lunedì 6 giugno 2016

Nuova Guerra Fredda: i dittatori scrivono la storia a piacimento, l'Occidente liberale non si permetterebbe mai!



Riscrivere la Storia  Come le democrazie illiberali usano la cultura e il passato per legittimarsi
Da Putin a Erdogan, dalla Polonia all’Ungheria. Ma è l’India di Modi il caso esemplare di un utilizzo strumentale della tradizione per finalità identitarie

ROBERTO TOSCANO Restampa 5 6 2016
Uno dei fenomeni che caratterizzano il nostro tempo è quello dell’onda montante delle “democrazie illiberali” — democrazie perché i governi si basano sul consenso elettorale; illiberali perché una volta conquistato il potere lo gestiscono senza rispetto per le minoranze, la libertà di stampa, lo stato di diritto. Quello che le accomuna è la ricerca di una legittimazione sul terreno della cultura e della storia: Putin solleva le icone della Santa Russia ed esalta i valori conservatori di un popolo chiamato a contrapporre quei sani valori alla modernità corrotta dell’Occidente; Erdogan, novello sultano, rievoca le glorie ottomane e promuove sistematicamente un’identità turca in cui religione e nazione si fondono. E si potrebbe continuare con il caso della Polonia e dell’Ungheria, impegnate in una rilettura identitaria della storia.
È vero anche nell’India del primo ministro Modi, dove sono in corso “battaglie culturali” che riguardano soprattutto la definizione dell’identità indiana, che il governo del Bjp pretende di far coincidere con l’identità indù. Si tratta di un’offensiva ideologica particolarmente pericolosa nella misura in cui mira alle radici stesse della democrazia indiana nata sulla base di principi di pluralismo anche religioso — gli unici che possano permettere la convivenza in un paese così immenso e così straordinariamente diverso.
Alla base di questa ideologia e di questo progetto politico troviamo una precisa (e distorta) visione della storia dell’India. In questa visione la civiltà indù viene descritta non solo come antichissima, ma come omogenea e avanzatissima. Intellettuali organici al Bjp non hanno remore nel pubblicare demenziali libri e articoli su viaggi spaziali e chirurgia estetica che la superiore civiltà indù sarebbe stata capace di realizzare qualche migliaia di anni fa. Secondo questa “storia ufficiale” questa età dell’oro venne interrotta dall’arrivo di feroci (e inferiori) invasori. Per primi i musulmani seguiti, secoli dopo, dai britannici. In un recente discorso Modi ha detto che non bastava ricordare i «200 anni di schiavitù» patiti dall’India sotto il dominio coloniale inglese, ma anche i «1.200 anni di schiavitù», quelli del dominio musulmano. Emerge qui un cruciale nesso con la questione religiosa. È da questa schiavitù, prodotto di conquiste e oppressione, che viene fatta dipendere la presenza in India di milioni di musulmani e cristiani, strappati con la violenza alla religione indù. Storia ideologizzata, e come tale facilmente contestabile. Infatti, se è vero che l’arrivo in India di islam e cristianesimo è legato alla conquista musulmana e al colonialismo britannico, è falso che la conversione di milioni di indù sia stata di natura forzosa. In realtà sia nel caso dell’islam che del cristianesimo l’adesione alle religioni “importate” dipese essenzialmente dall’aspirazione — da parte di numerosissimi appartenenti alle caste inferiori, e ancora di più ai “fuori casta”, gli intoccabili o Dalit — ad abbandonare una religione che li considerava esseri inferiori, umiliati ed esclusi. Le conversioni, quindi, si spiegano con la forza del messaggio ugualitario che caratterizza sia islam che cristianesimo.
Proprio questa teoria della conversione forzata spiega la peculiare linea di condotta del fondamentalismo indù nei confronti della questione religiosa, una linea radicalmente opposta a quella dei fondamentalisti islamici, con cui pure coincidono per molti altri versi, a partire dal ricorso alla violenza in nome della religione. I radicali musulmani — oggi egemonizzati dal wahabismo promosso e finanziato dai sauditi — sono definiti takfiri (quelli che escludono, dividono) in quanto si arrogano il diritto di dire chi è vero musulmano e chi invece è apostata mascherato o eretico. I radicali indù, invece, vogliono includere. Per loro, tutti gli indiani, anche quelli di altre religioni, sono in realtà indù, e dovrebbero essere richiamati alla casa comune. Si chiama infatti “ritorno a casa” la campagna condotta per promuovere le ri-conversioni all’induismo.
Un progetto esclusivo che prende di mira il pluralismo religioso dell’India come una patologia da curare, una violenza da invertire, e che si estende anche a religioni che, avendo avuto origine dall’induismo (i Buddisti, i Sikh, i Jain)gli ideologi contemporanei dell’induismo tendono — indifferenti alle loro obiezioni — a considerare come appartenenti al grande alveo dell’induismo.
Ma perché non immaginare che questa confluenza possa ricostruire quella “galassia indù” capace di comprendere tante tendenze quante divinità, e tanti riti e interpretazioni quante le lingue del subcontinente? In fondo era questo l’induismo originale: “induismo” è un termine non-indù inventato dai conquistatori musulmani per dare un senso a un fenomeno estremamente plurale, senza una teologia, con un’etica complessa e sempre aperta alla controversia, senza una liturgia unificata. Abbracciare tutti per ricreare all’interno di un unico alveo una pluralità di correnti: perché no? Ma che il pan-induismo pluralista sia un’utopia lo rivelano vari fattori.
In primo luogo, i metodi con cui viene perseguito sono l’opposto del pluralismo. L’Rss, il movimento dal quale proviene Modi, è un organismo i cui dirigenti, fin dalla fondazione, non hanno nascosto le simpatie per il fascismo italiano e poi per il nazismo. Non solo: esso si struttura nella società in una serie di organizzazioni di militanti, dal Vhp, fronte induista internazionale (con un forte appoggio nella diaspora indiana) al Bajrang Dal, un gruppo squadrista in prima fila nelle violenze settarie.
Vi sono poi clamorosi episodi d’intolleranza, come la distruzione della Babri Masjid, la moschea del ‘500 rasa al suolo a colpi di martello nel 1992 da decine di migliaia attivisti capeggiati da dirigenti Rss e Bjp e, molto più atroce, il pogrom di Ahmedabad, in Gujarat, quando centinaia di musulmani vennero trucidati con la passività e probabilmente la connivenza del governo locale, capeggiato da Narendra Modi. Senza contare lo stillicidio di episodi locali, come il linciaggio di un musulmano accusato di conservare nel frigorifero carne bovina, la cui macellazione e consumo è oggetto di proibizione (alla faccia della tolleranza) in alcuni stati della federazione indiana — una proibizione che l’attuale governo intende estendere a tutto il paese.
La minaccia al pluralismo che è il nucleo essenziale della straordinaria ricchezza e dello straordinario fascino della civiltà indiana si estende al piano culturale. Si registrano infatti numerosi episodi di epurazione ideologica ai vertici di organismi dello stato e della società civile, dove qualificatissimi esponenti del mondo accademico e intellettuale vengono sostituiti da ideologi nazional- induisti.
La censura, e ancora più frequentemente l’auto-censura di fronte alle pressioni del potere, colpisce la produzione di saggi “sgraditi” soprattutto in materia di religione e storia dell’India. La più grande studiosa della storia antica dell’India, Romila Thapar, è oggetto di attacchi per i suoi lavori e per la sua critica serrata a quella che definisce «l’intepretazione settaria della storia» promossa dall’attuale governo, che sta anche rivedendo in senso nazional-induista (come del resto aveva iniziato a fare il governo Bjp in carica nel 2002) i libri di testo scolastici.
Non mancano gli attacchi ai più qualificati studiosi stranieri di induismo e sanscrito. È successo a Wendy Doniger, dell’Università di Chicago. Il suo libro The Hindus è stato ritirato dalla vendita e mandato al macero dalla Penguin India, timorosa delle possibili violenze dei fondamentalisti indù, che avevano denunciato un’analisi “sacrilega” (la studiosa utilizza anche strumenti psicanalitici per interpretare i testi sacri indù).
È uno scontro sempre più duro da cui dipenderà lo stesso futuro dell’India, un paese che potrà realizzare tutto il suo straordinario potenziale in termini di crescita e peso internazionale solo se saprà preservare quegli ideali e quel progetto di democrazia plurale e di religiosità non settaria che fu proprio del mahatma Gandhi. In India, e non solo in India, i veri patrioti non sono i nazionalisti, tanto meno quelli che basano i propri disegni autoritari su un’interpretazione integrista e settaria della religione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Un morbo si diffonde in tutto il pianeta dai manuali ai museiSIMONETTA FIORI  Restampa 5 6 2016
A Danzica il memoriale della Seconda guerra mondiale deve celebrare solo la Polonia. Ma anche in Italia si sono avviate revisioni a scopo politico
Nel cuore dell’Europa la riscrittura della storia ha la forma di una gru. A Danzica, simbolicamente sospesa su un edificio di mattoni rossi. Se il governo conservatore di Varsavia non cambierà idea, presto potrebbero essere prelevati dall’enorme palazzo un carrarmato tedesco, un altro sovietico e una locomotiva tedesca. Il museo della seconda guerra mondiale non s’ha da fare. Troppo globale e troppo poco polacco, ha sentenziato il primo ministro di Diritto e Giustizia. E la comunità internazionale degli storici è scesa nella piazza elettronica per manifestare disappunto: «È in gioco il rapporto con la storia. E quindi con la democrazia».
Ma prima di vedere cosa si nasconda dietro la gru di Danzica, simbolo del nazionalismo storiografico sempre più aggressivo nell’Europa centro-orientale, va detto che la riscrittura della storia è un esercizio molto diffuso, a ogni latitudine e sotto qualsiasi regime. Neppure le democrazie più illuminate ne sono immuni, come dimostrava qualche anno fa un documentato saggio di Giuliano Procacci sui manuali di storia: anche nella liberalissima Europa regole e protocolli marcano stretto l’autore dei libri di testo. E più lo Stato è di recente formazione, più forte è l’assillo identitario che porta a “reinventare la tradizione”, per usare una felice formula di Hobsbawm.
Nessuno quindi si può dichiarare innocente, naturalmente con diversi gradi di colpevolezza. Anche noi nel nostro piccolo abbiamo vissuto il brivido revisionista, con la Padania benedetta da Bossi, i manuali minacciati da Storace e il revanscismo borbonico di qualche studioso meridionale. Ma sembrano storie minute e lontane rispetto a ben altre guerre tra manuali come quella tuttora in corso tra Cina e Giappone. E se i libri di testo giapponesi liquidano come un incidente senza vittime il cosiddetto “stupro di Nanchino” (l’invasione nipponica dell’allora capitale cinese, 300 mila morti nel 1937), la parata celebrata l’estate scorsa a Pechino per i settant’anni dalla vittoria s’è svolta nel segno di omissioni e falsità, con la cacciata di Chiang Kai-shek dalla storia e onori resi solo al resistente Mao Zedong.
Oggi il fervore di riscrittura storica sembra animarsi soprattutto nell’Europa illiberale, tra Russia, Ungheria e Polonia, energicamente impegnate a ridefinire la loro carta d’identità. La tecnica è quasi sempre la stessa, minimizzare le nefandezze di casa propria per enfatizzare quelle degli altri. E spesso l’oggetto di revisione è la seconda guerra mondiale, da cui è scaturito il successivo ordine europeo. Sotto il severo controllo di Putin, la manualistica nazionalista tende a riabilitare Stalin come pezzo importante della grande storia russa, edulcorando gli orrori dei gulag e della repressione. Mentre in Ungheria il governo reazionario di Viktor Orban tende ad attribuire la vergogna delle persecuzioni antisemite alla sola Germania nazista, dimenticando la complicità del nazionalista Miklos Horthy, proprio quell’antenato che viene spesso annoverato nel Pantheon nazionale.
Il caso più interessante va però cercato a Danzica, dove il governo di Beata Szydlo ha bloccato la realizzazione del museo della seconda guerra mondiale, il più grande mai costruito prima, con il sostegno di una équipe internazionale che vi ha lavorato per otto anni. Finalmente il racconto del conflitto più devastante non più con uno sguardo nazionale ma secondo una prospettiva comparativa e globale. Forse un progetto troppo ambizioso per un esecutivo che agita la bandiera identitaria, tanto da lamentare la mancanza di “un punto di vista polacco”. Cosa voglia dire non è chiaro. È chiaro però che al posto del nuovo museo globale, praticamente già pronto, sorgerà un allestimento incentrato esclusivamente su una battaglia patriottica di resistenza ai tedeschi. In altre parole, solo medaglie e nient’altro.
Perché il caso ha sollevato proteste autorevoli e un lungo articolo dello storico Timothy Snyder sulla New York Review of Books? Il nuovo approccio del museo di Danzica avrebbe messo fine alla presunzione d’innocenza, avanzata dalla Polonia ma condivisa da molti altri. Non esistono paesi colpevoli e paesi innocenti, ammonisce l’autore di
Terre di sangue. Anche la Polonia, pur vittima di due devastanti occupazioni di segno opposto, nazista e stalinista, si rese responsabile di un eccidio come il pogrom di Jedwabne. Furono i cittadini polacchi, non i soldati tedeschi, a uccidere diverse centinaia e forse migliaia di ebrei. Un capitolo poco nobile tra molti altri di grande eroismo. Ma questa perdita d’innocenza alla premier polacca non piace, perché spezza l’incantesimo che divide l’Europa e il mondo in comunità carnefici e comunità vittime, giustificando risentimenti e rivendicazioni nazionalistiche. La gru di Danzica minaccia non solo una prospettiva storica ma anche il modo di guardare oggi all’Europa e alla democrazia. Anche per questo, dicono gli storici, bisognerebbe fermarla. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: