico Jan Tomasz Gross, autore di ricerche importanti sulla Shoah e l’antisemitismo in Polonia? Vi sembra che si tratti davvero di misure di natura tanto diversa?
Per quanto riguarda il risultato di questa legge, chi l’ha sostenuta mira, credo, più che altro a un effetto deterrente. Non mi immagino infatti che ci saranno in Italia processi importanti, anche perché i negazionisti italiani sono veramente personaggi senza rilievo, meri antisemiti che si ricoprono di dignità storica e che dovrebbero soltanto essere lasciati nell’oscurità dove ora vegetano. Invece è possibile che con questa legge assumano un rilievo che non meritano, diventino martiri della libertà delle idee, dimentichino di essere i figli di chi i libri li bruciava in piazza per diventare tutti degli eroi della libertà. Mi auguro proprio che non vorremo dar loro tutto questo spazio. Più o meno, questo è il risultato che le leggi contro il negazionismo hanno avuto nei paesi d’Europa in cui sono state varate: una crescita del negazionismo e dell’antisemitismo, in tutte le sue sfaccettature.
Il negazionismo non si combatte nelle aule dei tribunali, ma nella ricerca, nella scuola, nell’insegnamento. Nelle aule dei tribunali si processano i perpetratori, non i loro esangui epigoni a tavolino, a meno che non si voglia diffonderne le idee e far loro da cassa di risonanza. La Shoah è l’evento storico più documentato della storia. Da dove abbiamo assunto l’idea di aver bisogno di leggi per proteggerne la memoria, invece che di docenti che ne insegnino le vicende, che riescano a creare negli studenti passione e interesse? Si è preteso di sostituire lo studio con le celebrazioni, ora si pretende di sostituire alla ricerca storica e all’insegnamento la censura e le aule dei tribunali. Facciamo attenzione almeno ad una cosa: non deleghiamo a questa legge, che ormai esiste e con cui bisognerà fare i conti, l’insegnamento del Novecento, lo studio della storia del nazismo, dei genocidi, delle violenze di massa. Continuiamo ad insegnarli, a studiarli, a trasmetterli. Continuiamo ad insegnare, insomma, anche se pensiamo di avere un’aula di tribunale che protegge le nostre ricerche.
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Negazionismo, dal Parlamento legge corretta
di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa 11.6.16
La questione del negazionismo suscita forti contrapposizioni da quando diversi Parlamenti, tra cui quello italiano, hanno preso a definire in termini di genocidio l’uno o l’altro massacro subito da intere popolazioni. In Europa si tratta in particolare del genocidio ebraico, la Shoah, e di quello armeno. Al giudizio storico si è aggiunta la previsione di una sanzione penale per chi neghi tali genocidi. Vedere Parlamenti e maggioranze politiche decidere e per tutti stabilire la verità di fatti storici e la loro natura ha subito allarmato gli storici di professione e le loro associazioni.
Essi hanno messo in guardia contro le verità di Stato e il rischio che venga impedita la libertà della ricerca storica e negata la possibilità stessa della continua revisione dei dati e giudizi acquisiti.
La preoccupazione legata alla libertà della ricerca e della discussione storica, nonché delle valutazioni politiche che vi sono collegate, è giustificata, ma non è la sola. Si può negare un genocidio affermando che i fatti che lo costituirebbero non sono mai avvenuti (o non sono avvenuti nei modi e nelle dimensioni che si affermano), oppure ammettendo che i fatti sono veri, ma non costituiscono genocidio. Le stragi di cui un popolo è stato vittima sono genocidio, secondo i trattati internazionali che lo definiscono, se chi le ha commesse è mosso dall’intenzione di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Il primo caso è quello che riguarda coloro che negano la Shoah: evidente e provata essendo l’intenzione dei nazisti e dei fascismi loro alleati di distruggere il popolo ebraico, i negazionisti sminuiscono, mettono in dubbio, contestano i fatti. Il secondo caso è quello del genocidio armeno ove i negazionisti più accorti e le versioni ufficiali turche, non negano la realtà delle migliaia di uccisi, ma rifiutano l’intenzione di sterminare il popolo armeno. Non quindi di genocidio, ma di guerra tra popoli nemici si sarebbe trattato. Chiara è la differenza tra i due diversi negazionismi. Essa contribuisce a rendere arduo un problema difficilmente affrontabile con lo strumento della legge penale, invece che con il duttile ma non inutile mezzo della condanna e dell’isolamento etico e sociale di chi nega l’evidenza dei genocidi. Questa differenza ha recentemente richiamato la Corte europea dei diritti umani nel decidere che aveva violato la libertà di espressione la condanna penale di un attivista turco che in una serie di conferenze tenute in Svizzera, aveva sostenuto che le stragi di armeni erano state momenti di guerra e non strumento di intenzione genocidaria da parte delle autorità turche.
Stretto dall’obbligo di dare esecuzione alla norma europea che impone agli Stati membri dell’Unione di sanzionare chi neghi la realtà dei genocidi e dalla preoccupazione di non interferire con la libertà delle opinioni e della ricerca storica, il Parlamento italiano è ora giunto a una soluzione che evita forse i maggiori problemi. La nuova norma penale non punisce il negazionismo (la negazione della verità) in quanto tale, ma ne fa motivo di aggravamento della pena quando si presenti come modalità di quello che è il vero cuore del reato: la diffusione in modo concretamente pericoloso di idee di superiorità o di odio razziale o etnico, l’incitamento a commettere atti di violenza o di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e l’istigazione a commettere violenze o atti di provocazione alla violenza. E’ così fatta salva la libertà di espressione e di ricerca storica e la negazione dei genocidi diviene un modo e un’aggravante dell’istigazione alla violenza e alla discriminazione razziale, etnica o religiosa. La punibilità dell’istigazione dipenderà dalla concretezza dei comportamenti e dalle espressioni usate. Le forme e le argomentazioni sono importanti, così come l’incidenza della singola vicenda storica nel contesto. La negazione di una lontana tragedia storica che ha colpito un popolo, difficilmente suscita ora emozioni, capaci di spingere a discriminazioni o violenze razziali o religiose. Diverso è il caso di chi nega la realtà e la natura della Shoah. La negazione infatti si accompagna sempre a forme di antisemitismo e entra profondamente in conflitto con le radici etiche dell’Europa attuale, segnata dal crimine di cui è stata capace. Giustamente quindi il legislatore ha espressamente nominato la Shoah, non impegnandosi invece nell’elencare gli altri genocidi la cui negazione può diventare un modo di istigazione all’odio e alla violenza razziale o religiosa. Per questi altri genocidi la norma ora approvata rinvia alla definizione contenuta nello statuto della Corte penale internazionale, che fonda il crimine di genocidio sull’intenzione di distruggere un intero popolo. Saranno i giudici a farsi storici e a dover dire, volta per volta, se si tratta di genocidio e se negandolo si commette istigazione all’odio o alla violenza. Il che resta una non piccola difficoltà. 

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