mercoledì 8 giugno 2016

La lotta di classe della Cina contro l'asse imperialistico


Lite Berlino-Pechino pronto lo stop allo shopping cinese 
Il governo Merkel potrebbe varare subito una legge per impedire l’acquisto in settori strategici nazionali
TONIA MASTROBUONI Restampa 9 6 2016
Fine di un idillio? La Germania guarda con crescente preoccupazione agli appetiti della Cina per le aziende tedesche. Dopo che la cifra sborsata quest’anno dal Dragone per fare shopping nella maggiore economia europea sta superando ogni primato, il governo Merkel ha deciso di partire al contrattacco. Nei giorni scorsi ha fatto rumore la decisione del ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel di bloccare il tentativo di acquisire un gioiello della robotica come Kuka, per la quale il Midea Group è pronto a sborsare 5 miliardi di dollari.
E ieri il vicecancelliere socialdemocratico ha suggerito che servano “regole più severe per investitori di economie restrittive”, con chiaro riferimento alla Cina.
Gabriel sta anche cercando un consorzio di aziende tedesche che formuli una controproposta per Kuki e ne scongiuri il passaggio in mani straniere.
Soprattutto, secondo un’indiscrezione del settimanale Zeit, il governo potrebbe approvare quest’estate una legge neo-protezionista che consentirebbe di estendere a molte imprese il concetto di “azienda strategica” per impedire acquisti dall’estero. Finora l’esecutivo può bloccare un investitore straniero soltanto se rischia di mettere a repentaglio la sicurezza esterna o interna. L’obiettivo è alzare un muro anche nel caso si miri ad un’impresa che rappresenti “un interesse economico-strategico”; sicuramente lo sono i gioielli dell’automazione tedesca, specifica il settimanale.
Ma il concetto sembra piuttosto arbitrario ed estendibile a qualsiasi impresa, formulato così.
Guai, poi, a chiamarlo con il suo nome: protezionismo. Per ora, una fonte governativa citata dalla Zeit nega si tratti di forme di tutela speciale per le imprese tedesche e rivela che la preoccupazione deriverebbe dall’interesse spasmodico del Dragone per il cosiddetto “mittelstand” tedesco, per determinate medie imprese ad alta tecnologia.
Un dettaglio non da poco: il governo ammette di temere che la Cina scippi ad una delle economie più avanzate, dal punto di vista tecnologico, il suo primato.
Dall’inizio dell’anno, secondo dati Dealogic, i cinesi si sono già comprati 24 aziende tedesche e il sorpasso di quota 28, raggiunta l’anno scorso, sembra scontato. A metà maggio il valore delle acquisizioni ha raggiunto i i 9,1 miliardi, un multiplo dei 2,6 miliardi spesi in Germania nel 2015.
Ma lunedì scorso la Camera di commercio della Ue in Cina si è lamentata invece della crecente ostilità del Dragone nei confronti delle aziende straniere. E l’irritazione per la presunta mancanza di reciprocità torna spesso, nelle parole di politici tedeschi, quando si riferiscono al mercato cinese.
Non si annuncia semplice, insomma, l’imminente, nono viaggio in Cina della cancelliera Merkel. Ufficialmente, gli incontri a Pechino previsti tra il 12 e il 14 giugno — ci saranno almeno 7 ministri tedeschi tra cui il responsabile delle Finanze Wolfgang Schäuble — segnano il quarto incontro interministeriale tra i due giganti dell’export. Una consuetudine avviata nel 2011 e che serve a misurare la temperatura dei rapporti tra due Paesi che sono sempre stati forti partner commerciali.
Alla luce della preoccupazione di Berlino per il dumping cinese sui prezzi dell’acciaio che potrebbe mettere in difficoltà Thyssenkrupp, ma anche dei timori che le imprese del Dragone stiano facendo shopping in Germania per carpirne i segreti tecnologici, stavolta il termometro potrebbe segnare febbre.
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Le troppe ambiguità di Pechino
La decisione di Bruxelles. La concessione del Mes avrebbe pesanti conseguenze occupazionali

di Fabrizio Onida Il Sole 8.6.16
A distanza di 15 anni dalla firma del Protocollo (1° novembre 2001) che ha siglato l’ingresso della Cina fra i Paesi membri della Wto, il Paese non è certo oggi una piena “economia di mercato”. Basta pensare anche solo al primo dei cinque requisiti, che recita «non interferenza del governo nelle decisioni operative delle imprese» (requisito che per la verità non sarebbe scontato anche per molti Paesi capitalistici occidentali…). USA e Giappone hanno già fatto capire che per loro la Cina continuerà a essere «economia-non-di-mercato», anche se già dal 2013 più di 30 Paesi (fra cui Australia, Russia, Corea del Sud, Sud Africa) hanno concesso alla Cina il Mes (Market economy status). Ma per l’Europa sarebbe alquanto rischioso staccarsi dalla posizione americana, in una fase in cui stiamo faticosamente portando avanti il confronto sul Ttip.
Il Parlamento Europeo ha già chiesto alla Commissione di non riconoscere il Mes alla Cina alla scadenza del 10 novembre 2016 prevista dall’art. 15 del Protocollo di 15 anni fa. Non scatta comunque alcun automatismo, dal momento che lo stesso art. 15 prevede che il riconoscimento del Mes è subordinato «alla legge nazionale del paese importatore membro della Wto», cioè della Ue. Il timore, fortemente sottolineato dai produttori europei di alcuni settori (acciaio, tessile, ceramica, chimica, elettronica, carta) è che le 51 misure europee di difesa anti-dumping attualmente in vigore contro la Cina (con dazi che variano dal 15 a più dell’80% su singoli prodotti), dovrebbero essere cancellate o fortemente ridimensionate, mettendo a rischio centinaia di migliaia di posti lavoro e la sopravvivenza di importanti catene produttive domestiche. Secondo stime dell’Economic policy institute di Washington, basate su un modello che include le complesse interdipendenze a monte e a valle fra settori manifatturieri e di servizi interessati, una concessione unilaterale del Mes alla Cina metterebbe a rischio da 1,7 a 3,5 milioni di posti lavoro in Europa nei prossimi 3-5 anni.
Tutto scontato dunque per la diplomazia europea? Non del tutto perché si tratta di una scelta politica che deve tenere conto di vari aspetti, al di là dell’emotività e delle poco concludenti dispute legali circa l’interpretazione dei testi.
Primo, per le esportazioni extra-UE la Cina è ormai il secondo mercato di sbocco, quindi eventuali ritorsioni commerciali cinesi (approvate dalle regole Wto) potrebbero in futuro mordere su molti settori europei e italiani oggi ben felici di soddisfare la domanda di beni di consumo e di tecnologie in una delle aree mondiali a maggior crescita. Un piccolo ma pericoloso precedente è la ripetuta condanna della Ue da parte del tribunale d’appello Wto nel recente caso EC Fasteners (viti e bulloni). Anche se una posizione allineata Ue-Usa troverebbe la Cina in posizione di relativa debolezza nel minacciare ritorsioni pesanti.
Inoltre Cina e Hong Kong assieme sono ormai secondi solo agli Usa come fonte degli investimenti diretti mondiali, investimenti che il nostro governo cerca comunque di attrarre. Uno scontro sul Mes introduce notevoli attriti nel negoziato bilaterale Ue-Cina sulla protezione degli investimenti.
Secondo, le regole Wto prevedono che, in presenza di reali (o minacciati) gravi danni al proprio tessuto produttivo e occupazionale, ogni paese importatore può introdurre legittimamente dazi e misure di salvaguardia anti-dumping e anti-sussidio anche contro altre «economie di mercato», per la durata di cinque anni o più. È pur vero che la concessione del Mes comporterebbe da parte europea il non facile (a dir poco) reperimento di dati su prezzi e sussidi praticati dalla Cina, mentre lo stato di «economia-non-di-mercato» consente l’uso di ampi margini di arbitrio nel definire l’entità dei dazi. L’industria europea e americana chiede di essere rassicurata sulla robustezza delle barriere attuali di difesa dal dumping cinese, anche se ciò può implicare non poca incertezza sull’esito dei ricorsi in appello da parte cinese.
Last but not least, non sono pochi i settori europei produttori ed esportatori di prodotti complessi che sono felici di utilizzare prodotti intermedi importati dalla Cina, come semilavorati metallurgici, meccanici e chimici. Parliamo di autoveicoli e altri mezzi di trasporto, elettromeccanica, elettrodomestici, elettronica, chimica fine, arredo: tutti settori la cui voce oggi sembra assente, ma la cui competitività internazionale è obiettivamente penalizzata da dazi europei anti-dumping e anti-sussidio più pesanti di quelli imposti da Paesi non europei con cui competiamo sui mercati mondiali. Una parziale eccezione è stato il recente appello alla commissaria europea Cecilia Malmström da parte di 21 associazioni europee di produttori di attrezzature fotovoltaiche, per chiedere l’eliminazione dei prezzi minimi di importazione dalla Cina di componenti come celle fotovoltaiche, inverter e altri.
In conclusione, la materia va trattata con decisione, ma insieme con grande flessibilità diplomatica, aprendo un lungo confronto per rassicurare i produttori italiani ed europei più minacciati dall’oggettiva concorrenza dell’offerta cinese. Non è da escludere un riconoscimento del Mes accompagnato da precise condizioni ed eccezioni a difesa. Come suggerisce Guido Gentili (Il Sole 24Ore del 14maggio) occorre individuare una soluzione politica a tutto tondo, senza compromessi al ribasso per l’Europa ma evitando che Pechino si senta tagliata fuori dal confronto. 

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