lunedì 6 giugno 2016

L'edizione integrale della "Biblioteca" di Fozio



Il fervido e indomito recensore bizantino 
Edizioni filologiche. La prima traduzione italiana integrale della «Biblioteca» del patriarca Fozio, vissuto nel IX secolo, per le Edizioni della Normale: a cura di Nunzio Bianchi e Claudio Schiano, direzione scientifica di Luciano Canfora
Federico Condello Alias Manifesto 29.9.2016, 20:00 
«Il solo bizantino che stia alla pari di Aristotele», «la figura più rappresentativa della civiltà bizantina», «un personaggio di primo piano della storia europea». Forse ci si stupirà a leggere questi o analoghi giudizi su Fozio, figura non a tutti familiare, la cui vita attraversa quasi intero il nono secolo. Ma sono giudizi che dobbiamo a bizantinisti insigni, dal tardo Ottocento ai nostri giorni (in ordine: Karl Krumbacher, Paul Lemerle e Nigel Wilson). Se l’autorità profana non basta, valga quella sacra: Fozio fu due volte patriarca di Costantinopoli, nell’857-867 e nell’877-886, e per circa 250 milioni di fedeli, quelli della Chiesa Ortodossa, egli è San Fozio il Grande. La Chiesa d’Occidente l’ha santificato, diciamo così, a rovescio: con la scomunica, con la calunnia, con la censura. Si capisce: uno tra i più violenti prodromi al «grande scisma» del 1054 reca il nome di «scisma foziano»; e fu un capitolo rilevantissimo, più che della teologia, della geopolitica internazionale, in una partita la cui posta in gioco era il controllo di ampi territori fra i Balcani e la Bulgaria. E Fozio ne fu primattore politico ancor prima che dottrinario: colto e facoltoso rampollo di una famiglia perseguitata dagli iconoclasti – un bel blasone, a regime ormai mutato – dopo una bruciante carriera da alto funzionario entrò d’un balzo, come gli rimproveravano i suoi critici, nella Chiesa; salì, cadde, risorse, e si destreggiò benissimo fra avvicendamenti d’imperatori e anatemi di papi. Ancora nel 1911, l’autore della voce «Fozio» per la Catholic Encyclopedia, il prete-militante Adrian Fortescue, lo definiva a denti stretti «uno dei più grandi uomini del Medioevo», salvo aggiungere: «e uno dei peggiori nemici che la Chiesa di Cristo abbia mai avuto».
Che tanta fama sia meritata ogni lettore può ora verificare grazie a una superba impresa editoriale: la prima versione italiana integrale della Biblioteca di Fozio, introdotta da Luciano Canfora, a cura di Nunzio Bianchi e Claudio Schiano (Edizioni della Normale di Pisa, pp. XCIV-1300, euro 120,00); versione che si arricchisce di un saggio di Stefano Micunco sulla tradizione manoscritta e si avvale del concorso di oltre trenta studiosi: il loro lavoro di traduzione, e insieme di revisione critica del testo greco, farà del volume un punto di riferimento anche per gli specialisti.
Ma che cos’è la cosiddetta Biblioteca? È il mirabolante repertorio bibliografico che ha guadagnato a Fozio il titolo di «inventore della recensione»: un cliché che risale già al secondo Seicento, quando tale istituto letterario epidemicamente si propagò per l’Europa. Di recente, in sede giornalistica, il cliché ha avuto un prevedibile aggiornamento: Fozio «inventore di Wikipedia». Freddura spericolata che ha almeno un merito: dà conto del lavoro d’équipe da cui la Biblioteca sorse, contro quella che ora Canfora chiama «l’idea del tutto fanciullesca» di un’opera unitaria e «per giunta solitaria». La Biblioteca, infatti, raduna 280 schede di lettura dedicate a quasi 400 opere pagane e cristiane, anche eretiche o in odore d’eresia. Per molte di tali opere, dalla grecità arcaica all’età bizantina, la Biblioteca è tutto ciò che abbiamo. Basterebbe questo a farne un tesoro immenso: e gli intellettuali europei, cattolici e protestanti, vi si gettarono golosi senza attendere nemmeno la princeps (1601), fra mille esitazioni, sotterfugi, ipocrite reticenze e drastiche epurazioni testuali: pochi scritti greci hanno vissuto una storia editoriale così sofferta (e proprio Canfora e i suoi allievi, in anni di ricerche, l’hanno indagata in ogni piega). Ma dove, come e quando Fozio poté leggere una simile congerie di opere, molte antichissime, molte senz’altro proibite, alcune francamente licenziose? Che biblioteca si cela mai dietro la Biblioteca? Quella personale di Fozio? La sua e quella di altri privati? O quella di Santa Sofia? O quella – è l’ovvia pista araba – del colto califfato di Baghdad?
In effetti, nel migliore suo manoscritto, che è a Venezia e fu di Bessarione, la Biblioteca è preceduta da una lettera che Fozio indirizza al fratello Tarasio: su sua richiesta, vi si legge, Fozio fa trascrivere i sunti dei libri che il fratello non conosce; ha trovato in tutta fretta un copista e sta per partire, designato ambasciatore «presso gli Assiri»: la sintesi di tante prelibatezze librarie consolerà Tarasio della separazione.
Di fronte al criptico messaggio si è immaginato di tutto (e si è tradotto in ogni modo): gli «Assiri» sono stati intesi quale stravagante designazione degli Arabi; i libri (centinaia di volumi) sono stati ammucchiati in immaginarie carovane al seguito di Fozio, che li avrebbe letti e sunteggiati in viaggio, oppure sono stati traslati a Baghdad; e non potendosi seriamente ammettere un patriarca spedito – e con gran cruccio da parte sua – in terra ostile, si è datata la Biblioteca al periodo antecedente il primo patriarcato. Opera giovanile, dunque, questo artigianale Reader’s Digest a conforto di Tarasio? È l’opinione dominante, e in passato fu comoda per sdoganare la Biblioteca: opera di Fozio, sì, ma non ancora dell’aborrito Patriarca.
Ma altri problemi non mancano. Fozio garantisce di avere spesso lavorato a memoria, e se ne scusa; ma o la sua memoria fu come quella di Pantagruele, «della misura di dodici otri più una botte d’olio d’oliva», o qualcosa non torna, anche perché non di rado lo cogliamo a «leggere con la penna in mano», diceva Lemerle. Del resto, se Fozio era a Costantinopoli e i libri anche, perché andare a memoria? Nulla migliora se issiamo i libri su carovane o se li collochiamo fra «gli Assiri», perché Fozio è sempre lì. «L’onere della prova è a carico degli scettici», scrisse Nigel Wilson di coloro che non credono a quanto la lettera proemiale narra. Canfora si è assunto tale onere, e la sua è la sola spiegazione capace di dar conto e della lettera, e della Biblioteca nel suo insieme.
Eccola: gli «Assiri» sono gli infedeli, tout court, secondo un’antonomasia biblica e patristica largamente documentata. L’ambasciata è, secondo una pretta immagine paolina, l’apostolato: un’ambasciata da compiersi, scrive Paolo, anche «in catene»; e le condizioni in cui Fozio dà vita alla Biblioteca – a leggere bene non c’è spazio per dubbi – sono quelle di un prigioniero, privato dei suoi libri e perciò smanioso di salvare in qualche modo l’immenso patrimonio culturale, pagano e cristiano, che egli e i suoi adepti hanno radunato, studiato e commentato per decenni. E nessun problema di «memoria»: Fozio lavora per «promemoria». Rielabora, cioè, dossier di annotazioni che sono il frutto di un impegno collettivo, spesso vecchio d’anni. E lo fa come può: di qui appunti divenuti limpidi sunti a fianco di estratti bradi e brogliacci lasciati a metà; di qui tracce di letture in progress e commenti sulle schedature in corso; di qui doppioni e materiali dislocati. È a questo guazzabuglio che Fozio premette una lettera cifrata che attendeva la chiave giusta. E c’è un solo momento, nella vita di Fozio, che spiega la dedica a Tarasio e la fattura dell’opera, l’orgoglioso «apostolato al cospetto degli infedeli» e la dolorosa assenza di libri, l’allusione al pericolo di vita e la stessa necessità di esprimersi per enigmi: è il momento della condanna, della caduta e del confino, nell’869-870, quando un Concilio ecumenico assecondò il vento politico del momento e demolì l’ex Patriarca, e con lui la sua dotta cerchia.
Fozio si riebbe, lo sappiamo. E tutto suggerisce che alla Biblioteca egli continuò a lavorare per tutto il seguito della sua turbinosa carriera. Ma il lavoro non trovò mai un termine, pur giungendo – caso rarissimo – fin là dove la tradizione manoscritta inizia, con quel codice veneziano che ha salvato la lettera a Tarasio e che è ai nostri occhi – rubo i termini a Canfora – un «quasi autografo» di una «non-opera».
Il destino delle grandi opere-contenitore dell’antichità è quello di essere a lungo ignorate come opere in sé. È capitato fra gli altri all’Ateneo dei Deipnosofisti o allo Stobeo dell’Antologia: più naturale e profittevole saccheggiare il contenuto – passi su passi di capolavori classici non altrimenti noti – che studiare il contenitore. È capitato ovviamente anche a Fozio e alla sua «non-opera». Eppure qui il contenitore vale quanto il contenuto. La Biblioteca non è il catalogo di un collezionista né la miscellanea di un recensore; non è una mappa bibliografica alla Gesner né un libro di libri alla Roussel. La Biblioteca, nel suo prezioso disordine, è la testimonianza di un laboratorio culturale fervido e indomito: di una coraggiosa libertà di pensiero che costò non poco a Fozio e ai suoi, e che garantisce a noi questo tesoro.

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