lunedì 20 giugno 2016

Pure Tremonti passa per grande geopolitico ormai

Giulio Tremonti: Mundus furiosus. Il riscatto degli Stati e la fine della lunga incertezza, Mondadori

Risvolto

Mundus furiosus: così si chiamava l'Europa nel Cinquecento, dopo la scoperta delle Americhe e l'avvento rivoluzionario degli sterminati «spazi atlantici». Di nuovo furiosus è il mondo di oggi: dalla crisi della finanza alle migrazioni di massa, dalle macchine digitali che distruggono il ceto medio rubandogli il lavoro alle nuove guerre «coloniali », dalla rete che, nonostante le apparenze, erode le basi della democrazia e della gerarchia trasformandole in anarchia ai nuovi emergenti tribuni politici. Scritto da chi conosce molto bene gli interna corporis della finanza e della politica internazionale, questo è il primo libro che spiega dall'interno anche le cause profonde della crisi dell'Europa, dominata dalla tirannia della stupidità. E la cui classe dirigente fa ciò che non dovrebbe fare, ad esempio il bail-in, e non fa invece ciò che dovrebbe e potrebbe fare, contro la crisi e contro le migrazioni. Come sul ponte del Titanic fino al tramonto dell'ultimo giorno ci si attardava sulle chaises longues nelle solite chiacchiere, così l'ultima legge «comunitaria» contiene ancora, imperterrita, regole in materia di basilico e di rosmarino, di salvia fresca e di preparati per il risotto. Sarà comunque il 23 giugno di quest'anno, con il referendum inglese, a suonare la sveglia. Comunque vada, dentro o fuori l'Inghilterra dall'Unione europea, niente potrà infatti essere più come prima e come adesso. Demolire il castello medievale delle regole europee che ci soffocano e ci spiazzano nella competizione globale, limitare lo strapotere della finanza, a partire dal bail-in, fermare la massa delle migrazioni: su tutto il libro contiene idee e indicazioni molto concrete per bloccare la dis-«Unione» europea, magari trasformando la cosiddetta «Unione» in una «Confederazione» tra Stati sovrani. In pagine acute, scritte sulla base di una conoscenza profonda di fatti e persone, Giulio Tremonti modula la sua riflessione «non ortodossa» sugli scenari presenti e futuri al ritmo alternato della «paura» e della «speranza», tra il mundus furiosus che da fuori e da dentro si sta sviluppando in Europa, e di qui in Italia, e il forse ancora possibile prevalere dell'ordine sul disordine e della ragione sulla follia.
Viviamo in un mondo furioso Come nel ’500 delle scoperte
Corriere della Sera  19 giu 2016 di Daniele Manca
Abbiamo ancora bisogno di chi ci racconti di quanto il mondo stia cambiando velocemente? Sì, ne abbiamo bisogno. Non basta dirsi che il gesto di scorrere lo schermo di un cellulare dall’alto in basso lo abbiamo imparato da non più di 8 anni. Gli stessi di quel bambino che è l’iPhone lanciato nel 2008. O che Facebook non è nemmeno adolescente (è nato nel 2004), mentre Google diventerà maggiorenne soltanto il prossimo 4 settembre. Dovremmo andare perlomeno un pochino più a fondo e dirci che l’avvento della rete ha avviato dinamiche così erratiche, dove consenso e dissenso si mescolano in modo così poco intelligibile da far prevalere l’anarchia quando invece avremmo bisogno di solide gerarchie di giudizio. Abbiamo bisogno del racconto di questi ultimi venti anni o poco più nei quali la tecnologia ci è apparsa come il motore principale dei cambiamenti. Sbagliando. Faremmo un errore a pensare che tutto nasca da quegli algoritmi che sembrano governarci la vita.
Ritrovarci nel «Mundus furiosus» di oggi è il frutto di profondi processi e mutazioni economiche, politiche, nei principi e nei valori. Mutazioni che ci riconsegnano scenari così cambiati, che la fatica di riprendere le fila di un benessere che appare a rischio in molti casi, perduto in altri, comunque non più garantito, ci sembra un obiettivo quasi impossibile. Lo si sintetizza con locuzioni come la scomparsa del ceto medio, parole come globalizzazione, migrazioni, l’onnipresente « crisi » . Dimenticando però che proprio le «crisi», normalmente, si accompagnano a cambiamenti di paradigma tutti da rintracciare. E allora, c’è bisogno del «pensiero non ortodosso» di persone come Giulio Tremonti per riflettere, tentando di riordinare il puzzle confuso dell’attualità. Pensiero che si ritrova in un libro (Mondadori), Mundus furiosus appunto, dell’ex ministro, del professore esperto di diritto che ama le citazioni latine e che pragmaticamente fa della storia colei che può aiutarci a collocarci nel presente e a fare delle scelte. Scelte quanto condivisibili o meno, quelle proposte dal senatore, va deciso dal lettore. Tenendo a mente che le semplificazioni alle quali ci stiamo pian piano abituando possono forse aiutarci nel decidere chi votare, ma non certo nel capire la complessità del nuovo mondo.
Scorrendo le pagine del libro sarà utile abbandonare il pregiudizio che spesso oggi, aiutati dalla rete, ci fa preferire camminare nei sentieri conosciuti e comodi delle nostre convinzioni, piuttosto che sui percorsi a volte disagevoli del dialogo con chi la pensa diversamente. Il mondo è reso furente dalla velocità dei cambiamenti. Era accaduto anche in passato. Ai tempi della scoperta delle Americhe. È nel Cinquecento che l’Europa inizia a chiamarsi così, furente, tra nuove frontiere, nuove religioni, nuovi Stati che sorgono al posto dei feudi. E se è vero che difficilmente la storia si ripete, il salto che fa Tremonti e che lo porta alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, non è affatto fuori luogo. Volgendo lo sguardo indietro di vent’anni, il mondo, l’Europa non sono più gli stessi. Tre codici erano dominanti, racconta: quello «politico» (la democrazia occidentale), un codice economico (il dollaro), un codice linguistico (l’inglese). Attorno a questi ruotava il consenso dell’umanità. C’era un G7 nel quale si concentrava il potere mondiale, non c’era la globalizzazione («che è entrata nell’Europa e non viceversa»). Internet era cosa per militari, i computer aiutavano l’uomo e non gli rubavano il lavoro, non c’era l’euro e la finanza faceva quello che doveva e sapeva fare: potenziare l’economia reale.
Il referendum inglese, con il suo portato di drammaticità reso evidente dalla morte di una deputata inglese del Labour Party in un attentato, ci catapulta in maniera visiva e violenta in questo mondo che nasceva da « un eccesso di speranza senza prudenza». E se la globalizzazione probabilmente non avrebbe potuto essere evitata, di sicuro «nell’interesse di tutti... tutto avrebbe potuto e dovuto essere sviluppato in tempi più lunghi e più saggi». La storia non si poteva fermare ma si è deciso di accelerare, scatenando forze che è difficile controllare. Si materializza quel «fantasma della povertà» che Tremonti aveva già delineato in un libro del 1995. «Il fantasma della povertà — scriveva — sta tornando in Occidente. Evocata dal colonialismo, la povertà del mondo ha lentamente cominciato a muoversi, da sud verso nord». Un movimento «materiale e virtuale», con quest’ultimo che è di «gran lunga più potente di quello meccanico». Sono quelle migrazioni che oggi paiono essere l’elemento che scardina consuetudini, culture ed economie. E che provocano la messa in crisi di costruzioni che solo qualche anno fa sembravano andare in un’unica direzione: il consolidamento. Come l’Europa.
L’Europa che da «dinosauro si trasforma in Leviatano. Che, più si fa grande, più si fa debole; più cresce e si estende in dimensione fisica, più perde forza politica». Diventa capace di normare e regolare ogni dettaglio della vita di ognuno di noi, dalle prese elettriche ai termosifoni. Ma non riesce a uniformare le ferrovie. E questo per l’avvento di una tecnocrazia capace di produrre, nel solo 2015, 30.952 pagine di leggi raccolte nella Gazzetta Ufficiale europea. Arrivando ad avere «sopra, potere senza responsabilità... sotto, “democrazia”, ma senza la voce dei popoli». «Nel caso dell’Europa, Machiavelli non ha funzionato. Il mezzo è stato ed è vastamente applicato, ma è il fine che non è stato e non è raggiunto». Rimedi? Tremonti ne individua pragmaticamente alcuni. Anche molto precisi. Come l’abrogazione del «bailin», le nuove norme sul salvataggio delle banche. E altri più generali come l’introduzione del «principio per cui tutto è libero tranne ciò che è vietato. L’opposto di quello che c’è oggi in Europa». Oppure «ritornare alla regola per cui le banche che raccolgono il pubblico risparmio non lo possano più impiegare in operazioni bancarie speculative». Fino al principio di «Aiutiamoli a casa loro» tramite il meccanismo della «De Tax». Vale a dire la rinuncia da parte dei governi all’1 per cento di aliquota Iva sui beni acquistati. L’incasso andrebbe a favore di Onlus, organizzazioni di carità attive in Africa. Disintermediando così politica e governi. Fino a quel progetto di Confederazione per rilanciare su basi diverse l’Europa. La trama di un tessuto che appare andare al di là delle riflessioni e sembra comporre una sorta di manifesto per un nuovo centrodestra? Obiettivo ambizioso, ma innegabilmente necessario in Europa, per tornare a connettere una politica che è parsa delegare a economisti e tecnici gran parte delle scelte. Per offrire ai cittadini la possibilità di orientarsi tra valori di destra o sinistra, conservatori e progressisti. Categorie forse antiche, troppo velocemente liquidate in tempi nei quali si poteva solo crescere e mai arretrare, ma che invece restano tra le poche ad avere il pregio di non perdere di vista le persone, l’uomo, le comunità.

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