lunedì 20 giugno 2016

Maurizio Ferraris: il web come nomos globale?


La mente globale

Babele, gli algoritmi e la Rete ecco perché l’intelligenza artificiale siamo noi
Abbiamo affidato tutto il nostro sapere al Web, lo abbiamo dotato di conoscenza, intelletto e azione Manca un ultimo passaggio: dargli un’anima. Per questo la tecnologia va di pari passo con la richiesta di un nuovo umanesimo

di Maurizio Ferraris Repubblica 19.6.16
Sono trascorsi esattamente vent’anni da quando il filosofo Pierre Lévy ha definito il Web lo spazio di una intelligenza collettiva. È facile ironia opporre che quello che si è poi visto richiama spesso una imbecillità di massa, ma il punto non è questo. Nel migliore dei casi, il web ricorda la biblioteca di Babele, non un’anima del mondo. Ossia, non è una coscienza, bensì un apparato di documenti che induce a compiere certe azioni. Pensare al web come a una intelligenza collettiva rientra in una serie di equivoci sistematici: ritenere che il web sia essenzialmente comunicazione, che produca comprensione, sia fonte quasi spontanea di trasparenza, e soprattutto che costituisca un veicolo di liberazione.
Ovviamente non è così. Prima che comunicazione, il web produce registrazione: genera dei documenti, fa delle cose e ne fa fare delle altre, sulla base della responsabilizzazione che viene dagli ordini scritti. Prima che trasparenza manifesta opacità, che è poi il carattere proprio della realtà sociale — il che d’altra parte suggerisce che non c’è credenza più ingannevole del fare del web un vessillo di immediata trasparenza. Proprio questa illusione ha generato l’idea che il web sia una intelligenza collettiva. In fondo, che cosa siamo noi umani se non animali razionali? Dunque il nostro super-prodotto deve essere un super-cervello, un general intellect trasparente e autocosciente.
Ora, è molto diverso da così. Se c’è una cosa che il web ha rivelato meglio di qualunque altro evento storico o apparato tecnico è che noi siamo animali mobilitati, sottomessi e disposti ad agire a comando, e senza capire il perché. E che agire è per noi il valore fondamentale (che cosa, se non un bisogno fondamentale di azione e di riconoscimento, può spingere a postare gratuitamente dei contenuti sui social, magari con risultati catastrofici?). Questa non è una alienazione, un evento che trasforma l’animale razionale che noi siamo in una animale mobilitato, bensì appunto una rivelazione: credevamo che all’inizio ci fosse il pensiero, mentre all’inizio c’è l’azione.
E allora come pensare questo nuovo mondo? Piuttosto che nei termini di un sapere, bisognerebbe concepirlo nei termini del fare. Lo spostamento e la trasformazione che ha avuto luogo ricorda, piuttosto che la formazione di una nuova biblioteca o (ancora più difficile) di un’anima mundi, l’estensione di un potere e di una azione. L’analogia più stringente è la trasformazione dei poteri così come è stata descritta da Carl Schmitt in Terra e mare (1942). Dopo il passaggio da un potere fluviale a un mare interno al mare aperto di cui Schmitt descrive le fasi, abbiamo un evento imprevisto: il mare aperto e la terra sono ora sottoposte a un unico nomos, il web. Come possiamo ri-concettualizzare questo spazio e questo nomos? Propongo (con un immodesto paragone con il Calvino delle Lezioni americane) sei parole-chiave.
Documentalità. La globalizzazione che unisce terra e mare non dipende dai jet, ma dalla scrittura, una tecnica più vecchia delle piramidi ma che è la sola che permette di trasferire non oggetti fisici, ma oggetti sociali, come il denaro, le leggi, le politiche e le identità. Ma non solo: la scrittura, e la registrazione in generale, compie un miracolo, quello di costruire gli oggetti sociali ( verba volant, scripta manent). La recente e imprevista esplosione della scrittura rivela la natura profonda della realtà sociale, che è composta da documenti, suggerendo che il potere, che Foucault definiva come “governamentalità”, va meglio specificato come “documentalità”.
Inemendabilità. Le nostre parole sui social media, le nostre interazioni sul web, diventano solide come alberi o sedie, e diviene vitale una presa di coscienza di questa circostanza, troppo spesso sottovalutata. Le automobili hanno cessato da mezzo secolo di diventare più veloci. Sono diventate più sicure, più silenziose, più ecologiche. Hanno incorporato, cioè, delle valutazioni dei rischi e dei principi di responsabilità. Per il web nulla di questo è stato ancora fatto, tranne una focalizzazione sulla privacy che viene contestata nei fatti dalla facilità con cui gli esseri umani rinunciano alla privacy nei social network. Occorre insomma una ragion pratica del web.
Mobilitazione. Dai nuovi media ci si attendeva emancipazione dal lavoro, o almeno dalla ripetitività. Quest’ultima la si è avuta, ma, in cambio, si è prodotta una mobilitazione totale delle risorse umane, una mobilitazione che va al di là dello stesso utile economico, e che dunque ci impone un ripensamento della natura umana, alla luce della crescente necessità di riconoscimento e al non meno crescente peso di responsabilità che si manifesta attraverso la mobilitazione documentale.
Emergenza. Questa inemendabilità e questa mobilitazione sono emerse in larga misura al di fuori della intenzionalità umana. Chi ha progettato i primi personal computer non prevedeva in alcun modo che avrebbero trasformato la vita dell’umanità e chi ha inserito la possibilità di scrivere testi nei cellulari non avrebbe mai pensato che la maggior parte del traffico telefonico sarebbe avvenuta per iscritto. Per questo la mia quarta parola-chiave è “emergenza” — non nel senso delle uscite d’emergenza, ma in quello per cui il progetto, l’intenzionalità, la costruzione non scendono dal cielo, ma emergono dal mondo — naturale, sociale e, in questo caso, tecnologico.
Esemplarità. Il richiamo all’emergenza e alla tecnica non significa, come avveniva nel Novecento, rassegnazione. La novità e l’esemplarità di una azione singolare sono sempre possibili, e in effetti hanno luogo. Solo bisogna essere consapevoli della singolarità di queste azioni, che investono responsabilità individuali, e superare l’animismo incline a imputare i mali dell’umanità a entità numinose e spesso astratte come il Mercato, l’Europa, il Capitale.
Documedialità. Il fatto che la realtà sociale sia fatta da documenti (documentalità) e il fatto che oggi non ci sia più differenza tra la carta e il territorio, tra la realtà sociale e la realtà mediale (per cui la documentalità è al tempo stesso documedialità) comporta un ripensamento radicale di vecchie contrapposizioni, e soprattutto della differenziazione, ormai obsoleta, tra scienze e
humanities. Oggi più che mai la scienza come esercizio specialistico ha bisogno di humanities, e oggi più che mai le humanities sono all’altezza della scienza, nel nuovo spazio della documedialità, una sfera in cui la lettera e lo spirito, la natura e la letteratura, gli oggetti sociali, naturali e ideali così come gli artefatti tecnologici trovano nuove forme di interazione, di dialogo, e di progetto.

Partire dai libri così Google comprese la grande intuizione di H.G. WellsLa digitalizzazione della letteratura è alla base degli esperimenti sulle più avanzate forme di A.I. Ora si è passati allo studio dei nostri dati personali.di Jaime D’alessandro Repubblica 19.6.16
1.936, ottant’anni fa. Lo scrittore H.G. Wells, al Royal Institution of Great Britain, teorizzò la nascita di una “mente globale: memoria planetaria ed enciclopedia del sapere a disposizione del genere umano”. Quella lezione avrebbe poi perso la forma di una collezione di brevi saggi intitolata World Brain. Nel 1962, nella raccolta di articoli Profiles of the Future, Arthur C. Clarke aggiunse un secondo passaggio evolutivo verso un’intelligenza artificiale vera e propria a disposizione del mondo. Ecco, quella mente globale sembra stia nascendo. Per ora sono forme di pensiero sintetico piuttosto limitate ma sulle quali stanno investendo miliardi di dollari Amazon, Ibm, Facebook, Microsoft e Google che giovedì ha annunciato di aver aperto un nuovo centro di ricerca in Svizzera, vicino a quello della Ibm, dopo aver acquisito l’inglese Deep-Mind nel 2014 per mezzo miliardo di dollari. È la stessa azienda che ha messo a punto l’intelligenza artificiale capace di battere diversi campioni di Go, ben più complesso degli scacchi.
«Buona parte degli addetti ai lavori crede che arriveremo ad una intelligenza capace di pensare autonomamente spaziando a 360 gradi», racconta al telefono Perdo Domingos, professore all’Università di Washington in computer science. «Il punto è capire quando». Nel suo libro L’algoritmo definitivo (Bollati Boringhieri), consigliato da Bill Gates come uno dei due testi fondamentali sull’argomento assieme a Superintelligence di Nick Bostrom, Domingos ipotizza la nascita di un algoritmo simile per certi versi all’entità di Arthur C. Clarke considerando quel che sta accadendo.
Colpisce l’accelerazione: cinque anni fa su una vittoria a Go da parte di una macchina non avrebbero scommesso in tanti. Né si pensava che sarebbero state in grado di tradurre in simultanea una chiacchierata fra una persona che parla in mandarino e un’altra che si esprime in inglese. Miracoli che nascono in parte da un ossimoro: la forma più avanzata di intelligenza artificiale è figlia di uno dei mezzi più antichi di trasmissione della conoscenza, i libri. È stato sottolineato spesso negli ultimi tempi, anche se è dal 2004 che gli indizi hanno iniziato a moltiplicarsi. Vennero però fraintesi, ci fu perfino una causa per violazione del diritto d’autore e una sentenza di condanna della corte di appello di New York nel marzo del 2011. Ma andiamo per gradi. Oggi possiamo insegnare a un computer dotato di vista e udito, come ha dimostrato la Ibm con il braccio meccanico Eli, a riconoscere cose e concetti parlandoci come si trattasse di un bambino. Dall’afferrare una bottiglia, distinguendola da un bicchiere, al sapere cos’è il colore rosso.
«Un risultato del genere è frutto di quattro fattori e di molte coincidenze», racconta Alessandro Curioni, vice presidente della Ibm, a capo del centro di ricerca di Zurigo. «La ricerca dell’intelligenza artificiale è tornata in auge grazie ai progressi nel campo degli algoritmi, all’enorme disponibilità di dati che sono essenziali per far imparare le macchine, alla crescita della potenza di calcolo dei processori e al fatto di poter accedere a quella potenza anche da lontano attraverso la Rete».
Google la sua l’ha messa assieme partendo dalla letteratura con Google Books, progetto cominciato nel 2004. In apparenza aveva l’ambizione di trasferire in digitale tutto quello che l’uomo ha prodotto in forma di libro, l’indice del sapere immaginato da Wells. L’azienda, dopo aver digitalizzato venti milioni di volumi, fu condannata a pagare 125 milioni di dollari per violazione del copyright dal giudice Danny Chin che però riconobbe che il progetto non era a fini di lucro. Non lo era, malgrado la scansione costasse circa 150 dollari a libro, perché avrebbe dato un vantaggio strategico che solo ora si inizia a delineare.
«Molti sono spaventati dalla nascita di una intelligenza del genere », commenta Domingos. «Ma sa cosa penso? Che i pericoli maggiori vengono dal fatto che è ancora troppo stupida e se abile, abile solo in compiti molto specifici. Finché si tratta di Siri che non capisce quel che le si dice non è un gran problema, diverso il caso di un’auto che guida da sola». Nel frattempo i libri hanno perso importanza, come palestra bastiamo noi e i dati che produciamo fra testi, foto, spostamenti usando le mappe e interazioni sui social network. Una miniera d’oro per quel che sarà la mente globale di domani, che i più ottimisti danno per certa da qui ai prossimi trent’anni.

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