mercoledì 22 giugno 2016

Non sapendo che pesci prendere, ognuno si inventa il populismo che gli piace


Il populismo come forma di tecnologia comunicativa 
La girandola di alleanze possibili dopo il 26J. Il partito si candida a riparare i guasti della crisi e delle politiche neo-liberiste, vuole aggiustare e modernizzare, più che trasformare. L’etichetta «populista» è quindi utile a comprenderlo solo se si intende il populismo come quello che è

Loris Caruso Manifesto 22.6.2016, 23:59 
A pochi giorni dalle elezioni spagnole, dai sondaggi emerge un quadro uniforme: il primo partito dovrebbe essere ancora il PP di Rajoy (28-30%), la coalizione di Podemos e Izquierda Unida (Unidos Podemos) sarebbe seconda (24-26%), il Psoe terzo (20-22%), Ciudadanos quarto (13-15%). Uno dei temi più dibattuti in campagna è quello delle alleanze post-elettorali. Con chi si alleerebbero i diversi partiti? Si assiste a un paradosso. 
Tutti cercano di sedurre il partito socialista. Il PP gli propone una grande coalizione, Unidos Podemos un governo progressista, Ciudadanos un governo riformista. Tutti lo vogliono, ma il Psoe si nega. Non esprime preferenze. Non può farlo. Le sue divisioni interne e la necessità di mobilitare la base per resistere all’«assalto» di Unidos Podemos lo rendono afono, timoroso di scontentare una parte dei propri dirigenti ed elettori. Ma il Psoe, in realtà, ha scelto. Lo ha fatto già dopo le elezioni di dicembre, firmando un accordo di governo con Ciudadanos. Tutto lascia pensare che anche questa volta eviterà di governare con Podemos. 
Per due motivi. Sa, come tutti coloro che hanno letto i documenti pubblici di Podemos in questi anni, che il suo principale obiettivo è sostituire il Psoe come principale partito progressista di Spagna. L’insistenza di Iglesias sulla volontà di formare un governo con i socialisti viene così interpretata come un «abbraccio mortale». Ma il motivo più importante è il secondo. Come tutti i partiti socialisti europei, la funzione del Psoe è quella di fare da garante, presso Ue e poteri economico-finanziari, delle politiche neoliberiste e di austerità. Per svolgere questa funzione, i coraggiosi socialisti europei sono disposti anche alla missioni suicide. Zapatero adottò politiche anti-popolari sapendo che gli avrebbero fatto perdere le elezioni. Hollande e Valls, piuttoto che trattare con movimenti e sindacati, aprono la strada a Sarkozy. Renzi è l’incarnazione estrema di questa vocazione al martirio (incorporata, come un timer, nella sua stessa ascesa). 
Podemos è al centro della campagna elettorale del Psoe: lo personalizza, chiamandolo «il partito del signor Iglesias», sapendo che «il signor Iglesias» è il punto di forza e il punto di debolezza di Podemos, un leader polarizzante che suscita identificazione in chi lo vota e forte avversità negli altri. Lo descrive come un partito che ambisce all’accumulazione di «poltrone» e ad essere leader dell’opposizione, mentre non ha la volontà e la maturità per essere forza di governo. Sono armi spuntate. Igleasis è stato il primo, a gennaio, a proporre un governo presieduto dal socialista Sanchez, mentre il Psoe proponeva a Podemos quanto Bersani propose ai 5 Stelle nel 2013: votare il suo governo senza farne parte. Sul piano della propensione ad essere forza di governo, Podemos governa molte delle principali città spagnole, sostenuto anche dai socialisti. 
Alla concentrazione dei socialisti su quanto avvenuto nei mesi scorsi, Podemos risponde con una campagna in positivo che parla esclusivamente del post-elezioni. Non si rivolge mai ai socialisti in modo polemico. Anzi, non si rivolge mai ai socialisti. Incassa gli attacchi e insiste sul fatto di considerare il Psoe il proprio alleato naturale. Ne seduce l’elettorato. Il discorso elettorale di Podemos, proprio dopo aver sancito con IU un’alleanza che lo colloca nettamente a sinistra, si è fatto più trasversalista che mai. Come si sa, dalla sua nascita, Podemos ha eletto frontiere e linee di divisione alternative alla contrapposizione destra/sinistra. Il suo discorso divide la società in due mondi contrapposti (come fanno tutti i discorsi politici efficaci): gente/casta; basso/alto; democrazia/oligarchia, maggioranza/élite, nuova politica/vecchia politica, cambiamento/continuità. Da un lato ci sono «Loro», gli avversari: la minoranza ricca e privilegiata, che sposta le sue ricchezze nei paradisi fiscali, non paga le tasse, corrompe, vive di connivenze con la politica, abbassa i salari, taglia i servizi, elimina diritti. Dall’altro lato «la gente», coraggiosa, umile, dignitosa, comune, anonima. Questa «gente» è la Patria spagnola. Gli avversari sono gli anti-patrioti, gli anti-sistema. 
È questo un discorso populista? Lo è, se definiamo populista anche il discorso dei rivoluzionari francesi de 1789, formalmente del tutto affine a quello di partiti che oggi vengono definiti «populismi di sinistra»: il popolo contro i privilegiati, i produttori contro i parassiti, la volontà generale contro il dominio della minoranza. O quello di molti partiti comunisti del ‘900, e di molte rivoluzioni che oltre che socialiste sono state patriottiche e nazionali. Non che Podemos abbia nulla di rivoluzionario. Si presenta come un partito socialdemocratico, e lo è. Sostiene di essere il partito della legge e dell’ordine, che realizza la Costituzione, combatte la corruzione, rafforza i servizi pubblici, favorisce il lavoro stabile, opera una certa redistribuzione del reddito, realizza politiche espansive, garantisce a tutti l’accesso ai beni essenziali. Il linguaggio da campagna elettorale di Podemos non va molto al di là di questo. Non ha nulla di radicale. Assume un profilo che si potrebbe definire di liberalismo sociale. Più Stuart Mill che Marx, con venature di Eva Peròn. 
Il partito si candida a riparare i guasti della crisi e delle politiche neo-liberiste, vuole aggiustare e modernizzare, più che trasformare. L’etichetta «populista» è quindi utile a comprenderlo solo se si intende il populismo come quello che è: poco più che una tecnologia comunicativa. Una tecnologia tremendamente efficace. Mentre il Psoe rischia di implodere, Podemos può raggiungere il suo obiettivo principale: sostituirlo. I veri problemi inizierebbero, come sempre per la sinistra, se dovesse andare al governo.

La Podemos di de Magistris. E incontra Varoufakis Corriere 22.6.16
L’incontro di domani con Varoufakis e la definizione della nuova giunta in tempi rapidi. Dopo la conferma al ballottaggio, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris
lavora su due fronti: da una parte il progetto per una «Podemos partenopea» per portare «l’esperienza Napoli in giro per l’Italia e nel mondo» e dall’altra le priorità a livello cittadino, e cioè varare una giunta a undici basata in gran parte su conferme. L’incontro a Roma con il ministro dell’Economia in Grecia nel primo governo Tsipras si spiega con la necessità di «raccontare cosa è successo a Napoli». Una città, per de Magistris, sempre più «soggetto politico autonomo», non per creare un partito, ma per «portare questo grande progetto di
partecipazione a sindaci italiani e stranieri». Sul fronte più domestico della giunta, invece, il sindaco dovrà sciogliere il nodo dei tre assessori uscenti che sono stati eletti nel nuovo consiglio e saranno quindi chiamati a scegliere tra i due incarichi.
Intanto, la sua vittoria apre le porte del consiglio comunale ad Anna Ulleto, indagata nell’ambito dell’inchiesta per presunti episodi di voto di scambio. La candidata pd alle comunali si era autosospesa dal partito e quindi formerà un gruppo misto in aula. In caso di vittoria di Lettieri, Ulleto sarebbe rimasta tagliata fuori.

Javier Cercas Il 26 seconde elezioni in sei mesi. Lo scrittore: “Avranno la meglio gli intransigenti. Non mi fido di Iglesias” “La Spagna alle urne arrabbiata con i politici Con un Psoe irrilevante si rischia il terremoto”
Podemos assicura che canalizzerà lo scontento in senso positivo, ma io non credo che ne verrà qualcosa di buono In caso di sconfitta Pedro Sánchez sarebbe costretto a dimettersi. Il partito precipiterebbe nel caos
intervista di Alessandro Oppes Repubblica 22.6.16
MADRID. «Il clima sociale è di rabbia, di rifiuto totale nei confronti della classe politica. Così, altrove, sono nati fenomeni come Berlusconi, Trump o Le Pen. Qui Podemos assicura che canalizzerà lo scontento in senso positivo. Ma io non credo affatto che dalla furia e dal risentimento, per quanto giustificato, possa venir fuori qualcosa di buono». È preoccupato lo scrittore Javier Cercas dall’avanzata del partito di Pablo Iglesias nei sondaggi, quando mancano appena 4 giorni alle politiche di domenica, le seconde elezioni in sei mesi, dopo la legislatura fallita per l’incapacità dei partiti di dar vita a un esecutivo.
Si è solo perso tempo, o questa nuova campagna che si conclude può servire a sbrogliare la matassa della politica spagnola?
«Se serve a qualcosa, è che può aiutare la gente ad apprendere. E mi riferisco più agli elettori che ai politici, che hanno maggiori difficoltà a trarre una lezione dagli errori. Succede una cosa molto strana: i due partiti che più seriamente hanno cercato di raggiungere un accordo nella legislatura precedente, Psoe e Ciudadanos, secondo tutti i sondaggi sono quelli che verranno castigati. In questo paese non siamo abituati a stipulare patti. Chi negozia, vuol dire che si arrende. Fa parte della nostra tradizione di intolleranza. Significa non capire che esiste la politica democratica, che vuol dire essere disponibili a cedere nell’accessorio per non cedere nell’essenziale. Temo che avranno la meglio i più intransigenti. Ovviamente, sempre che dalle urne britanniche non esca un voto pro-Brexit, che cambierebbe gli scenari in modo drammatico».
Eppure, in queste settimane, il tema Brexit così come i riferimenti alla politica europea sono stati quasi completamente assenti nel confronto politico.
«C’è un paradosso straordinario: la Spagna è uno dei paesi più europeisti della Ue, ma allo stesso tempo è quello in cui meno si parla dell’Europa. Soprattutto nelle campagne elettorali, perché il tema non porta voti, anche se la nostra dipendenza dall’Unione è enorme, il margine di manovra del governo è molto ridotto ».
Crede che, nonostante il fallimento dell’ultima legislatura, il livello di polarizzazione sia rimasto molto alto?
«Se, come temo, verranno premiati quei partiti che in questi mesi hanno ostacolato la formazione di un governo, cioè Pp e Podemos, il grado di polarizzazione resterà molto alto. Potremmo assistere a un grande terremoto, perché un partito fondamentale nella democrazia spagnola, il Psoe, può terminare confinato nell’irrilevanza. In caso di sconfitta, Pedro Sánchez sarebbe costretto a dimettersi, e questo potrebbe far precipitare il partito verso una sorta di pasokizzazione (da Pasok, i socialisti greci, ndr), verso il caos. Se succede, tanto i popolari come Podemos avranno raggiunto il loro obiettivo».
Pablo Iglesias, proprio ora che si è alleato con i comunisti, si dichiara socialdemocratico. Ha ancora senso ricorrere a un discorso di appartenenza ideologica in questa fase politica?
«Lo dovrebbe avere, perché servirebbe per spiegare che tipo di politica ogni partito ha intenzione di applicare. Se sono neoliberale prenderò certe decisioni, se sono socialdemocratico ne prenderò altre».
Ma Iglesias che politico è?
Ieri ha dichiarato che il pragmatismo è una strategia per arrivare al governo.
«E’ questo il punto. L’unica cosa chiara è che il suo obiettivo è quello di conquistare il potere. A me risulta estremamente complicato fidarmi di una persona come lui. Nello spazio di una settimana è capace di dire una cosa e l’esatto contrario. Passa dal comunismo alla socialdemocrazia. Un giorno proclama che il referendum in Catalogna è un’esigenza irrinunciabile e poi sostiene che è solo una proposta. È capace di mentire con una straordinaria tranquillità».

Ascoltare e parlare alla società in movimento Sinistra. L’arma pedagogica è spuntata. Più proficuo rivolgersi alle centinaia di associazioni e movimenti auto-organizzati. Come agli albori del socialismo europeo Ignazio Masulli Manifesto 24.6.2016, 23:59
I risultati elettorali impongono alle forze di sinistra una riflessione critica non facile e che proseguirà nei prossimi mesi. Da anni si lavora per la costituzione di un nuovo soggetto politico di sinistra capace di colmare il vuoto che separa milioni di persone dai partiti di governo. Un vuoto che si esprime sia in un astensionismo crescente ad ogni tornata elettorale sia in un disorientamento nelle scelte da compiere.
Al fondo c’è un malessere sociale diffuso in ampi strati della popolazione ma che sembra non trovare sbocco in un progetto di trasformazione sociale e politica in grado di interpretarlo adeguatamente. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi. E per trovare elementi di spiegazione utili occorre risalire alla fine degli anni ’90 ed alla rottura che allora si consumò con quel che restava del riformismo e della tradizione socialdemocratica europea.
La frattura si espresse nella «terza via» teorizzata da Tony Blair, nel «nuovo centro» proposto da Gerhard Schröder, contrassegnò i ripiegamenti dei socialisti francesi e provocò la crisi del secondo centro-sinistra in Italia.
Nell’ultimo decennio l’ulteriore rafforzamento e concentrazione del sistema di potere dominante ha imposto un appiattimento ancor maggiore degli equilibri politici. I governi di coalizione o di pseudo-alternanza in vari paesi europei hanno accentuato il vuoto di proposte politiche alternative. Si aggiungano politiche di rigore a senso unico, flessibilità del lavoro, tagli alle spese sociali predicate dall’Unione europea e diligentemente adottate dai governi degli stati membri, e ci si renderà ragione di quella sorta d’ingabbiamento politico dal quale sembra difficile uscire.
Occorre chiedersi se sia sufficiente che un raggruppamento politico elabori un programma di cambiamento, per quanto articolato e corrispondente a bisogni reali, e lo propagandi diffusamente per far convergere su di esso un ampio consenso da tradurre in voti e, per questa via, modificare l’assetto politico. L’esperienza dimostra che programmi del genere possono risultare inefficaci.
In altri termini, non si può pensare di svolgere un’azione politica efficace per via “pedagogica”. Quando si è davanti a vasti strati di popolazione che, già di per sé passivi, sono sfiduciati e distaccati, gli appelli all’impegno politico sono destinati a cadere nel vuoto. La strada da percorrere sembra piuttosto quella di far riferimento a quei settori della popolazione che sono politicamente attivi e in movimento.
Basta ricordare come sono nati i sindacati di massa e i primi partiti socialisti nell’Europa di fine Ottocento. Da tempo esistevano gruppi socialisti di varie tendenze, ma la loro azione a lungo ebbe un seguito assai limitato. Però quando masse di operai e contadini, colpiti dai duri effetti della seconda rivoluzione industriale e dalla più decisa trasformazione capitalistica delle campagne furono costretti ad auto-organizzarsi per difendersi e resistere, allora e solo allora alcuni gruppi socialisti riuscirono a collegarsi con lavoratrici e lavoratori che erano già in movimento.
L’insegnamento che viene da quella e da altre fondamentali tappe della storia del socialismo in Europa consiste appunto nel fatto che gruppi, o «avanguardie», promotori di mutamenti sociali e politici hanno raggiunto dimensioni di massa quando sono riusciti a interpretare bisogni e rivendicazioni espressi da movimenti in essere.
Anche oggi la sinistra europea deve cercare la connessione con soggetti sociali già attivi. Basta guardarsi intorno. In Italia, come in altri paesi, vi sono centinaia di associazioni e movimenti auto-organizzati che si battono per vari obiettivi politici e sociali. Si va dalla difesa dei diritti umani alla salvaguardia dell’ambiente, dalla lotta contro le discriminazioni di genere a quella contro la precarietà del lavoro, dai movimenti in difesa della scuola pubblica a quelli contro i tagli alla sanità. Le numerose lotte per i diritti dei lavoratori non di rado si sono consolidate in organizzazioni durevoli che si affiancano o competono con l’azione dei sindacati tradizionali.
Sempre più numerose e di varia ispirazione sono le associazioni che si mobilitano in difesa dei diritti degli immigrati e per politiche di accoglienza. Altrettanto significativo è l’impegno di quanti militano in associazioni pacifiste, per debellare fame e malattie endemiche nei paesi più poveri. O nelle organizzazioni in difesa dei beni comuni o della stessa Costituzione.
Molte di queste organizzazioni svolgono la loro azione in modo implicitamente o esplicitamente alternativo alla mappa degli interessi, poteri e politiche dominanti. Con tratti d’unione potenziali o in atto tra i diversi movimenti. Realtà testimoniata anche dal fatto che molte persone militano in più movimenti e organizzazioni di questo tipo. D’altra parte, non c’è dubbio che le rivendicazioni e gli obiettivi perseguiti attingono a livelli di consapevolezza politica decisamente alti. Né si può trascurare minimamente il fatto che molte di queste organizzazioni hanno carattere internazionale o si collegano ad omologhe attive in altri paesi. È a questi movimenti che occorre guardare. È con essi che si può e si deve cercare la saldatura comprendendone la maieutica e le nuove forme di espressione politica.
In che modo è avvenuto il coagulo di movimenti come gli Indignados spagnoli poi sfociati nella formazione di Podemos? Come è lievitato il movimento di Occupy Wall Street e come si è intrecciato ad altri fino a costituire la base più attiva dell’elettorato di Bernie Sanders nelle primarie americane? E da dove nasce la forza insospettata e irriducibile del movimento di protesta contro la Loi Travail in Francia? Perché nulla di simile si è verificato nel contrastare il Jobs Act italiano, che pure è decisamente peggiore?
Auto-organizzazione, trasversalità, maieutica dei movimenti ci sembrano elementi da cui non si può prescindere se si vogliono innescare processi di trasformazione in una società in cui i vincoli sembrano prevalere sulle possibilità.

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