martedì 7 giugno 2016

L'establishment liberale italiano è alla ricerca del Cesare Democratico ma intanto blinda il Renzi. Un suggerimento disinteressato



Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 7.6.16
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare .
Per cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a sinistra — così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano, presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act , poi il Migration compact , adesso si annuncia un Social act : ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact , dicevo, ha ricevuto un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo avanti. Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» — peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd — gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere.
Per cambiare il Paese — come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza — non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è. 

Il mirino fuori fuoco sul ceto medio
di Lina Palmerini Il Sole 7.6.16
Per chi governa ogni elezione è un utile indizio prima ancora che una vittoria o una sconfitta. Come è accaduto ad altri premier europei, da Hollande alla Merkel, le elezioni amministrative non mettono in bilico il Governo ma segnano una rotta e quella che sembra di scorgere dalle urne di ieri collega città diverse e soprattutto periferie di Nord e Sud sull’unica scia di un malessere sociale. Se è vero, come appare dai primi dati, che il Pd soffre nei quartieri più svantaggiati e mantiene la presa sul centro delle borghesie medio-alte, è evidente che quello sforzo di politica economica fatto finora da Matteo Renzi ha un difetto nella mira. Che non è stata così ampia da comprendere proprio quel ceto medio-basso che si voleva confortare dal punto di vista del reddito.
Un ceto medio-basso che sta determinando tutte le elezioni, europee e americana. Vengono in mente gli 80 euro ma naturalmente anche le politiche del lavoro, il Jobs act coniugato con la decontribuzione, e infine l’abolizione della tassa sulla casa. Un unico filo rosso che doveva recuperare anche il “rosso” delle periferie, parlare ai ceti tradizionali della sinistra, ritrovare la loro fiducia non solo politica ma anche economica. Ma sembra che questo non sia accaduto se a Milano come a Roma o Napoli, le aree metropolitane più in difficoltà hanno girato le spalle al Pd o le hanno tenute voltate perché il fenomeno non nasce da ieri.
È un’inclinazione - infatti - che il centro-sinistra non riesce a correggere da tempo e che nemmeno la politica economica di Renzi è riuscita a cambiare. Gli 80 euro che sono stati il “manifesto” di un nuovo patto con il ceto medio non convincono, come non ha convinto l’azzeramento della Tasi. Una volta ridurre la tassazione sulla casa era il jolly da giocare in campagna elettorale, una vincita sicura. Oggi non più. Non si sa se il Pd confermerà la festa dell’addio alla Tasi il 16 giugno, sta di fatto che sembra non aver regalato troppi consensi.
Questo voto può essere la spia di un malessere sociale ed economico più profondo di quello immaginato. O anche l’aspettativa delusa di un elettorato di sinistra che al Pd chiedeva un’attenzione maggiore e forse diversa da quella avuta dai governi di centrodestra. È un dubbio. Ma certamente la prossima legge di Stabilità, che guarderà dritta l’appuntamento del referendum, terrà conto dell’aria che si respirava ieri nelle città. 

Le periferie abbandonano il Pd Non è più il partito degli operai
A Torino, Roma, Milano la sinistra convince solo la borghesia dei centri storici di Andrea Rossi La Stampa 7.6.16
Primavera del 2011: Piero Fassino diventa sindaco di Torino al primo turno. La sua è una vittoria travolgente, mai in discussione. A Mirafiori l’ultimo segretario dei Ds sfonda il muro del 60%, nei quartieri operai della periferia Nord oscilla tra il 56 e il 58%. Solo nel centro storico ha il fiato più corto: 50,5%. Primavera del 2016: al sindaco è rimasto solo il centro, l’unica zona in cui supera il 50%, l’unica in cui non perde consensi, l’unica che l’avrebbe premiato già al primo turno. Le altre precipitano pericolosamente verso il 40%.
Il centro storico è il fortino dove, a Roma, si è asserragliato anche Roberto Giachetti, circondato dalle orde Cinque Stelle. Due municipalità a Pd e alleati: centro, Parioli, Nomentano; le altre tredici - da Ostia a Tor Bella Monaca, dalla Cassia all’Eur - a Virginia Raggi. Geograficamente, e non solo, è un assedio.
«Il Pd ha dei problemi», dice Matteo Renzi. Uno - sicuramente tra i più importanti - sono le periferie. «Ci hanno abbandonato, scelgono», incalza la minoranza interna. Difficile dargli torto. La solidità dei democratici tiene dove abita la buona borghesia e si ferma là dove smettono di passeggiare i turisti; altrove si combatte seggio per seggio, spesso si perde.
A Torino Chiara Appendino e il Movimento 5 Stelle si sono presi un luogo simbolico, la circoscrizione 5: Vallette e Lucento, i rioni degli operai, dai grandi palazzoni costruiti negli Anni Sessanta per dare casa alla manodopera emigrata dal Sud, roccaforti un tempo rosse, e anche Borgo Vittoria, che ospitava la storica sede del Pci. Fassino aveva il 58%, ora ha il 35. E, sempre a Nord, là dove da anni si fatica a tenere a bada la polveriera delle baraccopoli abitate dai rom, passa dal 56 a 35%, superando i 5 Stelle di una incollatura.
Anche Beppe Sala, a Milano, arranca: Pisapia controllava tutti i municipi, lui ha perso la zona 2, Turro, Grego e Crescenzago; la 5, da Porta Ticinese a Gratosoglio, e la 7, tra Baggio De Angeli e San Siro. Si fa sfilare da Parisi anche la zona 9, tra Affori e Comasina, dove negli ultimi dieci anni la sinistra aveva sempre governato, anche quando a Palazzo Marino c’era Letizia Moratti.
Tre anni fa, nella Capitale, Ignazio Marino aveva lasciato le briciole ad Alemanno: 14 municipi su 15, eccetto Cassia-Flaminia. Oggi Roberto Giachetti ha avuto vita facile solo ai Parioli. Altrove è stato travolto. Sì, con le periferie il Pd oggi ha davvero un problema.

I confini invertiti tra centro e periferia
Il Pd ha il primato nel salotto delle città I quartieri già del Pci a grillini e centrodestra di Paolo Conti
Il caso più clamoroso è Roma. Il centrosinistra, con Roberto Giachetti, tiene bene (33-34%) nel centro storico, nell’area elegante-borghese-benestante tra Tridente e Prati e in un altro quadrante del benessere, Parioli-Nomentano, mentre tutte le periferie guardano al Movimento Cinque Stelle e a Virginia Raggi. Il colpo d’occhio, scrutando la mappa, rende plasticamente il distacco tra il Pd erede dei Democratici di Sinistra, del Pds e quindi del Pci, e le zone più popolari. Raggi vola a Ostia al 43,6% e Giachetti arranca al 19,1, a Tor Bella Monaca Raggi al 41,2 e Giachetti distante al 17,3 e si potrebbe continuare. Il Pd dialoga con la borghesia, i professionisti, col mondo dei circoli e dei salotti ma perde nella Roma più difficile. Capita sempre così, quando a Roma la sinistra si «autoreferenzializza». Nel 1985, dopo nove anni di giunte di sinistra troppo sicure di loro stesse, furono le periferie a restituire il Campidoglio alla Dc. Nel 2008 furono sempre le periferie a votare più per Gianni Alemanno e assai meno per lo sfidante, l’ex sindaco Francesco Rutelli, percepito come un ritorno e non come una novità. E Alemanno vinse.
Lo schema funziona anche nelle altre città coinvolte in questa competizione. A Milano, il centrosinistra ha il 42,2% nel centro-zona 1 ma perde complessivamente cinque municipalità su nove rispetto al 2011, inclusa la zona 9, Niguarda–Dergano, sempre governata dal centrosinistra, anche quando a palazzo Marino regnava il centrodestra.
Torino conferma l’addio delle «aree difficili» al Pd e al centrosinistra: nel centro storico il sindaco uscente Piero Fassino (ex segretario dei Ds) naviga su un solido 50% e più, mentre Chiara Appendino del M5S si ritrova al 22%, ma basta attraversare le periferie per individuare una Torino opposta, spesso con Chiara Appendino in vantaggio.
A Bologna (e parliamo di una città che per decenni ha legato il proprio nome alla sinistra, quando l’Italia era democristiana, la città era «La Rossa» per eccellenza) il fenomeno è lo stesso. Il centrosinistra con Virginio Merola si è ripreso il quartiere di Santo Stefano, per anni bacino del centrodestra, ma nelle altre periferie c’è molto sostegno a Lucia Borgonzoni, candidata del centrodestra. Per questo Merola ha già pronto un comizio in quel della Bolognina, in piazza Unità, proprio nel tentativo di riaprire un dialogo anche puntando sui simboli.
I centri storici e le aree più economicamente sicure sembrano insomma individuare nel centrosinistra un interlocutore rassicurante e, in qualche modo, «somigliante» al proprio modello di vita. Le periferie invece inseguono uno strumento politico di negazione, di dissenso. Spiega lo storico e politologo Giuseppe Vacca, studioso del marxismo e direttore della Fondazione Istituto Gramsci: «C’è un fenomeno, non solo italiano e non solo europeo, che spinge comunque alla protesta elettorale contro ciò che rappresenta il potere e l’istituzione. Ma poi c’è un fenomeno tutto italiano che spiega bene ciò che è accaduto in questa tornata elettorale». E sarebbe, Vacca? «Gli attuali partiti politici tutti ”nuovi” e i sindacati, invece strutturati su identità ideologiche della Prima Repubblica, non dialogano più. E lo sganciamento della dimensione sindacale dai partiti che erano di riferimento, sul territorio, ha il suo prezzo. In più i partiti, incluso il centrosinistra, si organizzano e comunicano sempre di più grazie alle reti d’opinione. Quindi con chi è già incluso, il ceto medio. E chi resta fuori, gli esclusi, votando protestano, manifestando frustrazione, negatività. Dunque una modalità di essere “anti”, con qualsiasi mezzo...». 

È andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati Con il disfacimento della destra di governo e il naufragio di ogni ipotesi centrista, tocca a una moderna sinistra difendere il sistema, cambiandolo
L’identità perduta
Alla ricerca del Pd perduto al partito serve l’anima non l’uomo solo al comando
Il segretario deve decidere se è interessato a porsi questo interrogativo: quale sinistra per il nuovo secolo? Ma la minoranza interna non può continuare a considerarlo un abusivo
di Ezio Mauro Repubblica 7.6.16
IL BUON vecchio “che fare?” dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent’anni oggi dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire «non siamo soddisfatti del risultato» (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto — Milano, dove si giocava l’esperimento renziano più ardito — la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il candidato cui è stata affidata l’eredità vincente di Pisapia cambiando base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.
Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta dell’apparato, i gruppi d’interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e occidentale così come la conosciamo. Ma l’anima, come dicevamo il giorno dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza.
COME se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.
Non è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà ogni volta l’impressione di giocarsi l’intera posta sulle questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l’impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver l’ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.
Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l’aspirazione di Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di “papa straniero” della sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra e l’avvento di un leader non fosse l’inizio di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.
La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d’interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E’ difficile capire, al contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando a rappresentare l’intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora – forse – la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C’è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d’Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all’imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama “la morte della socialdemocrazia”: che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.
Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall’ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un’alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d’idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti – il leader, la minoranza – si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un’identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo.
E qui siamo alla questione finale. Il grande tema che potremmo intitolare “quale sinistra per il nuovo secolo” interessa a Renzi? Se si assume quell’identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L’obbligo di spiegare ad esempio che il cosiddetto “partito della nazione” non è non può essere un “partito della sostituzione”, che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L’obbligo di chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L’obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a semplici “spettanze” comprimibili nei momenti di difficoltà. L’obbligo di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.
C’è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di Salvini o dell’antipolitica grillina (che stanno già preparando le “nozze del caos” per il secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?
La partita del premier (per avere una sponda) pensando al referendum
di Francesco Verderami Corriere 7.6.16
Non è stato l’onore delle armi. La mano che ieri Renzi ha teso al Cavaliere è parsa piuttosto nostalgia (e desiderio) del vecchio patto del Nazareno. D’altronde, se nel momento più difficile di una storia ventennale, il presidente del Consiglio tiene a sottolineare che in Italia «c’è ancora la destra e c’è sempre Berlusconi», è perché — nel momento più difficile della sua storia biennale — proprio il presidente del Consiglio ha bisogno di trovare una sponda per spezzare l’accerchiamento di chi mira a sconfiggerlo al referendum. Così ritorna dove tutto era cominciato, in vista dei ballottaggi che spiegheranno se c’è un nesso tra le Amministrative e la futura consultazione popolare, cioè se il voto per le Comunali avrà un’incidenza sulla politica nazionale.
Non era dall’esito del primo turno che lo si poteva capire, sarà nel secondo turno che si vedrà se il variegato fronte anti renziano sarà capace di compattare i propri voti a Roma, a Milano, a Torino, per sconfiggere ora i candidati democratici e in ottobre il leader dei Democratici. La tesi di Renzi che «molti elettori» dei Cinquestelle, di Forza Italia e della Lega si esprimeranno a favore delle riforme costituzionali, si poggia sull’assunto che «la maggioranza dei cittadini» vogliono la riduzione del numero dei parlamentari e una semplificazione dell’iter legislativo. E dunque faranno «zapping» nelle urne.
In questo modo il premier mira a strappare la bandiera e le parole d’ordine dell’antipolitica per affermare se stesso e il primato della politica, inchiodando i suoi avversari al ruolo dei difensori della «casta» e dello status quo. Ma l’idea del plebiscito che Renzi ha suscitato nel Paese ha finito per piantarsi come un seme nell’immaginario collettivo e ha messo radici al di là della sua volontà. L’obiettivo iniziale era attirare l’attenzione degli elettori su un tema che non suscita emozioni, trasformando un confronto cattedratico sul modello istituzionale in un duello politico personale.
Non si è fermato al «se perdo vado a casa», ha voluto fare gioco sugli istinti dei suoi oppositori, aggiungendo che andare a votare sarebbe stato «un incentivo per tanti a votarmi contro». C’era una strategia dietro questa provocazione, che gli serviva per motivare il fronte a lui favorevole e mobilitarlo in vista delle urne: un’esigenza dettata dai numeri, siccome gli analisti ritengono che solo superando la soglia del 65% dei votanti il Sì avrà la meglio sul No. E infatti ora Renzi sta tentando di cambiare i toni, «non ce la faccio a vincere da solo questa sfida», ha detto davanti ai dirigenti della Coldiretti strappando il loro applauso.
Ma il seme ha messo radici, e la congiuntura non sembra favorevole al premier. Il suo rischio è aver esaurito la carica innovativa del rottamatore senza aver avuto ancora il tempo (o la possibilità) di guadagnarsi il profilo del buon governatore: e nel gioco dei consensi, perdere i primi senza aver consolidato i secondi rende tutto più complesso. Ecco la necessità di allargare il blocco dei riformatori, o meglio di ripristinare quell’area che consentì lo start-up del processo costituente: «La destra c’è sempre e c’è ancora Berlusconi». Di più: c’è un pezzo di classe dirigente della destra — del centrodestra — che è pronta a manifestarsi a favore del Sì, al momento opportuno.
È a loro, oltre che al Cavaliere, che Renzi pare rivolgersi. Senonché nella sfida referendaria è diventato centrale il tema della legge elettorale, con quel premio di maggioranza alla lista che è vissuto con ostilità e che fu pensato dopo le Europee, quando il Pd sfondò il tetto del 40%. Non è chiaro se il risultato delle Amministrative farà cambiare verso al premier, se — come uno yogurt — quel meccanismo dell’Italicum andrà in scadenza. Per ora il leader del Pd difende la legge, una linea Maginot dietro la quale si terrà quantomeno fino al referendum, per non manifestare segni di debolezza.
Ma già ieri quel muro mostrava delle crepe, perché quando Renzi ha citato il voto di Torino, «dove Fassino ha superato il 41%», ha dimenticato che lì il Pd si è fermato sotto la quota del 30% e che quel risultato è la somma dell’intera coalizione. Ecco: il premio alla coalizione è ciò che gli chiedono quanti sono pronti a sostenerlo al referendum, è la richiesta che fa anche Berlusconi, è un modo per far breccia al Sud dove il premier teme per ottobre. Perché al Sud i detentori dei «pacchetti di voti» di ogni partito, anche del Pd, sono pronti a danzare insieme a Renzi. Ma vogliono continuare a credersi «il sale della terra». 

Fassina: «Farò il consigliere e il deputato. Apparentamenti no, ma voteremo»
Il candidato di Sinistra per Roma: risultato insoddisfacente, ora fra noi serve un chiarimento intervista di Daniela Preziosi il manifesto 7.6.16
ROMA Il risultato è «evidentemente insoddisfacente», ammette Stefano Fassina alla sala stampa di Montecitorio, dov’è tornato a fare le sue conferenze stampa dopo più un mese in cui ha fatto base a Torpignattara, dov’era il suo comitato elettorale da candidato sindaco. Parla del suo 4,47 per cento a Roma, tradotto in voti sono poco meno di 52mila. I numeri hanno la testa dura: nel 2013 Sel in coalizione con il Pd di Ignazio Marino aveva raccolto oltre 63mila voti e guadagnato quattro consiglieri comunali; la «Repubblica Romana» di Sandro Medici, altro pezzo forte della sua corsa di domenica scorsa (e Medici infatti fra i più votati della lista Sinistra per Roma, dopo di lui) ne aveva presi oltre 26mila. A questo giro invece la somma non fa il totale, per dirla con Totò. L’ovvia obiezione è che si trattava di un’altra stagione politica, un altro mondo. La città usciva dal quinquennio di Alemanno. Vero. Ma il calo di consensi c’è stato, e Fassina non lo nega.
Come si spiega questo risultato «insoddisfacente»?
C’è una domanda di radicale discontinuità, una volontà di girare pagina rispetto a una lunga stagione di governo che ha visto protagonista il centrosinistra. Noi l’avevamo capito per tempo, per fortuna. Oggi possiamo dire che a Roma la sinistra c’è e ha le basi per poter crescere. Di fronte all’ondata del voto grillino abbiamo messo al riparo un patrimonio importante di uomini e donne e di cultura politica. Però alla fine il grosso di questa domanda è stato largamente intercettato dal Movimento 5 Stelle. E questo è successo perché il nostro progetto autonomo non è stato abbastanza chiaro e riconoscibile.
Veramente lei nel corso di tutta la campagna elettorale ha attaccato il Pd e messo tutte le distanze dal partito di Renzi e Giachetti. Intende dire che se il progetto non era chiaro è colpa di chi, fra voi, la pensa diversamente e non ha chiuso il dialogo con il Pd?
Non accuso nessuno. Il nostro progetto è incompiuto per un fatto oggettivo: perché siamo all’inizio. Poi è vero che ci sono differenza fra noi ed è vero che in Sinistra italiana ora si deve porre la necessità di chiarire il suo profilo autonomo.
Non darete nessuna indicazione di voto per i ballottaggi?
La priorità che noi abbiamo assegnato alle questioni sociali, la disuguaglianza, la precarietà del lavoro, la povertà, non le ritroviamo in nessun altro candidato. Escludo ogni ipotesi di apparentamento, né con Giachetti né con Raggi che del resto non è mai stato nelle nostre prospettive. Ma certo noi per codice genetico siamo sempre convinti della necessità di votare. Di cosa fare adesso discuteremo mercoledì in un’assemblea aperta alla Città dell’Altra economia.
Deciderete cosa fare con i candidati? Oppure con le forze politiche che hanno sostenuto la sua corsa?
I candidati si sono impegnati con generosità quindi è giusto farli partecipare alla scelta. Ascolterò, e poi anche io vorrei dire la mia opinione. Detto questo io faccio parte di un partito che si riunirà (oggi, ndr) e prenderà una posizione anche su questo.
E se qualcuno dei vostri volesse invece appoggiare Giachetti al ballottaggio, e volesse dirlo pubblicamente?
Si assumerà le sue responsabilità. Se vogliamo affermare un progetto politico autonomo dobbiamo essere coerenti. Io credo, ma questa è una posizione personale, che se noi a Roma ci fossimo schierati con il Pd oggi non saremo sotto il 5 per cento, ma sotto il 2.
A proposito Sinistra per Roma, la sua lista: diventerà un’associazione?
Sì, l’avevo annunciato già in giorni difficili. Diventerà un punto di riferimento stabile nella città per i comitati, per le associazioni. E per le persone: fra noi ce ne sono molte che non hanno una casa politica. Troveremo le forme per raccordarla con la fase costituente di Sinistra italiana.
Lei è il primo eletto, forse sarà l’unico della sua lista. Si dimetterà?
No, resto in consiglio comunale, è un impegno che ho preso in campagna elettorale.
Allora si dimetterà da deputato?
No, farò l’una e l’altra cosa. Per legge non c’è alcuna incompatibilità. E in molti l’hanno fatto prima di me. Nell’ultima giunta c’era persino chi faceva il deputato, o il senatore, ma anche l’assessore. 

Spazio a sinistra dei democratici sempre più ridotto
di Emilia Patta Il Sole 7.6.16
Gli elettori delusi del Pd si rifugiano nell’astensione o vanno verso il M5s, come accaduto a Roma e a Torino. Questo primo turno delle comunali 2016 dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che in un’Italia ormai deideologizzata lo spazio per una sinistra extra-Pd di stampo tradizionale è estremamente ridotto. Non sono più i Cofferati o i Civati a determinare l’esito del voto per il Pd, bensì i grillini e i leghisti e il loro comportamento al ballottaggio. E questo, per la minoranza bersanian-cuperliana del partito, vuol dire solo una cosa: l’imperativo politico è restare dentro il Pd. Il punto è come restarci senza far affondare tutta la barca. Continuare nel tiro al bersaglio del leader quasi quotidiano non è possibile né costruttivo, ché se alla fine affonda la barca affonda tutto l’equipaggio. Fuor di metafora, non pare una buona strategia boicottare più o meno silenziosamente il referendum confermativo di ottobre sulla riforma del Senato e del Titolo V per scalzare Matteo Renzi da Largo del Nazareno. Costretti a stare insieme, gli esponenti della minoranza e quelli della maggioranza dovrebbero ripartire da altre basi.
Il premier e segretario del partito ha lanciato ieri, un po’ inusualmente per il suo carattere, alcuni segnali importanti: «Un problema partito c’è - ha ammesso - e nella prossima direzione sono pronto a dare qualche segnale». Oltre all’annunciato commissariamento del partito a Napoli, si parla di un rafforzamento della segreteria nazionale con l’inclusione di dirigenti non renziani per una gestione se non collegiale (non è un termine renziano) almeno più inclusiva e condivisa. Renzi ha poi fatto un’altra importante ammissione, quasi a prevenire le critiche dei suoi avversari interni: dove è stata tentata, l’alleanza con i verdiniani di Ala «non ha funzionato minimamente». Insomma anche i possibili alleati a destra, così come quelli a sinistra, hanno raccolto percentuali irrilevanti. Per di più il nome di Verdini sembra fatto apposta per far scappare gli elettori dem più di sinistra. E i voti perduti, molti nelle grandi città, non sono stati recuperati né al centro né a destra. Da parte sua la minoranza farebbe bene a cogliere queste prime aperture di Renzi. E a sciogliere presto la riserva sull’atteggiamento da tenere al referendum di ottobre schierandosi per il Sì, sia pure con le legittime riserve del caso sul merito. Mentre Renzi farebbe bene a coinvolgere di più la minoranza nella gestione del partito, perché una classe dirigente nuova in un partito come il Pd che ha migliaia di posti di responsabilità amministrativa in tutto il Paese non si costruisce in pochi mesi.
Detto questo, resta un problemino chiamato Italicum. La minoranza aspetta il risultato dei ballottaggi per tornare alla carica con la richiesta di modifiche, soprattutto quella di sostituire il premio alla lista con il premio alla coalizione nell’illusoria speranza di ricostruire il vecchio centrosinistra. Ma proprio i risultati della sinistra extra-Pd da una parte e dei verdiniani di Ala dall’altra stanno lì a dire che al Pd la coalizione non serve, e reintrodurla servirebbe solo a resuscitare il centrodestra vecchia maniera come accaduto a Milano. Dunque la «vocazione maggioritaria» di veltroniana memoria, citata anche ieri da Renzi, più che un ideale è ora una necessità. Anche su questo la minoranza farebbe bene a riflettere. 

Schemi saltati e confronti incerti ecco il tripolarismo imperfetto
di Ilvo Diamanti Repubblica 7.6.16
Il dato più chiaro del primo turno della consultazione amministrativa di domenica scorsa è che, ormai, non c’è più nulla di chiaro. E di prevedibile. Nel rapporto fra cittadini e politica. Fra elettori e partiti. Così, l’esito delle elezioni è ancora aperto. Tra i 143 comuni maggiori (oltre 15 mila abitanti) al voto domenica scorsa, infatti, 121 andranno al ballottaggio. Cioè, non tutti, ma quasi. Alle precedenti elezioni erano molti di meno: 92. Questa tendenza appare evidente soprattutto nelle regioni dell’Italia centrale. Un tempo definite “rosse”, perché politicamente di sinistra. Ebbene, fra i 19 comuni maggiori al voto, in questa zona, quasi tutti (17) andranno al ballottaggio. In primo luogo, Bologna. Dove il sindaco in carica, Merola, si è avvicinato al 40% dei voti. E fra due settimane dovrà, quindi, affrontare Lucia Borgonzoni, candidata leghista del Centro-destra. Una prova sulla quale incombe, minaccioso, il precedente del 1999, quando Giorgio Guazzaloca, del Centro-destra, prevalse su Silvia Bartolini, di Centro-sinistra. Al ballottaggio. Nel complesso, i candidati del Centro-sinistra vanno al ballottaggio in 88 comuni (sono primi in 47), quelli di Centro-destra, della Lega o dei FdI in 69 (primi in 38 Comuni). Infine, il M5s raggiunge il ballottaggio in 20 comuni (è primo in 6). Questo rapido profilo quantitativo serve a chiarire una ragione importante – se non la più importante – dell’incertezza che pervade questa competizione amministrativa: la pluralità degli attori in gioco. In altri termini, se per molti anni abbiamo inseguito un bipolarismo senza preclusioni, senza fratture, Oltre l’anticomunismo e il berlusconismo (o il suo contrario), oggi dobbiamo fare i conti con un modello diverso. Sicuramente più aperto. Anzi: fin troppo. Siamo entrati, infatti, in un sistema a “tripolarismo imperfetto”. Dove il centrosinistra, imperniato sul PD(R), si oppone non solo al Centro-destra, impostato sull’asse FI-Lega - allargato, in alcuni contesti, ai FdI. Ma anche al M5s che ha ottenuto risultati importanti a Roma, con Virginia Raggi e a Torino, con Chiara Appendino a Torino. Mentre in alcuni casi, è sfidato da soggetti diversi ma, comunque, alternativi ai due poli tradizionali. Come Luigi De Magistris, a Napoli. Ciò rende il confronto complicato. Non solo nel primo turno, ma anche e tanto più nei ballottaggi. Perché non è chiaro se e per chi voteranno gli elettori dei partiti esclusi. Nello specifico: chi sceglieranno gli elettori di Centrosinistra fra un candidato leghista, forzista o dei 5s? Oppure, reciprocamente, chi sceglieranno gli elettori leghisti, forzisti o del M5s nel caso il loro candidato di riferimento fosse, a sua volta, escluso dal ballottaggio? In linea teorica, ove fosse rimasto in gioco, sarebbe favorito il candidato del M5s. Perché a-ideologico. Esterno alle fratture tradizionali. Visto che gli elettori del M5s sono, politicamente, trasversali. Riassumono il disagio verso i partiti ma anche la mobilitazione su temi “civici” e territoriali. Così, i loro candidati possono venire utilizzati dagli altri elettori,“contro” gli avversari storici. Post-berlusconiani, leghisti oppure renziani. A seconda dei casi e delle esigenze.
È probabile, allora, che molti elettori, nel dubbio, ricorrano al non-voto. Si astengano. Non per scelta, ma per non-scelta. D’altronde, si tratta di un orientamento diffuso, anche in questo caso. La partecipazione al voto, infatti, ha superato il 60%. Cinque punti in meno rispetto alla precedente scadenza elettorale. Tuttavia, non si è verificato il crollo temuto. Piuttosto, è interessante osservare che l’affluenza – e parallelamente l’astensione – elettorale ha colpito il Nord e le regioni rosse, più del Mezzogiorno. Certo, il voto amministrativo, nel Sud, è condizionato – e incentivato – da logiche particolaristiche. Ma è singolare che oggi, nel Centro-Nord, la partecipazione elettorale sia calata molto più che nel Sud.
Ciò sottolinea un’altra tendenza, emersa dopo le elezioni del 2013. La perdita delle specificità territoriali. Meglio: la ”nazionalizzazione” del voto. E dei partiti. Fino allo scorso decennio, infatti, gli orientamenti politici ed elettorali riproducevano legami sociali e territoriali di lungo periodo. Veicolati da partiti di massa, che esprimevano ideologie di lunga durata e disponevano di organizzazioni diffuse. I partiti di sinistra, in particolare, si imponevano nelle regioni rosse del centro. Mentre al Nord erano più forti i partiti di centrodestra e la Lega. Ma alle elezioni del 2013, per la prima volta, si afferma un partito senza una specifica “vocazione” territoriale. Il Movimento 5 Stelle, appunto. Primo oppure secondo in quasi tutte le province italiane. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Alle elezioni europee del 2014, il PD di Renzi, il PdR ne riproduce la traccia. Primo oppure secondo partito, dovunque. Inseguito dal M5s. E da un centrodestra spaesato e diviso, dopo il declino di Berlusconi. Nume tutelare e identitario. Così le diverse Italie politiche, oggi, si sono omogeneizzate. La stessa Lega si è “nazionalizzata”. È la Ligue Nationale di Salvini, alleata con i FdI di Giorgia Meloni. Guarda a Roma e al Sud. Così, non c’è più religione. E non c’è più fedeltà. Non solo a Bologna. Neppure a Torino. Dove le tradizioni operaie e industriali hanno perduto rilievo. E la crisi economica incombe (come ha osservato Piero Fassino). Mentre a Milano Sala e Parisi appaiono due candidati allo specchio. Roma è, dunque, la capitale esemplare di questa Italia - senza colori e con poche passioni. Dove ogni voto - politico, europeo, amministrativo - diventa un’occasione im-prevedibile. E ogni elezione, come ho già scritto, è “un salto nel voto”. 

Astensione: ha cominciato la politica a mollare il popolo
di Alfio Mastropaolo il manifesto 7.6.16
Nel suo editoriale di domenica, Ilvo Diamanti, che è uno dei più acuti interpreti degli umori degli italiani, ha argomentato che il non voto non è peccato. È segno di disaffezione, consueto in tutte le democrazie avanzate. Sennonché, come hanno mostrato i risultati del primo turno delle amministrative, il non voto non sarà peccato, ma può fare molto male. Se è segno di disaffezione legittimo, testimonia pur sempre una grave condizione di malessere dei regimi democratici.
Quello degli astensionisti è un non voto (o una forma di voto) che va scomposto. C’è l’astensionismo strutturale, di coloro che sono estranei alla politica. Provengono dai gruppi sociali meno attrezzati sul piano culturale e anche economicamente e socialmente più deboli. A tale astensionismo strutturale si somma l’astensionismo consapevole, di chi intende manifestare il suo dissenso verso la politica e i suoi attori e non vota perché ritiene di non disporre di altri strumenti.
Negli ultimi decenni, questo tipo di astensionismo è cresciuto esponenzialmente. Come ne è cresciuto un terzo tipo: quello di coloro che sono socialmente e economicamente in sofferenza, ma ai quali un tempo se non altro la politica dedicava specifiche attenzioni. Ovvero, che in qualche modo coinvolgeva. Lo faceva in vario modo, tramite le macchine di partito, ma pure tramite le pratiche clientelari. Senza fare l’elogio di queste ultime, erano se non altro una tecnica di coinvolgimento.
Se sottraiamo l’astensionismo strutturale, che negli anni Ottanta superava alle politiche di poco il 10%, l’astensionismo «politico», quello intenzionale e quello frutto dell’abbandono da parte della politica, riguarda quasi 3 elettori su 10. Si dirà che quelle di domenica erano solo elezioni locali. Ma è consolazione modesta e i numeri fanno pur sempre impressione, anche perché condizionano il risultato. Siamo certi che gli astenuti, ove avessero votato, si sarebbero equamente distribuiti tra tutti i partiti?
L’astensionismo dunque non è un bel segnale e fa pure danno. Specie se lo si accoppia alla percentuale imponente raggiunta dal voto di protesta. Il dato non è omogeneo, ma fa pur sempre impressione che un terzo dei votanti torinesi e di quelli romani si siano pronunciati per il Movimento 5 stelle, cioè per un partito che ha fatto dell’avversione contro tutti i partiti il proprio fondamento. Neanche questo è peccato, ma oltre metà degli italiani odiano la politica. Meglio: odiano questa politica e odiano quanti la interpretano. E si rivolgono all’antipolitica, che è politica anch’essa, seppur condotta con altri mezzi e in altre forme e che da tempo dilaga senza freni facendosi portatrice di progetti che è riduttivo definire modesti.
Oggi la Lega governa in due importanti regioni, dopo aver governato il paese. Ma resta ancora antipolitica. Il berlusconismo è disordinatamente in rotta, ma è stato una forma di antipolitica. Lo stesso successo di Matteo Renzi ha una non secondaria componente antipolitica. A propiziare la sua ascesa fu la promessa – antipolitica – di «rottamare» la vecchia politica, confermata con qualche gesto di rottura tra il suo insediamento a palazzo Chigi e le elezioni europee del 25 maggio 2014, che come sappiamo lo premiarono. Cioè premiarono la sua antipolitica, di cui però gli elettori non si contentano più.
Piero Fassino, che ha lunga e solida esperienza politica, è il solo che ha avuto il coraggio di abbozzare un’analisi a caldo, imputando il risultato elettorale, anche per lui non lusinghiero, alla crisi sociale. Difficile è dargli torto. Salvo che la sua analisi s’è fermata a metà. Innanzitutto è da un quarto di secolo che l’Italia vive un’estenuante crisi sociale e economica, che si è solo drammaticamente aggravata in ragione della crisi finanziaria esplosa nel 2008, così come vive una terribile crisi morale, esplosa con Tangentopoli e non ancora superata, Tant’è che da un quarto di secolo il tarlo dell’antipolitica la corrode. Bisognava accorgersene prima. Così come, adesso, sarebbe il caso di chiedersi. cosa che Fassino non fa, se per caso il risultato elettorale non sia pure tributario delle repliche opposte dalla politica all’una e all’altra crisi.
Sono state, diciamolo, risposte inadeguate. Sono state inadeguate quelle alla crisi economica e sociale. È ben vero che i margini di manovra della politica nazionale sono stati severamente compressi dai vincoli esterni. Non entriamo nel merito: ma possiamo almeno domandarci se le politiche adottate, all’insegna dell’austerità, fossero le più convenienti e senza alternative? Quant’altro dovranno pagare gli italiani in riduzioni di stipendi, salari, servizi pubblici, e in aumenti di imposte, perché la crescita raggiunga almeno la media della crescita europea? Conviene proprio insistere con simili politiche e disinvestire nella scuola, negli ospedali, nelle pensioni, nella manutenzione del territorio, magari per pagarsi lussuosi sistemi d’arma?
E che non siano state del pari inadeguate le risposte più strettamente politiche? Suvvia, come negare che, oltre a governare in maniera deludente la politica ha preso le distanze dai cittadini? Mentre la crisi economica li maltrattava, la politica vi ha aggiunto la sua indifferenza. Non attenuata né da qualche esibizione televisiva condita di antipolitica, né da un’improvvisata pseudo-abolizione del senato. Per contro l’indifferenza è ribadita dall’immoralità non dissimulata di una parte non secondaria del personale politico e dai privilegi che la classe dei politici spudoratamente esibisce. Così come esibisce i suoi stretti rapporti di comparaggio con i poteri che contano. Come non notare che la politica odierna è fatta d’intrecci coi potentati economici e finanziari e di poco trasparenti circuiti che combinano affari e si spartiscono prebende, infischiandosene in compenso dei problemi dei cittadini? 

La democrazia anomala dei frammenti
di Marcello Sorgi La Stampa 7.6.16
Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79.
E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.
Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.
Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.
A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.
La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale. 

Se il voto cambia l’analisi sulla natura dei 5 stelle
di Massimo Franco Corriere 7.6.16
I risultati delle Amministrative di domenica hanno già prodotto un primo effetto: comincia a cambiare la percezione del Movimento 5 stelle. Può darsi che si tratti di un’operazione tattica e elettorale: magari con un occhio ai ballottaggi di alcune città dove i voti di Beppe Grillo fanno la differenza, vedi Milano. È un fatto che ieri, a sorpresa, una nota ufficiale e anonima di Forza Italia ha preso atto che «il M5S ha avuto una crescita politica, non solo numerica, importante. Non è più solo un fenomeno di protesta: è una realtà politica che merita rispetto e con la quale bisogna fare i conti».
Ha tutta l’aria di una risposta in tempo reale dopo l’affermazione di Virginia Raggi a Roma e del secondo posto di Chiara Appendino a Torino, che hanno chiesto analisi meno pregiudiziali sul loro movimento. La crisi del partito di Silvio Berlusconi permette questa interpretazione. Per il Pd, al contrario, cambiare ottica risulta più difficile. Oggi il M5S è il rivale giurato di Matteo Renzi. Gli contende pezzi d’elettorato e il primato in Campidoglio e, in prospettiva, nel Paese. Ammettere che oggi sia più di un contenitore della protesta significherebbe dargli un vantaggio che i Dem non si possono permettere.
Così, il Pd continua a martellare su Grillo. Renzi ribadisce che il voto di domenica è amministrativo. Mette al riparo il referendum costituzionale di ottobre, spiegando che «sarà tutta un’altra partita». E azzarda che «molti di quelli che hanno votato Beppe Grillo o Lega, al referendum voteranno per il “sì”. I parlamentari saranno per il “no”, perché se una poltrona su tre salta, non la vogliono mollare». Insomma, l’approccio è irridente, aggressivo. Per il premier, il M5S deve restare ai margini.
D’altronde, Grillo non lesina attacchi. «Il Pd sta scomparendo e FI è quasi un ricordo», sostiene. E il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, dice di avere visto un Renzi imbarazzato nei commenti sul voto. «La propaganda non funziona più. Invece di cambiare registro», è la tesi di Di Maio, «Renzi passa il tempo a vantarsi». È la conferma di una rivalità destinata a inasprirsi, anche perché il Pd rimane l’unica forza che può contrastare l’ascesa del M5S: sebbene non sembri in grado di fermarla come si pensava un anno fa.
Sarà interessante, piuttosto, vedere fino a che punto le candidature della Raggi e della Appendino inaugurino una fase più moderata, se si può definire così, della creatura di Grillo; e se preludano a un allargamento degli orizzonti elettorali e culturali del movimento, e a una strategia tesa a agganciare non solo i delusi della sinistra ma dello stesso centrodestra. È un tentativo che soprattutto nella capitale si profila come inevitabile. E l’apertura di credito di FI è un favore oggettivo al M5S. 

Gli elettori dem «infedeli» M5S pesca dappertutto
Per Sala solo due terzi di chi aveva scelto il Pd nel 2013. Ancora meno per Giachetti di Luca Comodo Direttore Ricerche politiche Ipsos  Corriere 7.6.16
Per aiutare a leggere i risultati del primo turno delle Amministrative è utile cercare di capire quali sono stati i flussi di voto nelle due città principali del Paese, Milano e Roma. In attesa di avere i dati delle sezioni, ci siamo basati sui nostri sondaggi pre-voto. Si tratta quindi di approssimazioni che verranno raffinate e chiarite dai successivi flussi su dati veri.
Cominciamo da Milano. Sala non ha convinto tutti gli elettori pd del 2013, che lo scelgono solo per due terzi. Un quarto ha invece ritenuto di astenersi, mentre il restante 10% circa si distribuisce sugli altri. Gli elettori di sinistra (Sel e Rc) scelgono in misura rilevante di astenersi. Tra gli elettori del Movimento 5 Stelle solo una parte minoritaria converge sul candidato di riferimento, mentre la maggioranza assoluta sceglie l’astensione. Gli elettori di centrodestra invece confermano massicciamente la propria preferenza per Parisi, che raccoglie quasi i tre quarti dei voti ottenuti da quest’area alle scorse politiche. In sintesi: Sala non ce la fa a convincere del tutto il proprio elettorato e per questo non riesce a produrre una distanza significativa da Parisi. Al contrario Parisi compatta i propri elettori di riferimento, ma non riesce ad ottenere risultati significativi nelle altre aree elettorali. Vittoriosa è l’astensione: la crescita rispetto al 2011 è di circa 13 punti. Gli elettori milanesi che hanno deciso di recarsi alle urne polarizzano i propri voti sui due candidati principali dedicando scarsa attenzione agli altri. È quindi probabile che la capacità espansiva dei due al ballottaggio sarà scarsa: vincerà chi saprà meglio mobilitare i propri elettori, eventualmente, come nel caso di Sala, rimotivando coloro che al primo turno hanno scelto l’astensione.
A Roma la situazione è decisamente diversa. Intanto, Roma è l’unica, tra le cinque grandi città, in cui cresce la partecipazione al voto. Inoltre il successo di Virginia Raggi deriva da una evidente trasversalità. Da un lato la candidata pentastellata riesce a tenere gran parte degli elettori 5stelle alle politiche del 2013, dall’altro lato è in grado di attirare elettori dal centro, dal Pd e dalla sinistra. Giachetti non riesce a convincere davvero il proprio elettorato di riferimento che lo sceglie solo per poco più della metà. Pur ridotti, questi consensi e altri scarsi flussi derivanti da altre aree, gli sono sufficienti ad arrivare al ballottaggio. Anche grazie, naturalmente, alla divisione nell’area di centrodestra. Giorgia Meloni infatti, convince solo poco meno del 40% degli elettori di centrodestra. Il competitor, Alfio Marchini, ottiene un risultato deludente poiché non riesce a mobilitare gli elettori di area, ottenendo dal centrodestra solo il 20% e mobilitando poco le forze centriste.
Infine la sinistra. I risultati non sono assolutamente confortanti. La proposta di sinistra non convince l’area di riferimento (che gli consegna il sostegno di poco più del 20%, non molto più di quanti scelgono la Raggi): deluso dalle proposte in campo l’elettorato di sinistra sceglie massicciamente l’astensione. La battaglia del ballottaggio sarà nella Capitale più complessa di quella milanese. Posto che anche in questo caso il primo obiettivo è la mobilitazione dei propri, a Roma entrambi i candidati hanno bisogno di allargare la propria area di riferimento. La Raggi gode già di un endorsement esplicito da parte di Salvini. Ed è probabile che gli elettori di Meloni, se decideranno di votare al ballottaggio, si esprimeranno in misura massiccia per la candidata pentastellata. Più difficile la partita di Giachetti: per vincere deve riportare al voto i propri (anche parte di quelli che al primo turno hanno preferito astenersi), ma nello stesso tempo convincere al voto la porzione dell’elettorato moderato che vede come un rischio consegnare la città nelle mani di una persona nuova e con qualche sospetto di eterodirezione. Battaglia complessa, di esito incerto. Ancora più complessa la partita sul fronte della sinistra. Qui le resistenze verso il Pd, Renzi e il sospetto partito della nazione sono davvero difficili da recuperare, tanto più che l’avversario non è un candidato di destra che potrebbe provocare una reazione unitaria di quest’area. 

Il Pd dimezza i voti, M5S li raddoppia
di Maria Egizia Fiaschetti Maria Rosaria Spadaccino Corriere 7.6.16
Lo studio dei voti di lista e delle preferenze offre spunti di approfondimento sul voto, così si conferma che il M5s ha fatto davvero il pieno: ha praticamente raddoppiato i voti rispetto alle Europee del 2014. Nelle comunali del «vento che cambia» - così Virginia Raggi all’indomani del primo turno che la vede in testa al 35,2% - sembrano lontani anni luce i tempi di «Mister preferenze» Samuele Piccolo, ex vice presidente dell’assemblea capitolina nell’era Alemanno: ad accreditarlo come il più votato del Campidoglio furono 12 mila romani (nel 2012, il consigliere Pdl finì agli arresti domiciliari assieme al padre Raffaele con le accuse di associazione a delinquere, finanziamento illecito ai partiti e appropriazione indebita).
Lunedì sera un dato è già abbastanza chiaro: nessun plebiscito ad personam. Torniamo al Movimento Cinque Stelle: il capolista Marcello De Vito - già candidato a sindaco di Roma nel 2013 e con una storia, seppur breve, in Aula Giulio Cesare - viaggia intorno ai 3 mila voti. Inseguono Paolo Ferrara (2.132 consensi) e Carlo Penna (1.439). Cifre che, per quanto possano lievitare, è difficile che si moltiplichino per quattro.
Invece il Pd ha dimezzato il suo bottino: aveva più di cinquecentomila voti alle Europee contro i poco più di 200mila presi domenica dalla lista Pd per Giachetti sindaco. Nella lista di Fratelli d’Italia, a raccogliere il maggior numero di preferenze sono i candidati con più esperienza sul territorio: dall’ex assessore ai Lavori pubblici con Alemanno, Fabrizio Ghera (2.215 preferenze) ad Andrea De Priamo, romano della Garbatella come Giorgia Meloni, ex presidente della commissione Ambiente e coordinatore locale di FdI (1.537), che stacca per un pugno di voti Francesco Figliomeni, ex assessore alle Politiche sociali e al Lavoro nel Comune di Civitavecchia (1.454). Anche in Forza Italia premia il radicamento sul territorio: fa incetta di voti, 1.681, Davide Bordoni, ex mini sindaco di Ostia e assessore al Commercio nella giunta Alemanno. Buona la perfomance di Antonio Gazzellone, ex delegato al Turismo (due consiliature fa) che raccoglie 715 voti.
Avanza di poco Alfio Marchini che nel 2013 aveva 114.169 preferenze ed ora ne ha conquistate 141.250. Nella stessa lista si attesta ai vertici con 2.509 preferenze Alessandro Onorato, già capogruppo nella scorsa tornata elettorale quando raccolse 4.100 voti
Nelle file di Sinistra per Roma - Fassina sindaco, svetta Sandro Medici, a quota 1.331. Lo storico mini sindaco di Cinecittà supera Gemma Azuni, seconda con 1.283 voti e Gianluca Peciola (1.021 preferenze). Se, in futuro, Stefano Fassina dovesse decidere di lasciare il consiglio comunale subentrerebbe lo stesso Medici. Nelle liste civica per Giachetti lo scrittore Marco Lodoli, che pure ha tanto raccontato Roma, si attesta su 291 preferenze, non troppo per un autore conosciuto. Ma a segnare un record negativo è un atleta, l’apneista Stefano Makula per 28 volte primatista mondiale della sua specialità, in lizza con la lista Storace per Marchini sindaco: un voto. A quanto pare il partito della disaffezione al voto ha davvero colpito tutti. 

La grande fuga del partito renziano
Analisi. I voti assoluti raccontano l'esatta dimensione della debaclé. È sparito un elettore su quattro nel confronto con le comunali del 2011. E le cose vanno molto peggio nel paragone con le europee e le politiche. Tracollo omogeneo nel tempo e nelle città. Il caso Fassino: la "mutazione genetica" dell’elettorato dem di Andrea Fabozzi il manifesto 7.6.16
Disastro assoluto a Napoli, disastro relativo a Milano. In mezzo una serie di brutte notizie, nella scala dal dramma alla tragedia. È il risultato del partito democratico nei sette capoluoghi di regione dove si è votato domenica. Il risultato per il quale Renzi ha detto «non sono soddisfatto».
La dimensione della sconfitta si può cogliere solo analizzando i voti veri e non le percentuali. Il confronto va fatto con le elezioni comunali del 2011 (2013 per Roma). È il più corretto trattandosi di appuntamenti elettorali omogenei, in quattro casi su sette (Trieste, Torino, Bologna e Cagliari) con lo stesso candidato dem. Ma in cinque anni troppo è cambiato nel panorama politico. Il Pd della primavera 2011 era quello guidato da poco più di un anno da Bersani, ancora all’opposizione del governo Berlusconi. Si può allora confrontare il risultato di domenica con le elezioni politiche del febbraio 2013, quelle che hanno segnato il potente ingresso sulla scena nazionale del Movimento 5 Stelle. Anche allora, però, come nel 2011, Renzi era soltanto il sindaco di Firenze. Dunque si può anche tentare un confronto con le ultime elezioni europee, vicine nel tempo (2014) e primo test del Pd renziano.
I confronti sono fatti naturalmente sulla base dei voti assoluti nelle sette città, aggiungendo per le comunali al risultato del Pd quello delle liste civiche di diretta emanazione del partito (e cioè quelle con il nome del candidato democratico nel simbolo).
Bisogna dire subito che qualsiasi città si prenda in esame e qualsiasi elezione si confronti, l’erosione dei voti del Pd è sempre alta, sempre in doppia cifra percentuale. Quando diminuisce l’affluenza, come generalmente è accaduto, ma anche in quei pochi casi in cui l’affluenza è cresciuta. Napoli e Roma sono sempre al fondo della classifica, sia nel paragone disastroso con le europee (-62% dei voti a Napoli, qualcosa come 81mila voti svaniti, e -50% a Roma, e cioè 257mila voti perduti), sia in quello non troppo diverso con le politiche (-55,9% a Napoli e -45,9% a Roma) sia in quello solo un po’ meno triste con le comunali del 2011 (-47,4% a Napoli e -27,3% a Roma). Milano è invece il comune in cui il Pd ha perso meno voti assoluti, ma solo nel confronto con le elezioni più vicine (-28,3% rispetto alle europee e -11,3% rispetto alle politiche) mentre se si guarda alle comunali del 2011, Milano arriva terza, dopo Napoli e Roma, nella classifica delle peggiori: -24,1% e cioè oltre 58mila voti andati in fumo.
L’erosione di voti a Torino risulta essere tra le meno pesanti sia nel confronto con le europee (-35,8, è tanto ma meglio, o piuttosto meno peggio, ha fatto solo Milano) sia in quello con le politiche (-16,4%) sia in quello con le comunali (-16,7%). Al centro di questa classifica dei dolori ci sono Bologna (-34,9% rispetto al 2013) e Cagliari (-44,5% di nuovo rispetto al 2013). Ma il capoluogo sardo – l’unico dove ha retto l’alleanza di cinque anni fa e dove il sindaco uscente Zedda ha vinto al primo turno – è quello che più di tutti ha limitato le perdite rispetto al 2011, lasciando comunque per strada il 14,9% dei voti veri. Nel complesso delle sette città capoluogo di regione, il Pd ha perso in cinque anni oltre 218mila voti, passando da 913.403 a 695.290: è stato in altre parole abbandonato dal 23,4% dei suoi vecchi elettori. Quasi uno su quattro.
La cosa interessante di queste classifiche ottenute confrontando i risultati di tre elezioni diverse, è che la graduatoria delle sconfitte si conferma praticamente identica: ci sono sempre Napoli e Roma alla testa del disastro e Milano alla coda, salvo nel caso del confronto con le comunali dove Milano e Cagliari si scambiano il posto: è Cagliari a fare un po’ meglio. È un dato interessante perché dal punto di vista delle affluenze alle urne non c’è affatto questa regolarità. Cagliari, che come abbiamo visto è la città con Milano dove il Pd in qualche modo perde ma non tracolla, soprattutto nel confronto con le comunali, è tra quelle che soffre meno per l’astensionismo sia nel confronto con le europee (+27%), sia con le politiche (affluenza praticamente identica) sia con le comunali (-9%). Mentre Milano che è in effetti il capoluogo che ha un po’ contenuto il disastro, soprattutto nel confronto con le elezioni più recenti, è invece la città dove l’affluenza è andata peggio (-5,35 di affluenza rispetto alle europee, peggio solo Bologna; -22,7% rispetto alle politiche e -12,9 rispetto alle comunali). Il che significa che la fuga degli elettori dal Pd renziano è abbastanza omogenea sia nel confronto temporale (le differenti elezioni) che spaziale (le sette città sono ben distribuite nella penisola) ed è anche discretamente indifferente all’affluenza al voto.
Ma dove sono andati questi elettori del Pd? Il Centro italiano di studi elettorali del professor D’Alimonte (il politologo che ha «inventato» l’Italicum) ha proposto ieri una prima analisi dei flussi. Limitata a Torino ma comunque molto interessante. Si calcola infatti che su cento elettori di Fassino nel 2011, solo 42 siano tornati a votarlo, mentre 32 hanno scelto la candidata del Movimento 5 Stelle e 14 si sono astenuti. L’elemento che fa parlare il Cise di mutazione genetica della base elettorale del candidato Pd (che nel complesso delle liste che lo sostengono ha perso quasi centomila voti) è che Fassino sembra aver ricevuto l’appoggio della maggioranza relativa degli elettori che cinque anni fa votarono per il centrodestra, quasi tutti in fuga da quello schieramento. Il 34% di loro è passato sotto le insegne del candidato Pd. 

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