domenica 12 giugno 2016

Orgoglio statale. Confindustria e giornali "non conformisti" scatenati



Alla faccia delle merdacce neoliberali - quelle sincere e spontanee come il Renzi, quelle più pudiche e opportuniste come il Bersani lenzuolatore - la costituzione e la legislazione democratica ci difendono ancora oggi, nonostante noi stessi.
E' una metafora della situazione complessiva: per poco, ma viviamo di rendita delle conquiste del passato, quando le classi subalterne sapevano rispondere alla guerra di classe dall'alto con il conflitto organizzato dal basso e nelle istituzioni.

Purtroppo questo argine non resisterà a lungo. Questo è il senso dell'assalto referendario di ottobre [SGA].

La Cassazione: per gli statali l’articolo 18 resta
I giudici cambiano orientamento: «Nel pubblico impiego non valgono riforma Fornero e Jobs Act» di Gianni Trovati  Il Sole 10.6.16
ROMA Contrordine. Negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello scritto nel 1970, e la legge Fornero del 2012 (così come il Jobs Act del 2014) restano confinati al mondo privato. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 11868/2016 depositata ieri dalla sezione lavoro, analizzando il caso di un dipendente del ministero delle Infrastrutture che risultava in servizio negli stessi giorni sia a Roma sia a Bussolengo, una quindicina di chilometri a ovest di Verona, senza traccia di viaggi aerei. La decisione, che ha comunque confermato il licenziamento perché i fatti erano provati, si dilunga però sull’articolo 18 e va in senso contrario a quanto la stessa sezione aveva scritto a novembre nella sentenza 24157 del 2015. In quell’occasione, con una decisione innovativa che aveva fatto discutere, i giudici avevano aperto le porte della pubblica amministrazione alla riforma Fornero, che in pratica limita la reintegra ai casi di «manifesta insussistenza» delle ragioni alla base del licenziamento, con un ragionamento che avrebbe potuto portare anche all’applicazione delle «tutele crescenti» previste dal Jobs Act per gli assunti dal 7 marzo del 2014.
A dividere i giudici (solo uno dei cinque componenti del collegio è stato della partita in entrambe le occasioni) è il frutto di un intrico normativo figlio dei tanti tira e molla che hanno accompagnato un tema a così alta sensibilità politica. Il testo unico del pubblico impiego scritto nel decreto legislativo 165 del 2001 spiega, all’articolo 51, che ai dipendenti pubblici «contrattualizzati» (cioè tutti tranne professori universitari, magistrati e militari) si applica lo Statuto dei lavoratori con le sue «successive modificazioni ed integrazioni». Dal canto suo la riforma Fornero (legge 92/2012) riscrive i meccanismi di tutela per i licenziamenti economici e sottolinea che le novità «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro» negli uffici pubblici. Tocca però al ministro per la Pa e l’Innovazione il compito di definire «ambiti, modalità e tempi dell’armonizzazione»: ma né il governo Monti né quello successivo guidato da Letta si sono avventurati su questo terreno, e con Renzi è intervenuta la riforma Madia che nelle prossime settimane dovrebbe ridefinire la questione nel nuovo decreto sui lavoratori pubblici.
In questa architettura normativa incerta, hanno trovato argomenti sia i sostenitori delle evoluzioni dell’articolo 18 anche negli uffici pubblici sia i fautori della sua immutabilità nella versione del 1970. Nella sentenza di novembre, che aveva lanciato la prima ipotesi, i giudici avevano sottolineato gli adeguamenti “automatici” del testo unico del pubblico impiego alle riforme dello Statuto dei lavoratori, mentre nella decisione di ieri l’accento è andato sul fatto che le regole attuative previste per l’estensione della riforma Fornero alla Pa non sono state scritte.
Fin qui la discussione da giuristi, che lascerebbe tuttavia incerta la sorte delle «tutele crescenti» nel pubblico impiego perché il rinvio alle norme attuative era previsto nella legge Fornero (articolo 1, comma 8)?ma non nel Jobs Act;?la stessa Cassazione, peraltro, sottolinea l’immediata applicazione al pubblico impiego di altre regole che non contemplavano un ulteriore passaggio attuativo, come il rito Fornero per l’impugnazione del licenziamento.
La sentenza depositata ieri dalla suprema corte non trascura però questioni più sostanziali. Secondo i giudici, la legge Fornero nelle sue finalità «tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata», e di conseguenza la riformulazione dell’articolo 18 «introduce una modulazione delle sanzioni pensate in relazione al solo lavoro privato». Una revisione delle tutele richiederebbe per i giudici «una ponderazione diversa degli interessi», perché?nelle aziende private c’è da difendere solo il singolo lavoratore mentre nell’amministrazione pubblica bisogna pensare alla «protezione di più generali interessi collettivi». I?sindacati ovviamente esultano, a partire dalla segretaria generale della Cgil secondo cui «la sentenza della Cassazione dimostra che le istituzioni continuano a funzionare», mentre i giuslavoristi parlano di «disuguaglianza insostenibile fra pubblico e privato».
gianni.trovati@ilsole24ore.com. 

Cassazione: "Per gli Statali vale l'articolo 18, niente legge Fornero"Per i licenziamenti di dipendenti della Pa non sono da considerare le modifiche apportate allo Statuto dei lavoratori dalla riforma Fornero, poi superata dal
repubblica.it

La cattiva supplenza alla politica che non decide
Il Sole 10.6.16
 Dopo la sentenza della Corte di cassazione con cui è stato dichiarato che, nel pubblico impiego, si applica ancora il vecchio articolo 18, senza le modifiche introdotte per i licenziamenti disciplinari ed economici dalla riforma Fornero del 2012, sarebbe facile accusare la magistratura di incoerenza. In pochi mesi, la Cassazione (seppure in sezioni differenti) è giunta a conclusioni opposte. Di ieri la decisione sull’inapplicabilità, per i dipendenti pubblici, dell’articolo 18 così come modificato dalla legge Fornero (che, lo ricordiamo, ha ricondotto i licenziamenti disciplinari illegittimi a fatti insussistenti o a condotte punite con sanzioni conservative nei contratti collettivi o nei codici disciplinari). Lo scorso novembre, invece, la Corte ha optato per l’uniformità tra pubblico e privato.
Tuttavia, se ci limitassimo ad analizzare le eventuali incongruenze nel ragionamento della Corte rischieremmo di prendere di mira l’effetto e non la causa del problema, che sembra figlio di un’indecisione di fondo della politica.
Il dibattito seguito al decreto legislativo 23/2015, sul pubblico impiego ricompreso o meno nell’alveo delle tutele crescenti, è esemplificativo. Le argomentazioni degli esperti e degli opinion maker sono state messe a tacere dal Governo: la questione sarebbe stata risolta con la riforma del pubblico impiego.
La soluzione non è mai arrivata e la questione resta aperta. Un problema analogo si è verificato (come confermano le sentenze opposte della Cassazione) con la legge Fornero, che ha rinviato al confronto tra Governo e organizzazioni sindacali la definizione circa «gli ambiti, le modalità e i tempi» dell’armonizzazione della disciplina del pubblico rispetto al privato.
L’indecisione della politica, con la tecnica del rinvio, ha prodotto norme “reticenti” su questioni di fondo. La legge Fornero e il Jobs act non dicono mai espressamente che la riforma sui licenziamenti si applica solo al lavoro privato. Da qui le decisioni contrastanti della Cassazione su un aspetto non di dettaglio della disciplina giuslavoristica.
In questo modo è stato sconfessato quel processo di “privatizzazione” del pubblico impiego che avrebbe dovuto equiparare le regole vigenti per modernizzare l’amministrazione statale. Questa scelta sembra essere stata abbandonata: è iniziata una lenta e costante opera di demolizione del principio, probabilmente per ragioni di consenso. Si arriva così al paradosso di lasciare ai giudici la decisione sul regime dei licenziamenti per i pubblici dipendenti, con il rischio di creare - inseguendo la corretta interpretazione di una legge sibillina - una discriminazione nel trattamento tra i dipendenti pubblici e quelli privati. E non varrebbe, come giustificazione, il fatto che i pubblici dipendenti sarebbero giustamente destinatari di una diversa tutela in quanto devono garantire il buon andamento della pubblica amministrazione. 

Funzione pubblica «in linea» con i giudici
Palazzo Vidoni. Anche l’interpretazione ministeriale considera «speciale» il lavoro pubblico rispetto a quello privatodi G.Tr. Il Sole 10.6.16
La discussione infinita sull’applicabilità alla pubblica amministrazione delle riforme realizzate in questi anni sull’articolo 18 nasce dal fatto che finora tutti gli interventi sul punto sono stati circondati da polemiche e hanno prodotto soluzioni ispirate più al compromesso che alla chiarezza. L’ultima parola dovrebbe arrivare nelle prossime settimane dal nuovo testo unico del pubblico impiego, cioè dal decreto attuativo della delega Pa chiamato a riscrivere le regole per i dipendenti di Stato, regioni ed enti locali.
L’indirizzo della Funzione pubblica è lo stesso seguito dalla Cassazione nella sentenza di ieri, e punta a sottolineare la «specialità» del rapporto di lavoro pubblico che escluderebbe l’allineamento al mondo privato sul piano delle tutele per i licenziamenti. Il ragionamento di Palazzo Vidoni poggia su tre premesse, che distinguono gli impieghi pubblici da quelli privati: l’ingresso è per concorso, i soldi sono pubblici e gli interessi da tutelare riguardano il «buon andamento» e l’«imparzialità» dell’amministrazione pubblica, previsti dall’articolo 97 della Costituzione, e non solo la sorte individuale del singolo dipendente.
Questa impostazione, che escluderebbe in simultanea dagli uffici pubblici sia la riforma Fornero sia il Jobs Act, corre molto vicino a quella proposta ieri dalla Cassazione, ed è confermata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti secondo il quale «il governo ha sempre detto che le regole del jobs act si applicano solo ai privati e non al pubblico impiego». Nel governo e nella maggioranza ci sono però anche posizioni diverse. Il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, per esempio, si era detto molto più in linea con la precedente posizione della Cassazione, quella che aveva acceso il semaforo verde alla riforma Fornero nella pubblica amministrazione sulla base del rinvio «automatico» alle evoluzioni dello Statuto dei lavoratori scritto nel testo unico del pubblico impiego ancora in vigore. In quell’occasione, Zanetti aveva parlato di «errore tecnico e politico» da parte di chi sostiene la differenza di regole tra uffici pubblici e privati, e analoga è l’opinione di Pietro Ichino: «Le tutele crescenti nella pubblica amministrazione - ha sottolineato ancora ieri il giuslavorista e senatore Pd - sarebbero un grande passo avanti per i precari che lavorano a volte da anni negli enti, e che non riescono ad arrivare a un impiego stabile perché le amministrazioni non hanno la certezza di poter garantire nel tempo la provvista finanziaria che serve a pagarli».
La discussione insomma resta aperta, anche all’interno del governo e dello stesso partito democratico, e sembra destinata a riaccendersi a breve. La riforma del pubblico impiego, che corre parallela a quella dei dirigenti con l’introduzione del ruolo unico e degli incarichi a tempo, è in vista del traguardo ed è attesa nelle prossime settimane.
Sul piano degli effetti concreti, poi, il quadro è ancora più articolato, come mostrano le storie individuali alla base delle due sentenze opposte della Cassazione: quella di fine novembre, che sosteneva l’applicabilità della riforma Fornero alla Pa, ha salvato però il posto di lavoro del dipendente mentre la decisione di ieri, pur ribadendo che negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello originale, ha confermato il licenziamento. 

I fannulloni statali protetti per legge

La Cassazione cambia idea: ai licenziamenti nel pubblico impiego si applica l’articolo 18, non la Fornero
Libero10 giu 2016SANDRO IACOMETTI
(...) è disciplinato solo dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ergo, se è illegittimo il lavoratore va reintegrato, senza alternative possibili.

La decisione, apparentemente rivolta al Jobs Act, riguarda nello specifico le modifiche introdotte dalla legge Fornero (la 92 del 2012). Ma tocca un nervo scoperto degli ultimi anni. Ovvero la diseguaglianza di trattamento tra dipendenti privati e lavoratori dello Stato. Sia le norme del governo Monti sia quelle del governo Renzi non hanno toccato la validità dell’articolo 18 per gli statali, ma da tempo si discute sulla opportunit di equiparare i due settori. La stessa Corte d’Appello di Roma, trattando il caso in discussione di un impiegato del ministero delle Infrastrutture che faceva il doppio lavoro, ma il cui licenziamento era stato viziato dalla violazione delle procedure di contestazione disciplinare, aveva riconosciuto 6 mesi di idennità risarcitoria, allargando la Fornero alla Pa. Un’estensione non legittima, secondo la Cassazione, che ha accolto il ricorso riportando disponendo un annullamento con rinvio.
La sentenza, accolta con gran soddisfazione dai sindacati, potrebbe mettere una pietra tombale sulla possibilità del governo di applicare il jobs act anche alla Pa. Un’operazione che un orientamento giurisprudenziale diverso avrebbe invece potuto favorire. «Per quel che riguarda il Jobs Act per noi era chiarissimo che valeva per i dipendenti privati e non riguardava il pubblico», ha detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, aggiungendo che anche «l’intenzione» del ministro della Pa, Marianna Madia, «è che l’articolo 18 rimanga per il lavoro pubblico».
La partita potrebbe non essere del tutto chiusa. La stessa Cassazione di recente aveva stabilito che nella Pa privatizzata (la maggior parte) la legge Fornero è applicabile a causa del «complesso apparato normativo che regola il settore, il quale rende applicabile ai pubblici dipendenti le principali norme dettate per il lavoro privato nell 'impresa, incluse eventuali novelle legislative». Vista la differenza di vedute, l’ultima parola spetterà probabilmente alle Sezioni Unite, che dovranno stabilire un indirizzo univoco. Nel frattempo, si rammarica Maurizio Sacconi la sentenza dimostra «che l’art. 18 continua a vivere e a dispiegare i suoi effetti negativi sulla produttività del lavoro».

L’articolo 18 vale per i dipendenti pubblici, ma non per i neo-assunti con il Jobs Act
Disuguaglianze. Una sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 si applica ai licenziamenti nel pubblico impiego e impone la reintegra del lavoratore. Per i neo-assunti del Jobs Act invece no. I giuslavoristi: «Una disuguaglianza pubblico-privato insostenibile dal punto di vista costituzionale». Bisogna garantire l'articolo 18 a tutti. La Cgil raccoglie le firme per abolire la norma voluta da RenziRoberto CiccarelliManifesto 10.6.2016, 23:59
«Il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla “legge Fornero” bensì dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 11868 della sezione Lavoro depositata ieri.
La Cassazione ha accolto le ragioni del ministero delle Infrastrutture e trasporti contro la sentenza della Corte d’appello di Roma del dicembre 2014 sul caso di un funzionario licenziato perché faceva il doppio lavoro. La Corte d’Appello di Roma gli aveva riconosciuto sei mesi di indennità risarcitoria, come prevede la legge Fornero nel caso di licenziamenti legittimi ma con violazione delle procedure di contestazione disciplinare. Nel ricorso in Cassazione il ministero aveva fatto reclamo contro i sei mesi di risarcimento. La Corte ha stabilito che per il pubblico impiego valgono le garanzie dello statuto dei lavoratori del 1970: in caso di licenziamento senza giusta casa, il lavoratore va reintegrato sul posto di lavoro e non semplicemente indennizzato.
Un’interpretazione che nega quanto affermato in altra sentenza dello scorso novembre. La nuova sentenza «conferma le nostre valutazione – sostiene il segretario confederali Uil Antonio Foccillo – è ovvio che nel pubblico impiego, a tutela del cittadino, è necessaria la reintegra e non il semplice rimborso». «Speriamo che ora la querelle giuridica non venga strumentalizzata da chi vuole attaccare il pubblico impiego» sostiene il segretario confederale Cisl Maurizio Bernava. Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro al Senato, ribadisce: «Dovremmo completare il percorso di riforma finalmente assumendo anche in Italia quel diritto europeo che in nessun paese ipotizza il reintegro obbligatorio, come ancora da noi esiste anche dopo il Jobs act». è intervenuto anche Pietro Ichino (Pd), uno degli ispiratori del Jobs Act, che è arrivato a contrapporre precari statali ad assunti dipendenti: invece di stabilizzarli, Ichino chiede «l’applicabilità della nuova disciplina dei licenziamenti anche nel settore pubblico». Invece di garantire a tutti gli stessi diritti, si vuole toglierli a qualcuno per rendere tutti precari.
La sentenza evidenzia un aspetto paradossale del diritto del lavoro ridotto a un colabrodo. Se per i lavoratori pubblici vale l’articolo 18, per tutti i lavoratori privati assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act il 7 marzo 2015, la situazione è completamente diversa: possono essere licenziati in ogni momento. In Italia esistono dunque due regime diversi. Per Aldo Bottini, presidente degli Avvocati giuslavoristi italiani, riuniti da ieri a Perugia, questa situazione «rappresenta una disuguaglianza, una discriminazione non so quanto sostenibile anche da un punto di vista costituzionale». Bottini sottolinea che il contrasto tra le due sentenze «andrà chiarito dalle Sezioni unite o da un intervento legislativo di interpretazione autentica, che peraltro il governo aveva annunciato di voler fare fin dallo scorso anno, quando entrò in vigore il Jobs Act ed era in discussione la riforma del pubblico impiego».
Alberto Piccinini, avvocato bolognese e membro della consulta giuridica della Cgil, la disuguaglianza sarebbe tripla: «Per i privati oggi ci sono due regimi in essere – afferma – gli assunti prima del 7 marzo ai quali si applica la legge Fornero. Per chi è stato assunto dopo si applica il Jobs Act e dunque la libertà di licenziare. Per i dipendenti pubblici, invece, vige lo statuto dei lavoratori.
Il trattamento dei lavoratori pubblici ha una ragione: in questo caso si presume che il datore di lavoro, cioè la pubblica amministrazione, non abbia la volontà di eliminare personaggi scomodi, sindacalisti, persone con handicap – aggiunge Piccinini – Tuttavia nel settore pubblico non è impossibile licenziare: il dipendente non è inamovibile». Dopo il Jobs Act, la situazione è cambiata: vige «una diseguaglianza di fondo – continua Piccinini – c’è una violazione dell’articolo tre della Costituzione: nell’ambito della stessa azienda ci possono essere lavoratori con le stesse mansioni, ma soggetti a regimi notevolmente diversi. Facciamo l’ipotesi di un licenziamento collettivo: alcuni lavoratori avrebbero il diritto ad essere reintegrati, altri no». Sulla tesi di Renzi per il quale il Jobs Act, e dunque la libertà di licenziare, è la principale ragione di un «aumento» dell’occupazione, Piccinini ribadisce: «In realtà le imprese assumono di più a causa degli sgravi contributivi finanziati dalla legge di stabilità del 2014 e validi fino al 2017.
Si tratta dunque di un provvedimento approvato tre mesi prima del Jobs Act. Del resto, questa misura era stata in sostanza adottata già nell’ambito della riforma Fornero. In tutti i casi, oggi non si può parlare di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Questi contratti sono molto più precari di prima, più precari addirittura degli stessi contratti a termine». La Cgil sta raccogliendo le firme per un referendum di alcune parti del Jobs Act, insieme a un quesito contro i voucher e sugli appalti. La consultazione dovrebbe tenersi nel 2017: «Il referendum semplificherebbe l’orizzonte – afferma Piccinini – modificando l’articolo 18 esistente nel testo Fornero. La soglia dell’applicazione per la reintegrazione del lavoratore non sarebbe più di 15 dipendenti ma di 5. Il numero dei lavoratori interessati sarebbe maggiore rispetto a quello dello statuto del lavoratori e si potrebbero tutelare i lavoratori assunti con il Jobs Act».

Statali, aumenti solo per i dipendenti con redditi bassi
Pronta la direttiva della Madia all’Aran: priorità al milione con contratti sotto i 26 mila euro annui di Roberto Mania Repubblica 13.6.16
ROMA. Svolta nel pubblico impiego: gli aumenti retributivi nel prossimo rinnovo contrattuale interesseranno solo i lavoratori a basso reddito, sostanzialmente un terzo dei dipendenti pubblici, circa 800 mila, quelli — probabilmente — sotto i 26 mila euro lordi annui. È la linea decisa dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La direttiva del ministro all’Aran, l’agenzia per la contrattazione nella pubblica amministrazione, arriverà subito dopo il via libera da parte del Consiglio dei ministri (possibile in settimana) all’accordo, tra sindacati e l’Aran stessa, che riduce da undici a quattro i comparti contrattuali nel pubblico impiego. Entro luglio potrebbero partire le trattative dopo oltre sei anni di blocco ai rinnovi imposto dalle politiche di austerity. «E allora — ragiona Madia — è giusto, e anche morale, che si sostengano prima i lavoratori che hanno pagato di più gli effetti della crisi».
Che si tratti di un cambiamento importante non c’è dubbio. «Sarebbe la prima volta, non ci sono precedenti», commenta Sergio Gasparrini, presidente dell’Aran. D’altra parte il contesto è decisamente mutato. Nell’ultima legge di Stabilità, dopo che la Corte costituzionale ha detto che i contratti non potevano restare ancora fermi, sono stati stanziati solo 300 milioni per gli aumenti salariali. Una cifra che se spalmata sull’intera platea dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici garantirebbe un aumento non superiore ai dieci euro a testa. Sull’orientamento della Madia pesano anche altri fattori. Intanto non c’è più l’inflazione. La dinamica dei prezzi tende alla deflazione (ad aprile — 0,3 per cento) «e dunque non c’è più — sostengono al ministero — la necessità di proteggere il potere d’acquisto». C’è, poi, un modello contrattuale su due livelli, nazionale e decentrato, con il primo ancorato all’Ipca, l’indice dei prezzi appunto depurato dai prezzi dei prodotti petroliferi importati, che stenta a tenere il passo dopo trasformazioni globali prodotte dalla lunga crisi. Non può essere un caso, infatti, che in due settori chiave per la contrattazione, per quanto agli antipodi per l’apertura alla concorrenza, quello dei metalmeccanici e quello della pubblica amministrazione, le parti datoriali ipotizzino soluzioni che vanno praticamente nella stessa direzione. La Federmeccanica (l’associazione delle imprese metalmeccaniche) ha infatti proposto di limitare gli incrementi retributivi a livello nazionale esclusivamente ai lavoratori che si trovano sotto il minimo contrattuale, cioè solo il 5 per cento della categoria, lasciando che per gli altri sia la contrattazione in azienda (legata a parametri di produttività) a definire gli aumenti salariali. Su questa proposta si è aperto lo scontro con i sindacati. La scorsa settimana ci sono stati scioperi, e il negoziato è fermo. Anche la Madia rischia di andare allo scontro con i sindacati che bocciano l’idea di aumenti solo per i redditi più bassi: «I sacrifici — dicono — li hanno fatti tutti». E richiamano la sentenza della Consulta che ha costretto il governo a rifinanziare i rinnovi contrattuali. Per quanto Tiziano Treu, giuslavorista, ex ministro e anche ex presidente dell’Aran, consideri compatibile, «in via eccezionale», la strada degli aumenti selettivi con le norme costituzionali. Certo è una via tutta da sperimentare.
E va al suo primo test anche l’intesa, raggiunta un paio di mesi fa, sui comparti, che si riducono da undici a quattro: funzioni centrali (ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici, con circa 247 mila lavoratori); funzioni locali (Regioni e autonomie locali, con circa 457 mila lavoratori); istruzione e ricerca (scuola, università, enti di ricerca, con 1,1 milioni di lavoratori); sanità (con circa 531 mila lavoratori). L’accorpamento delle aree contrattuali imporrà aggregazioni anche tra i sindacati, i più piccoli dei quali, rappresentativi nei micro comparti precedenti, rischiano, in un comparto più grande, di scendere sotto il 5 per cento della rappresentatività. Altro test al Consiglio dei ministri in settimana per il decreto sulla licenziabilità dei “furbetti del cartellino”, con tempi più certi su sospensione e sanzioni in caso di flagranza di reato. 

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