mercoledì 15 giugno 2016

Lo zio del Vermont si prepara a coprire Hillary a sinistra


Sanders strizza l’occhio a Hillary “La priorità è sconfiggere Trump”
Il senatore si prepara a sostenere l’ex rivale. E il tycoon crolla nei sondaggidi Paolo Mastrolilli La Stampa 18.6.16
La marcia di riavvicinamento fra Bernie Sanders e Hillary Clinton è cominciata, anche se manca ancora l’appoggio formale del senatore del Vermont per l’ex segretario di Stato, proprio mentre Trump inizia a perdere colpi nei sondaggi. Un rilevamento nazionale di Bloomberg arriva a darlo indietro di 12 punti, mentre continuano ad alzarsi le voci dei dissidenti nel suo Partito repubblicano, come l’ex vice di Colin Powell Richard Armitage, che ha promesso di votare Hillary se Donald sarà il candidato del Gop.
Nei giorni scorsi Sanders aveva incontrato Clinton, e ieri ha tenuto un discorso di 23 minuti in cui non ha dato ancora il suo sostegno ufficiale, ma ha chiarito che non pensa più di contestare la sua nomination: «Il principale compito politico che avremo nei prossimi cinque mesi - ha dichiarato - è assicurare che Donald Trump venga sconfitto, e sconfitto malamente. Io intendo cominciare personalmente il mio ruolo in questo processo in un periodo di tempo molto breve». Nello stesso tempo, però, Bernie ha aggiunto: «Sconfiggere Trump non può essere il nostro unico obiettivo. Noi dobbiamo continuare lo sforzo di base per fare dell’America il Paese che sappiamo può diventare».
La traduzione è abbastanza chiara. Se la priorità di Sanders è sconfiggere Trump, l’unica maniera per centrare questo obiettivo è aiutare Clinton a vincere. Quindi è logico aspettarsi che Bernie a breve annuncerà la fine della sua campagna, comincerà a fare comizi per Hillary, e inviterà i suoi sostenitori delle primarie a votare per lei, o comunque non abboccare alle lusinghe di Donald. La ragione per cui questo passo non è stato ufficializzato è che il negoziato sulle contropartite è ancora in corso. Sanders non si aspetta e non vuole la nomina a vice presidente, perché pensa di poter essere più influente con un ruolo di leadership nel Senato, soprattutto se i democratici ne riprenderanno la maggioranza. Però vuole influenzare il programma del Partito alla Convention di Philadelphia, cambiare alcune regole come quella sul ruolo dei superdelegati nelle primarie, e fare fuori la presidentessa democratica Debbie Wasserman che lo ha osteggiato. Nel frattempo l’ala sinistra che lui rappresenta sta già convergendo su Hillary, come dimostra la visita fatta ieri al suo quartier generale di Brooklyn dalla senatrice Warren, considerata tra i possibili vice, e comunque ormai schierata con Clinton contro Trump, che la chiama «Pocahontas» perché avrebbe mentito sulle sue origini indiane.
Questo processo di unificazione avviene mentre Trump inizia a perdere colpi nei sondaggi. A parte quello di Bloomberg, forse esagerato, anche l’ultimo rilevamento nazionale della Cbs lo vende indietro di 6 punti. La sua reazione alla strage di Orlando evidentemente non è piaciuta, e lo Speaker Ryan, anche se lo appoggia, ha detto che gli farebbe causa se da Presidente bandisse davvero i musulmani dagli Usa. Nel Partito repubblicano sta rialzando la testa chi vorrebbe non candidarlo alla Convention di Cleveland, ma lui risponde che la sua campagna non è nemmeno cominciata e alla fine schiaccerà Hillary.

Sanders: «Occupate la politica e il Partito»
Ancora niente endorsement a Hillary Clinton, sì all’«aiuto per battere Trump»
Sanders
di Marina Catucci il manifesto 18.6.16
NEW YORK L’aveva annunciato con una mail alla stampa e ai suoi sostenitori, e nella notte tra giovedí e venerdí Bernie Sanders, dal suo canale youtube, ha tenuto un discorso in diretta durato più di mezz’ora.
I molti che aspettavano un endorsement di Sanders ad Hillary Clinton sono stati delusi, l’endorsement non c’è stato, ma qualcosa Sanders a Clinton ha promesso. «Tra le altre cose di cui questa campagna si deve far carico – ha detto il senatore – c’è anche il battere Trump, e su questo io aiuterò Hillary Clinton».
Uniti contro il nemico comune, insomma, per impedire che un razzista, violento, islamofobo, misogino e maniaco possa diventare il prossimo presidente americano, sottolineando che le differenze tra lui ed Hillary ci sono e sono sostanziali, ma dei punti in comune esistono e saranno usati per battere «The Donald» a novembre.
Le dichiarazioni di Sanders arrivano proprio mentre son sempre più insistenti le voci che circolano giá da un po’ di tempo su Elizabeth Warren come vice presidente. La senatrice del Massachussets, nemica dichiarata di Wall Street, più vicina alle politiche di Sanders che a quelle di Clinton, comporrebbe un ticket di due donne, davvero inaudito, e porterebbe l’aria di cambiamento vero che la sola Clinton, nonostante il genere a cui appartiene, da sola non riesce a far spirare. Questa presenza attirerebbe tutta quella base di Sanders indecisa se turarsi il naso o meno, e che con Warren vice presidente non a rebbe dubbi. L’insistenza di queste voci dimostra anche che il peso della political revolution di Sanders non è marginale ne’ tanto meno finito, anzi. Nella seconda parte del suo video messaggio Sanders ha spiegato come vuole procedere da ora in poi, che più o meno si riassume con «abbiamo creato un esercito, ora cominciamo la battaglia».
Dopo aver riassunto i 17 punti del suo programma Sanders si è rivolto direttamente alla sua base di militanti: un anno fa non esistevamo, ora facciamo la differenza. Questi 17 punti non verranno mai implementati dal partito «i democratici hanno bisogno di sangue nuovo, quel sangue siete voi».
Ha poi invitato i sostenitori ad entrare in politica, a farlo partendo dalle amministrazioni locali, occupando posti decisionali per portare avanti le loro istanze .
«Una rivoluzione non dura una tornata elettorale» ha detto Sanders, illustrando un progetto di gran lunga più complesso di quello di tutti i precedenti candidati alle presidenziali americane che, organici al partito, una volta sconfitti, per quanto radical (penso ad Haward Dean) sono bene o male scomparsi. Non Sanders, il suo piano va ben oltre la sua persona.
Sanders ha parlato ai suoi 12 milioni di voti, 2,7 milioni di donatori, centinaia di migliaia di volontari. «Entrate in politica – ha detto il senatore – candidatevi per fare il sindaco, il governatore, il parlamentare. Cambiate il partito democratico. Oppure partecipate nella costruzione di un nuovo Paese, fatelo come insegnanti, ricercatori, medici, ingegneri, tecnici specializzati nell’energia pulita».
Come imparato dai movimenti che l’hanno sostenuto, la rivoluzione non la si porta più avanti dalle piazze, dove le idee vengono soffocate dai lacrimogeni, bisogna occupare il potere, come sostiene anche Micah White, sociologo e parte di Occupy Wall Street, nel libro simbolo della post occupazione newyorchese, La Fine Della Protesta, o la candidatura a sindaco di Baltimora di Deray Mckesson, uno dei leader di Black Lives Matter. Costruire un terzo partito che sarebbe attaccato da entrambi i lati, sia dai democratici che dai repubblicani, sarebbe una guerra a sé; un partito giá esiste, ed è il partito democratico, bisogna invaderlo. Per questo Sanders chiede una riforma delle modalitá di voto delle primarie, in modo da permettere ai non iscritti, agli indipendenti, di votare per il proprio candidato. Sanders in questi mesi ha dimostrato che si può davvero fare una campagna elettorale indipendente, contando solo sul sostegno economico della base ed essere un candidato non ricattabile, se eletto presidente, ora bisogna moltiplicate questi esempi e dare delle chance ai risultati politici che ne deriveranno.
Per questo Sanders non si ritira, per questo vuole arrivare a Philadelphia alla convention di fine Luglio, con un potere contrattuale forte in modo da imporre cambiamenti sostanziali al partito e che lo cambieranno ulteriormente, elezione locale dope elezione locale. L’eventuale presenza di Elizabeth Warren come vice presidente sarebbe un enorme aiuto in questo senso.

La crisi di identità dei grandi partiti Usa
di Massimo Gaggi Corriere 17.6.16
Questo 2016 segnato in tutto l’Occidente dalla crescita di movimenti e leader populisti e da allarmanti successi dei nuovi partiti xenofobi, negli Stati Uniti è stato esaminato soprattutto dal punto di vista del fenomeno Trump e della crisi del partito repubblicano: un fronte politico che, a partire dall’emergere dei Tea Party, sei anni fa, ha gradualmente perso dirigenti di peso e identità, fino a rischiare di essere spazzato via dal suo stesso candidato alla Casa Bianca. Il miliardario si è, infatti, presentato agli elettori sotto le bandiere del «Grand Old Party» ma, dal rifiuto del free trade agli atteggiamenti razzisti e all’ostilità verso i musulmani, dimostra di non condividere i cardini ideologici essenziali della forza politica alla quale, pure, appartiene: preannuncio della fine del partito repubblicano, almeno nella forma finora conosciuta, in caso di elezione di Trump. Ma nemmeno i democratici, che si consolano vedendo la casa dei loro concorrenti in fiamme, hanno molto di che gioire. E non solo perché non sono riusciti a produrre una credibile alternativa al candidato della «famiglia reale» dei Clinton. Il fenomeno Sanders che, partito da consensi inferiori al 3%, è arrivato a mettere in dubbio la nomination dell’ex Segretario di Stato, non sembra essere solo la propaggine di un radicalismo populista che si sta diffondendo a destra come a sinistra. L’ala progressista, denunciano analisti, politologi e storici come Thomas Frank e Steve Fraser che hanno appena pubblicato, rispettivamente «Listen, liberal» e «The Limousine Liberal», si è persa tra le «vacche sacre» delle grandi università liberal delle due coste e gli interessi dei ceti professionali e manageriali progressisti. Così ha smarrito per strada la sua matrice popolare, l’attenzione per i ceti più svantaggiati. Il confronto repubblicani-democratici in questo modo è diventato la sfida tra il capitalismo conservatore delle grandi famiglie e dei grandi gruppi abituati ad ottenere protezione dallo Stato e a sfruttare situazioni di oligopolio, e quello più moderno dei manager e degli imprenditori della Silicon Valley. Che, però, con lo spostamento di ricchezza verso le imprese dell’economia digitale, accentua le sperequazioni nella distribuzione del reddito e illude i suoi referenti politici che un riequilibrio possa avvenire con la filantropia e la nuova economia del crowdsourcing e dei servizi on demand .

La sinistra “populista” negli Usa spiegata da Bernie Sanders 

In America la parola non ha la nostra connotazione negativa 
Gianni Riotta Busiarda 16 6 2016
Chi ricorda in Europa il socialista Eugene Debs, che alla fine del XIX secolo animò l’America, fondando il sindacato Iww, o Vito Marcantonio, deputato italoamericano di Harlem, rieletto fino alla fine degli Anni Quaranta dal Partito Laburista Americano, ai tempi in cui il quartiere nero di New York contava 40.000 iscritti al Partito comunista Usa? O il vicepresidente di Roosevelt, Wallace, sostituito nel 1944 da Truman perché troppo di sinistra? La storia dei progressisti americani è stemperata in amnesia, tra memoria romantica, gli anarchici Sacco e Vanzetti giustiziati, John Reed, cronista della Rivoluzione russa sepolto al Cremlino, e freddezza analitica dei professori Lipset e Marks, che nel saggio del 2000 It did not happen here, spiegano come gli americani detestino la sinistra all’europea.
La corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca del senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, pur battuto dall’ex First Lady Hillary Clinton, ha ricordato quanto antiche e profonde siano le radici «progressive» in America. Un outsider alla Casa Bianca, tradotto da Jaca Book, è la riedizione del saggio di Sanders e Huck Gutman che, nel 1996, narrava le gesta del laburista di sinistra che da sindaco di Burlington (eletto nel 1981, non 1980, come scrive erroneamente la prefazione) da deputato e poi senatore ha difeso i sindacati, attaccato le guerre, parlato di ambiente, spiegato in un discorso durato 8 ore al Senato che perfino il presidente Obama è troppo legato a Wall Street e dimentico dei lavoratori e dei poveri.
Il libro, introdotto dal giornalista D’Eramo, è arricchito da una postfazione di John Nichols, editorialista del settimanale progressista The Nation (lo ricordo, giovanissimo, combattivo sui banchi della scuola di giornalismo alla Columbia University). Il lettore europeo si divertirà con gli aneddoti (Sanders, ancora laburista, parla a un comizio con il celebre pediatra dottor Spock, che deve però interrompere il discorso per il grido «C’è un medico in sala?») e imparerà da Nichols che, mentre la sinistra del vecchio continente rigetta come un insulto l’etichetta «populista», Sanders la accoglie con orgoglio.
Il populismo di sinistra, opposto a quello di destra di Trump, anima l’America dove tecnologia e globalizzazione hanno lasciato troppi operai e impiegati senza lavoro. La rincorsa di Sanders radicalizza i democratici, la neoliberista Hillary attacca Wall Street ad ogni passo, e così, pur sconfitta, fa storia. La strategia sarebbe fare negli Usa come «in Danimarca, Finlandia, Svezia e Norvegia», dimentichi però che i paesi del welfare, insieme, hanno meno abitanti della California. Questo pamphlet va dunque letto da chiunque, convinto o meno che il mercato sia un Inferno, voglia però capire cosa emoziona milioni di americani e perché anche da noi la sinistra raziocinante, a Roma e Napoli, soffra davanti ai populisti, usando finalmente la parola nel senso scientifico, non come insulto.


Vertice Clinton-Sanders, il senatore del Vermont chiede un cambio radicale ai democratici 

Epilogo delle primarie Usa. Vertice di un'ora e mezza tra Clinton e Sanders alla fine della contesa per la candidatura. Nessuna dichiarazione ma giovedì il senatore del Vermont terrà un discorso video su YouTube e spiegherà alla sua immensa base elettorale cosa intende fare per la "rivoluzione politica" in cui crede e per il cambiamento radicale del partito democratico
Marina Catucci Manifesto NEW YORK 15.6.2016, 9:27 
Martedì 14 giugno si sono ufficialmente concluse le primarie americane, con il voto della capitale, Washington DC nel distretto di Columbia. Come previsto a vincere è stata Hillary Clinton. 
Subito dopo il voto, la presunta candidata democratica alla presidenza ha avuto un incontro a porte chiuse durato più di 90 minuti con il suo principale rivale, Bernie Sanders, che nel corso della giornata aveva reso noto di non essere ancora pronto a dare il proprio endorsement. 
L’incontro, che entrambi i candidati democratici hanno definito “positivo”, era stato ampiamente annunciato durante i giorni precedenti, lo staff di Clinton aveva anticipato che con Sanders si sarebbero focalizzati su “una serie di questioni progressiste sulle quali si condividono obiettivi comuni” e che i due “hanno concordato di continuare a lavorare su un ordine del giorno condiviso”. 
L’incontro è terminato poco prima le 22:30, sia Clinton che Sanders hanno lasciato il Capital Hilton, non lontano dalla Casa Bianca, senza parlare con i giornalisti. 
Poche ore prima di incontrare la candidata democratica alla presidenza, Sanders aveva tenuto una conferenza stampa davanti la sua sede elettorale di Washington, durante la quale ancora una volta il senatore del Vermont aveva rifiutato di concedere il proprio endorsement, affermando di voler continuare fino alla convention del mese prossimo a Philadelphia, in modo da spingere per una “trasformazione fondamentale” del partito democratico. 
“Il popolo americano è ferito ed è ferito malamente – ha detto Sanders – vuole un cambiamento reale, non lo stesso vecchio sistema” 
Nella sua conferenza stampa, Sanders ha declinato le diverse priorità e cambiamenti politici che vorrebbe vedere, tra cui una nuova leadership del Comitato Nazionale Democratico, che, ha detto, non si è concentrato abbastanza per portare nuovi elettori nel partito. “Credo anche che sia necessario sostituire la leadership del Comitato Nazionale Democratico attuale”, ha detto Sanders. 
A questo ha aggiunto il progetto di sbarazzarsi del sistema dei superdelegati che, secondo il senatore socialdemocratico, privilegia l’élite del partito. 
Altro suo punto cruciale è il mettere per iscritto nella piattaforma del partito l’impegno a concentrarsi sui lavoratori e sui poveri. 
Sanders, sempre al fine di portare un autentico rinnovamento all’interno dei democratici, chiede anche che si cambi il sistema delle primarie, passando alle primarie aperte. 
“E’ insostenibile l’idea che nello stato di New York, il grande stato di New York, 3 milioni di persone non abbiano potuto partecipare alla scelta del candidato democratico o repubblicano perché non registrati come indipendenti o come elettori democratici e repubblicani”. 
Sanders ha anche aggiunto che la sua decisione di rimanere in corsa non vuole compromettere le probabilità di Clinton di sconfiggere Donald Trump questo autunno ma vuole che il partito e la sua candidata si spingano verso i lavoratori e la base degli americani. 
“Stiamo andando a portare qualcosa come 1.900/2.000 delegati a Filadelfia, e lasciate che vi dica quello che vogliono – ha aggiunto Sanders – vogliono vedere il partito democratico trasformato. Vogliono vedere il partito democratico resistere ai ricchi e potenti, e lottare per le persone che stanno male”. 
Il suo staff ha poi annunciato che Sanders, giovedì sera, farà un videodiscorso in diretta sul suo canale YouTube per spiegare come intende continuare la sua “rivoluzione politica”, che continua anche ora che non è più un candidato. 
“Quando abbiamo iniziato questa campagna, vi ho detto che stavo correndo non come avversario di un uomo o una donna ma per proporre politiche nuove e di vasta portata che affrontino le crisi del nostro tempo”, ha detto Sanders nella mail mandata a tutti i suoi sostenitori per annunciare il discorso di giovedì.


Per vincere a Hillary serve Sanders 

Gabriel Guerra Mondragon*  Busiarda 16 62016
Le elezioni presidenziali del 2016 sono giunte a un punto cruciale e finale: Hillary Clinton ha vinto le primarie del partito democratico ed è il candidato alla presidenza, una donna, per la prima volta nella nostra storia. In campo democratico le primarie hanno visto un lungo e combattivo confronto tra Clinton e Sanders che è durato quasi un anno e mezzo. Quando entrambi annunciarono la loro candidatura, Hillary era in vantaggio. Con sorpresa di tutti, Sanders si è lentamente creato un grande seguito, principalmente tra gli elettori tra i 18 e i 30 anni e l’ala della sinistra-liberal del partito democratico.
Sanders ha rivolto un invito a una rivoluzione nazionale nel settore dell’istruzione superiore rivendicando l’istruzione gratuita per tutti, ha poi sferrato un attacco vigoroso a Wall Street evidenziando la disparità economica tra i ricchi e la classe media, rivendicando la necessità di introdurre tasse più alte.
Clinton ha fatto più di un passo in avanti concordando con Sanders sulle questioni nazionali ma contestando le sue prese di posizione più drastiche e il modo in cui avrebbe finito per pagarne lo scotto, spostandosi troppo a sinistra, cosa che rende difficile vincere le presidenziali. Sulla politica estera Sanders non ha mai rappresentato una minaccia per Clinton data la sua storia pubblica e la sua esperienza da Segretario di Stato per quattro anni con il presidente Obama.
Il confronto alle primarie è stato serrato e aspro, ma sempre basato su differenze di enfasi, non su insulti personali e umilianti, come è accaduto da parte repubblicana, dove abbiamo visto come questo tipo di attacchi alla fine abbiano profondamente diviso il partito.
Dopo queste primarie infinite, tutto si è concluso in California. Dove Clinton e Sanders hanno avuto uno scontro molto aspro poiché questo non solo era l’ultimo Stato ma anche quello con il maggior numero di delegati alla Convention democratica, dato il suo numero di abitanti. Si immaginava un risultato ravvicinato ma alla fine Clinton ha vinto con un grande distacco, centrando il numero magico di delegati per ottenere la candidatura. Molti pensano che questa battaglia tra Clinton e Sanders abbia rafforzato Hillary e unito ulteriormente il partito.
A quel punto la vittoria era certa e il presidente Obama e il vice presidente Biden hanno espresso il loro importante e pieno appoggio a Clinton. La corsa democratica per la presidenza era finalmente finita. 
Da notare che ora Clinton riceverà il supporto frontale di Obama e Biden che faranno una sfegatata campagna per lei in tutti gli Stati chiave. Questo sarà un fattore determinante per il successo.
Ora il partito ha bisogno di compattarsi, e lo farà. Sanders chiederà al Partito democratico e a Clinton di includere le sue posizioni nella piattaforma del partito e chiederà rispetto per sé e i suoi seguaci. E questo accadrà. (Si sono incontrati martedì). Non solo perché le loro differenze politiche non sono così grandi ma anche perché il partito e Clinton hanno bisogno del sostegno di Sanders e in particolare dei suoi giovani e leali elettori e della sinistra, per l’unità e la vittoria. Nelle prossime settimane vedremo questo partito fare quadrato. Questo culminerà, a fine luglio, nella Convenzione nazionale democratica a Philadelphia. Prevedo che alla chiusura vedremo Hillary Clinton, il presidente Clinton, il presidente Obama e la moglie Michelle, il vice presidente Biden e la moglie Jill, il senatore Sanders e la moglie Jane con le mani alzate in segno di vittoria davanti ai democratici euforici e ansiosi di andare in trincea e combattere fino alla fine contro il controverso Donald Trump.
Purtroppo, questa felicità che abbiamo così apprezzato è stata breve. È stata spenta lo scorso sabato da una vera doccia gelata. Abbiamo visto la tragedia, il sangue, l’odio spietato, la morte dei giovani e ancora i feriti a Orlando, in Florida, quando un solitario, cittadino degli Usa con tendenze omofobiche e islamiche radicali ha sferrato un attacco terroristico contro una popolare discoteca gay, uccidendo e ferendo molte persone. 
Questo terribile incidente ha subito fatto irruzione nella corsa presidenziale. Trump si è prodotto nelle sue note dichiarazioni incendiarie e roboanti in materia di immigrazione, proponendo il temporaneo bando di tutti i musulmani e affermando che il terrorista era nato in Afghanistan, quando invece è nato nel Queens, New York (proprio come Trump). Inoltre ha affermato che gli Stati Uniti sono deboli e mancano di leadership.
Il giorno dopo è arrivato un attacco frontale. Martedì sia il presidente Obama, dopo il suo incontro con la sua squadra della National Security, sia Clinton, a un evento elettorale a Pittsburgh, hanno attaccato e colpito duramente Trump definendolo come inadatto, bugiardo, superficiale con una personalità da reality e pericoloso. Entrambi sono stati molto eloquenti e il presidente era visibilmente arrabbiato ed emozionato nella sua difesa della lotta contro l’Isis, soffermandosi sulla tragedia di Orlando, «che è stato un attacco a tutti noi», e sulla posizione sbagliata di Trump contro i musulmani considerati come non americani. Infine ha espresso il suo autentico disgusto per le politiche sull’immigrazione di Trump, dichiarandosi sorpreso che i leader del Partito repubblicano possano tollerare le sue posizioni bigotte (l’ultimo sondaggio di Bloomberg dà oggi Hillary con 12 punti di vantaggio su Trump).
Questo è l’inizio di quella che sarà una delle più difficili e sporche campagne elettorali nella storia americana. Sarà dura. Teniamoci stretti, sarà un percorso accidentato.
*Ex ambasciatore Usa in Cilenel 1994-98, sostenitore della campagna presidenziale di Hillary Clinton Traduzione di Carla Reschia BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



E Trump guarda oltre i confini dei due partiti 

Kurt Volker* Busiarda 16 6 2016
Un anno fa, nessun analista politico serio avrebbe creduto che Donald Trump avesse la possibilità di ottenere la candidatura del Partito repubblicano per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Tutti questi analisti, me compreso, sbagliavano. Non solo Trump ce l’ha fatta, ma c’è riuscito a pieno titolo, raccogliendo abbastanza voti per vincere al primo turno alla convention repubblicana il mese prossimo. Ora dobbiamo affrontare questo fatto: Trump ha buone possibilità di vincere le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.
Trump ha ottenuto la candidatura non come un repubblicano tradizionale, ma scavalcando il partito repubblicano e utilizzandolo come piattaforma per una campagna populista contro tutte le élite politiche - democratiche o repubblicane.
Trump ha conformato con successo la sua campagna alle emozioni degli americani medi che sono arrabbiati, impauriti e infelici. Avvertono rischi crescenti in patria e all’estero - un’economia debole, la perdita di posti di lavoro, il rapido cambiamento sociale, la spesa pubblica fuori controllo, un Medio Oriente in crisi, il terrorismo ispirato dall’Isis, una Russia aggressiva, una Cina in competizione con gli Stati Uniti. E percepiscono il governo di Washington, guidato da élite rese ricche dai soldi delle tasse, come scollegato dal cittadino americano medio, e penosamente inefficace e incompetente.
Molte delle prese di posizione e delle proposte politiche di Trump sono bizzarre: dal vietare a tutti i musulmani l’ingresso negli Stati Uniti, alla costruzione di un muro al confine tra Messico e Stati Uniti. I suoi interventi sono pieni di connotazioni cospirative, razziste, xenofobe. Tuttavia non possono essere considerate proposte politiche serie. Piuttosto, le sue osservazioni sono un riflesso delle emozioni di elettori che non credono che Washington sia seriamente intenzionata ad affrontare i problemi, dal lavoro all’immigrazione al terrorismo. Trump, per come la vedono loro, «dice le cose come stanno» e «farà piazza pulita».
Anche dopo la sparatoria di Orlando, il più letale attacco terroristico avvenuto negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001, Trump è andato all’offensiva contro il presidente Obama e, per suo tramite, contro l’incapacità di Washington. La sua critica è minacciosamente semplice: o il presidente Obama non ha idea di quello che sta facendo o, peggio ancora, è parte del problema. Una dichiarazione così scandalosa è inquietante solo per l’élite che Trump prende di mira. Fuori da Washington sarà vista da molti come un altro colpo inferto a un sistema inetto.
Il percorso di Trump verso la Casa Bianca è reso più facile dal fatto che il candidato democratico sarà Hillary Clinton. Nessuno più di lei - al centro della politica degli Stati Uniti da quasi 30 anni - appare funzionale al sistema.
Alle primarie repubblicane, Trump ha trionfato perché ha fatto un solo fascio di tutti i suoi avversari politici etichettandoli come un’élite imbelle e ponendosi come l’unica persona in grado di portare al cambiamento. Con Hillary Clinton questo sarà ancora più facile, presentandola come la continuazione delle politiche «fallimentari» di Barack Obama.
Trump ha successo anche perché le sue pittoresche esternazioni gli valgono una copertura mediatica a livello di saturazione. È davvero difficile per i suoi avversari ottenere attenzione. Ha ignorato le tattiche ben collaudate del passato - massiccia pubblicità politica a pagamento, vere campagne solo negli Stati in bilico, messaggi vaghi ma testati nei gruppi di discussione, riposizionamento al centro con l’approssimarsi del voto. Lui, invece, ha comunicato direttamente con gli elettori - di sinistra, di destra e indipendenti - attraverso i notiziari di attualità e la sensibilizzazione dei social media.
Non c’è dubbio, le opinioni negative su Trump tra gli elettori sono estremamente diffuse. Molti odiano tutto quello che rappresenta e hanno giurato di non votarlo mai. Ma anche i pareri negativi su Hillary Clinton sono molti, e altrettanti hanno giurato di non votare per lei. Per entrambi i candidati ci sono due compiti fondamentali. Uno è quello di portare alle urne nuovi elettori. Nel caso di Trump i diseredati che si sono sentiti lasciati fuori dalla politica tradizionale. Nel caso di Clinton gli ispanici e le altre minoranze che potrebbero iscriversi a votare semplicemente per opporsi alle politiche di Trump sull’immigrazione. Possono riuscirci entrambi, ma chi lo farà meglio avrà un impatto diretto sulle elezioni.
Il secondo compito è quello di attrarre elettori dell’altro partito pur mantenendo la propria base politica. Qui, Trump può avere un vantaggio. Anche se molti democratici aborriscono le politiche di Trump, alcuni indubbiamente concordano con la sua posizione anti-Washington. Questi elettori, che si sono schierati con Bernie Sanders alle primarie democratiche, potrebbero passare a Trump.
Hillary Clinton, d’altra parte, potrebbe avere delle difficoltà a far passare dalla sua parte i repubblicani moderati. È troppo nota e troppo antipatica alla maggior parte degli elettori repubblicani.
In conclusione, è ancora troppo presto per prevedere l’esito delle elezioni - ed eventi inaspettati come l’attacco terroristico di Orlando possono influenzare il voto negli ultimi giorni. Ma per ora dobbiamo almeno affrontare il fatto che Donald Trump non è solo un valido candidato ma potrebbe anche vincere.
*Ex ambasciatore e Direttore esecutivo del McCain Institute for International Leadership Arizona State University Traduzione di Carla Reschia BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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