martedì 28 giugno 2016

Paghi uno, prendi due: le omelie di un papa con la prefazione dell'altro e uno strano cortocircuito nella tragedia della chiesa cattolica

Insegnare e imparare. L'amore di Dio Libro di Benedetto XVI (Joseph Ratzinger)
Joseph Ratzinger: Insegnare e imparare l’ Amore di Dio, Cantagalli pagg. 304 euro 19. Con la prefazione di papa Francesco

Il fattore Ratzinger l’ultima tentazione dell’integralismo anti-Bergoglio 
Così la singolare convivenza dei due papi alimenta (contro la volontà di entrambi) le mire di chi vuole indebolire il pontificato di Francesco
ALBERTO MELLONI 28/6/2016 Restampa
In occasione del 65° anniversario della sua ordinazione presbiterale sono state raccolte in un volume quasi quaranta omelie sul sacerdozio pronunciate da Joseph Ratzinger in diverse occasioni, fra gli anni Cinquanta e gli anni del pontificato. Queste fonti hanno una introduzione del cardinale Gerhard Müller che legge il calo delle vocazioni come una “crisi” del sacerdozio e lo riconduce, come tanta apologetica integralista, a fattori quali «l’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso». Il volume, però, ha anche una prefazione di papa Bergoglio, uscita in anteprima su
Repubblica, nella quale Francesco entra con tagliente levità sulla fisionomia odierna del “ministero petrino”. Il pontefice scrive che «rinunciando all’esercizio attivo del ministero petrino, Benedetto XVI ha ora deciso di dedicarsi totalmente al servizio della preghiera» e spiega che preghiera non è il tempo libero del sacerdozio ministeriale, ma la sua ragion d’essere. Dunque Francesco considera che il compito orante che il vescovo emerito di Roma si è dato assorba ed esaurisca la sua funzione: lo ha ripetuto anche tornando in aereo dall’Armenia.
È la linea a cui Ratzinger si è inflessibilmente e ineccepibilmente attenuto: come aveva detto non è tornato alla «vita privata » del professore fatta «di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera» e si è sottratto a tutti i tentativi di trasformarlo nella bandiera degli scontenti di Bergoglio — e proprio Bergoglio gliene ha dato atto facendo sapere che Benedetto XVI aveva cacciato chi, prima e durante il sinodo, gli era andato a chiedere di dare forza alla minoranza zelante. La questione del posizionamento di Benedetto però è riaffiorata a più riprese e continua a riaffiorare periodicamente con tesi bislacche, ma rivelatrici.
Nel 2014 un prete modenese, Stefano Violi, scrisse un articolo per la rivista della facoltà teologica di Lugano. Vi sosteneva che Benedetto XVI si era privato solo dell’esercizio attivo del ministero petrino e dunque aveva portato con sé, per dir così, una parte del “munus”. Secondo costui quello che papa Francesco aveva avuto non era dunque “il” papato: ma l’esercizio in condominio di una autorità che rimaneva in qualche modo anche al suo predecessore. La tesi — saldatasi col febbricitante “sedevacantismo” di Antonio Socci, che vede in Bergoglio un papa illegittimo e di fatto eretico — aveva in sé un postulato semplicemente eversivo: e cioè che il papato non sia un ministero dotato di prerogative e limiti propri del vescovo di Roma (“statim ordinetur episcopus” dice la regola del conclave nel caso venga eletto un laico o un prete): ma sia un ottavo sacramento, da cui non ci si spoglia. Non sarebbe dunque l’esser vescovo che conserva al papa emerito una dignità, ma l’esser stato papa che fa mantenere delle prerogative.
Allora monsignor Georg Gänswein, segretario di Bene- detto XVI e prefetto della casa pontificia, liquidò la asineria del docente ticinese in una frase: «Ritengo che sia una sciocchezza teologica e anche logica». Lapidario, come dev’essere un canonista della scuola di Monaco.
Eppure, nel presentare alla Università Gregoriana la biografia di Benedetto XVI di Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI
(Lindau), lo stesso Gänswein, è tornato sul tema. Dopo aver detto che non ci sono «due papi», ha aggiunto che oggi, nella chiesa cattolica, ci sarebbe, «di fatto un ministero allargato, con un membro attivo e uno contemplativo: per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca; per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora: Santità».
Poteva trattarsi di una battuta: come quella sul «lento spegnersi » di Ratzinger che gli sfuggì a marzo e che poi ritirò, rendendosi conto che una frase affettuosa sembrava un preannuncio funebre. Ma è il segno di una inquietudine che non ha a che fare con la rinunzia di Benedetto, ma col papato di Francesco e con chi se ne lamenta.
La questione infatti non è l’abito o il nome. Benedetto XVI avrebbe potuto riprendere gli abiti neri e il nome di battesimo. Ma chi ha visto in battistero a Firenze il monumento funebre di Donatello al cardinale Cossa, il Giovanni XXIII “quondam papa” deposto a Costanza, sa che lui indossa i sontuosi abiti cardinalizi concessigli in cambio della sua sottomissione. La talare bianca di Ratzinger è dunque un modo per dire che egli non è emerito per deposizione, ma per un gesto libero. Compiuto con lo stesso amore per la chiesa di tanti vescovi, che cessano dall’ufficio a norma del canone 401 a 75 anni (età che negli anni Sessanta era ritenuta la soglia della decrepitezza e che la Santa Sede non ha mai aggiornato, pur avendo avuto i due ultimi papi eletti oltre quella soglia).
Non è nemmeno rilevante la questione del titolo. Come suggerì Gianfranco Ghirlanda, Benedetto, per analogia col canone 401, poteva avvalersi del titolo di “vescovo emerito di Roma”: fu preferito il titolo generico di “papa” (anche il patriarca di Alessandria è “papa”).
Il vero punto è l’altro: cioè se si può inserire — a sua insaputa — il papa emerito in un “ministero allargato” con due “membri”, uno che prega (e consiglia?), l’altro che governa (e ha il dovere di consultarsi?). Bergoglio si posiziona su un “no” netto: dopo «l’esercizio attivo del ministero petrino», un vescovo e un prete continuano a esercitare il ministero sacerdotale della preghiera. Nient’altro. Amen.
Eppure il ripetuto affiorare di escogitazioni sul ministero petrino c’è. E non si placa, con inutili ingegnerie volte a produrre in vitro una “continuità” fra Francesco e Benedetto che si ottiene solo immergendoli in un assoluto papista in cui tutti i papi sono neri.
Il ministero di unità e la sinodalità sono oggi il problema di tutte le chiese (e di tutte le società, se mettiamo al posto del ministero la sovranità e al posto della sinodalità le istituzioni democratiche). Il vigore spirituale della rinunzia di Ratzinger prima e poi lo straordinario vigore evangelico di Francesco, che si fonda su una mistica contemplativa che sconsiglierei di sottovalutare, hanno fatto affiorare nella chiesa una insofferenza per l’uno e per l’altro. E confermano che la riforma del papato e della chiesa è necessaria, è in corso.

cosa distingue bergoglio e ratzinger Gian Enrico Rusconi Busiarda 29 6 2016
Con lo scambio di affettuose parole e di profondi attestati di stima reciproca, papa Francesco e il papa emerito Ratzinger possono considerare chiusa ogni maliziosa interpretazione del loro rapporto? Francesco, nel viaggio di ritorno dall’Armenia, l’altro giorno aveva usato parole dure e inequivoche. «C’è un solo Papa. L’altro, Benedetto XVI, è un papa emerito, una figura che prima non c’era e a cui lui, con coraggio, preghiera, scienza, e anche teologia, ha aperto la strada». Non ci sono due papi o una loro combinazione.
È una secca negazione della tesi sostenuta tempo prima - non sappiamo con quale intenzione - da monsignor Georg Gänswein, notoriamente vicinissimo a Ratzinger. Secondo il prelato, esisterebbe «di fatto “un ministero petrino” allargato».
Un ministero «con un membro attivo e uno contemplativo: per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca; per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora: Santità». Poteva sembrare un sottile tentativo di limitare la posizione di papa Francesco, giocando maliziosamente la carta della contrapposizione tra il suo attivismo «pastorale» caratterizzato da una grande successo mediatico e la sua supposta fragilità e inconsistenza «teologica».
Papa Bergoglio, che non è uno sprovveduto, ha reagito da par suo, con un doppio argomento. Uno direttamente riferito alla persona di Ratzinger «fedele alla parola data» di non interferire nell’agire del suo successore. «È molto intelligente, e per me è il nonno saggio a casa», un nonno con un «sano e gioioso senso dell’umorismo», ha ribadito ieri .
Venendo alla sostanza degli argomenti, va detto che papa Francesco ha una sua precisa idea di «teologia» («teologia in ginocchio», «teologia del popolo», «teologia della misericordia»). In lui non c’è insistenza sui motivi della «razionalità della fede» o della «ellenizzazione del cristianesimo» con cui Ratzinger si confrontava con il mondo moderno. Ha gli occhi fissi sulla narrazione evangelica riportata letteralmente all’oggi, senza soluzione di continuità. Naturalmente, tra Bergoglio e Ratzinger non c’è contrasto di principio, ma una sensibilità profondamente diversa, che non può non riflettersi a livello dottrinale anche nel concetto onnipresente di «misericordia».
A proposito di quest’ultima, Ratzinger ha pubblicato il 17 aprile sull’Osservatore romano un testo, in forma di intervista, di non facile interpretazione. Contiene una esplicita approvazione della tematica della misericordia bergogliana, ma inquadrata e articolata nel contesto più complesso della «giustificazione della fede», allargando il discorso alla questione della presenza del male nel mondo. Si muove tra due affermazioni: «Davanti al male del mondo l’uomo non crede più di aver bisogno della giustificazione, ma che Dio debba giustificarsi davanti a lui»; d’altra parte, «Dio non può semplicemente lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può anche redimere il mondo».
Segue la dottrina tradizionale del peccato, della punizione, dell’espiazione oltre che del perdono di Dio tramite Cristo, ma c’è anche una esplicita presa di distanza dalle tesi (nominalmente attribuite a sant’Anselmo) della natura infinita di Dio che esige per necessità logica e metafisica una espiazione infinita che Dio stesso può garantire soltanto tramite il sacrificio del Figlio.
Non è questa la sede per seguire le argomentazioni di Ratzinger, consapevole delle difficoltà della tematica tra «giustificazione» e «misericordia». Ma colpisce che scriva: «non c’è dubbio che su questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma». Viene spontaneo chiedersi se la strategia comunicativa di Bergoglio, nei suoi testi sistematici e nelle sue conversazioni «a braccio» sulla misericordia, non stia portando consapevolmente o inconsapevolmente in questa direzione.
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«I MIEI ANNI DA PAPA»
Le notti insonni dopo il Conclave, le lotte interne, le dimissioni Joseph Ratzinger si racconta in un libro in uscita a settembre
Corriere della Sera 1 lug 2016 Www.luigiaccattoli.it
Dei quattro volumi questo si annuncia come il più interessante, anche più di quello che fece da Papa, perché un Papa è un Papa ma un Papa emerito è un’assoluta novità. Annunciando la pubblicazione, l’editore tedesco Droemer, che coordina l’uscita nelle diverse lingue (per l’Italia l’esclusiva è della Garzanti in libreria, del Corriere della Sera in edicola), affermava ieri giustamente che per la prima volta in duemila anni abbiamo «un Papa che traccia un bilancio del proprio Pontificato».
Anche a motivo del titolo Ultime conversazioni il volume si presenta come il testamento di Benedetto XVI: nei tre anni e mezzo che ci separano dalla «rinuncia» egli ha parlato poco e mai a cuore aperto come dicono che faccia in questo testo, rispondendo a domande non reticenti sulla stessa rinuncia al Papato, sul suo successore, sulla sua vicenda d’uomo, dalla famiglia di origine alle tempeste degli otto anni da Papa.
Dai preparativi dell’atto di «rinuncia» all’indagine sulla «lobby gay» del Vaticano, alla «sorpresa» che anche per lui ha rappresentato l’elezione del cardinale Bergoglio, sono molte le emozioni e i retroscena che qui racconta il Papa teologo che nell’aprile del prossimo anno compirà 90 anni.
Della rinuncia racconta d’averla preparata con poche persone a lui più vicine e ricorda il timore che potesse esserci una fuga di notizie che avrebbe tolto forza all’annuncio. E aveva ragione a temere, perché tante fughe di notizie e testi come sotto il suo Pontificato non c’erano mai state nel Vaticano dell’ultimo secolo.
Argomenta la scelta di comunicare in latino una decisione di tale portata precisando d’aver temuto che se avesse scelto l’italiano avrebbe potuto commettere qualche errore di lingua. Confessa i dubbi che dovette superare in dialogo con se stesso sull’incidenza che la sua scelta avrebbe potuto avere sul futuro del Papato. Ancora una volta nega ricatti o pressioni.

Racconta di come seguì da Castel Gandolfo le cronache televisive delle fumate e ammette d’aver appreso con «sorpresa» il nome del successore: aveva pensato a dei nomi ma «non a lui». E del resto così avevamo fatto anche noi giornalisti. Alla sorpresa tenne dietro la «gioia» di vedere come il nuovo Papa pregava e comunicava con la folla.
In risposta all’intervistatore, Benedetto tratta della figura umana e papale di Francesco e accenna liberamente sia a ciò che lo accomuna a lui sia a quanto lo differenzia.
Nel volume ci sono ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nella Germania nazista di quegli anni. La scoperta della «vocazione», la prigionia alla fine della Seconda guerra mondiale in un campo americano nei pressi di Ulm. I successi e le delusioni della carriere universitaria, le pubblicazioni che ne fanno un «perito» del concilio Vaticano II. Temi dei quali aveva già narrato nel volume La mia vita che è del 1997.
Venendo ad anni più recenti rispetto a quell’autobiografia, nel nuovo volume racconta il forte legame con Giovanni Paolo II, a cui più volte chiede di essere esonerato dai suoi incarichi, e i rifiuti del Papa polacco che lo volle al suo fianco fino alla fine. C’è anche — nel libro — il pensiero della morte e la confessione di come il Papa emerito si senta debole davanti a essa e la narrazione del modo in cui si prepara.
Ci dice il sentimento di «incredulità» che sperimentò in Conclave, quando comprese che sarebbe toccato a lui. La scelta di non chiamarsi Giovanni Paolo III ma di legare il suo Pontificato a san Benedetto e a Benedetto XV, il Papa che definì la Prima guerra mondiale «inutile strage».
Veniamo a sapere della difficoltà a prendere sonno che soffrì nei primi giorni dopo l’elezione a causa dell’ansia che era su di lui.
Respinge l’idea o la critica di chi lo considera un Papa troppo accademico, concentrato sullo studio e sulla scrittura. Rifiuta di essere considerato un restauratore in ambito liturgico. Racconta qualcosa del suo tentativo di riformare lo Ior e ricorda le leggi da lui promulgate contro il riciclaggio, ragiona della piaga della pedofilia e non manca di sottolineare le difficoltà che anche un Papa incontra quando vuole intervenire sulla «sporcizia che è nella Chiesa».
Ammette di aver saputo della presenza di una «lobby gay» in Vaticano, composta da quattro/cinque persone, e afferma di esser riuscito a sciogliere quel gruppo di potere: informazione, questa, che non si era mai avuta. Ammette la sua mancanza di risolutezza nel governare. Racconta di aver preso appunti e note nel corso del Pontificato a riguardo di molte questioni, ma dice che li distruggerà anche se si rende conto che per gli storici sarebbero «un invito a nozze».

1 commento:

Anonimo ha detto...

" «Davanti al male del mondo l’uomo non crede più di aver bisogno della giustificazione, ma che Dio debba giustificarsi davanti a lui»"

Tutto sommato tra i due è Ratzinger il più moderno.