giovedì 9 giugno 2016

Repubblichini liberal capelluti amano Killary. Se Sanders adesso non fonda il Partito socialista-popolare ha sprecato l'occasione della sua vita


























"convincere i rivoluzionari che non è il momento di giocare al “tanto peggio tanto meglio”: vizio antico di una sinistra pura e dura che adora perdere". Rampini e Riotta farebbero una coppia comica formidabile. Invece sono una coppia di miliardari [SGA].

La battaglia di Hillary “Ho chiamato Sanders bisogna unire il partito contro l’incubo Trump”
La candidata democratica “Noi due abbiamo molto in comune, a partire dalla lotta per il salario minimo” di Anne Gearan Repubblica 10.6.16

POCHI MINUTI prima di pronunciare il suo discorso di vittoria come candidata democratica alla presidenza, Hillary Clinton era preoccupata di non riuscire a trattenere la commozione. «Ero sopraffatta», ha detto in un’intervista telefonica.
Cosa ricorderà della sera della sua nomination?
«Sono rimasta sbalordita dall’entusiasmo, dall’energia del pubblico. Ero consapevole della portata storica del momento che stavo vivendo da protagonista, un’emozione talmente grande che temevo di non riuscire a tenere il mio discorso. Ho dovuto ricompormi e prepararmi, ma uscir fuori in mezzo a quell’entusiasmo è stato travolgente e spero che in tanti, assistendovi, abbiano provato gioia e orgoglio. Per me è stata una delle esperienze più straordinarie e significative mai vissute in pubblico».
Come pensa di riuscire a guadagnare il completo appoggio di Bernie Sanders alla sua candidatura alla presidenza?
«L’ho chiamato per congratularmi con lui per la sua straordinaria campagna elettorale.
Ammiro la sua energia, la sua determinazione e la sua dedizione. La corsa alla candidatura è stata molto combattuta e credo si sia rivelata altamente positiva per il partito democratico e per il paese. Le nostre campagne indicano che possiamo unire le forze contro la minaccia che Donald Trump pone al nostro futuro ed è mia intenzione unire il partito e il paese. È necessario per condurre con la massima efficacia la sfida contro Trump. In seguito dobbiamo continuare ad adoperarci per unire il paese e realizzare gli obbiettivi. Mi impegnerà al massimo perché avvenga».
Teme che Sanders possa essere un partner meno collaborativo nei suoi confronti rispetto all’impegno totale che lei ha profuso per la campagna di Obama nel 2008?
«Mi auguro senza dubbio che collabori. Credo che Sanders e i suoi sostenitori siano consapevoli della posta in gioco, del fatto che dobbiamo unire le forze per sconfiggere Trump. Farò di tutto per persuaderlo e cercherò il contatto con i suoi sostenitori allo stesso scopo. Abbiamo molti obiettivi comuni, come l’assistenza sanitaria universale. Entrambi vogliamo aumentare il salario minimo, contrariamente a Trump che non lo reputa necessario. Abbiamo davvero molto in comune e senza dubbio, al di là delle possibili differenze, siamo totalmente contro Trump e ciò che rappresenta».
Pensa in futuro di rivedere o ridurre il ruolo dei superdelegati?
«Siamo sempre attenti a ottimizzare le procedure di scelta del candidato alla presidenza. Sono molto fiera di aver ottenuto 12 vittorie nelle ultime 19 sfide e di essere in testa di 3 milioni di voti rispetto a Sanders e di 2 milioni rispetto a Trump; non ho ancora i dati completi delle grandi vittorie in New Jersey e in California né di quelle in Sud Dakota e New Mexico, ma abbiamo ottenuto un insieme di più di 300 delegati vincolati. Quindi sulla base dei criteri più importanti, il voto popolare, il numero degli Stati conquistati e dei delegati vincolati, direi che abbiamo fatto molto bene, ma vogliamo capire come poter far meglio».
Quindi non esclude una revisione del sistema elettorale?
«Credo che si aprirà un dibattito nel Comitato nazionale democratico. Non sono stata coinvolta, ma ci sono state variazioni dopo il 2008 e il 2012. Ci sarà occasione di discuterne».
Il fatto che sia lei che Trump abbiate totalizzato il maggior numero di sondaggi negativi di qualsiasi candidato alla presidenza del nostro tempo dice qualcosa della situazione attuale del paese?
«Quanto a me, quando ho rivestito cariche ufficiali, da senatrice o segretario di Stato, ho sempre ottenuto alti consensi. Da segretario di Stato avevo un indice di gradimento del 66 per cento. Ma sono anche il bersaglio favorito dei repubblicani e di altri che non concordano con le mie posizioni e hanno speso milioni di dollari in spot contro di me da quando è iniziata la campagna elettorale. Intendo impegnarmi al massimo per dimostrare che oltre alla preparazione e all’esperienza ho pronte idee che penso daranno risultati a vantaggio degli americani, serviranno a proteggere il nostro paese, ad avere un ruolo guida nel mondo e a unirci».
Si è espressa contro la politica che fa leva sulla paura, ma la sua campagna non è forse basata sulla paura di Trump?
«Non è la stessa cosa. La campagna di Trump è tesa ad alimentare timori e rabbia, mettendo gli americani gli uni contro gli altri. La sua ambizione di “fare di nuovo grande l’America” crea ansie e insicurezza in chi si sente escluso ed emarginato. Trump non ha vere risposte, solo slogan. Fin dall’inizio della campagna ha alimentato la paura nei confronti degli immigrati, definendo gli immigrati messicani stupratori e criminali. Dobbiamo affrontare il futuro con fiducia e ottimismo. Io credo che l’America possa ancora vivere i suoi anni migliori in futuro ma non possiamo darlo per scontato, c’è molto da fare. Da Trump arriva esattamente il messaggio opposto, totalmente improntato alla paura. Dobbiamo contrastarlo con forza».
Pensa che Donald Trump sia razzista?
«Non so se lo sia intimamente. Posso solo dire che a giudicare dalle sue affermazioni da quando è iniziata la campagna elettorale ha lanciato attacchi carichi di pregiudizi mirati a creare divisioni. Dire che una persona non può svolgere adeguatamente il suo compito per via delle sue origini è senza dubbio un attacco razzista che non trova spazio nella nostra politica. Molti importanti esponenti repubblicani hanno preso le distanze da queste posizioni. Credo che Trump abbia lanciato quell’attacco con quel linguaggio razzista per sviare l’attenzione dalla truffa della Trump University. Una prassi fraudolenta. Non bisogna dimenticare che ha insultato e umiliato le donne, i musulmani, gli immigrati, gli afroamericani, i disabili. Sono in completo disaccordo. Non penso che si possa costruire un paese distruggendo le persone».
Copyright Washington Post/ Distr. Adnkronos Traduzione di Emilia Benghi 

QUEL CHE RESTA DI SANDERS 
FEDERICO RAMPINI Restampa 9 6 2016
CHE COSA resterà di Bernie Sanders? Cosa rimane, ora che il sogno di “un socialista alla Casa Bianca” cede il passo a un altro tipo di svolta storica, la prima donna che conquista una nomination? La risposta, almeno in parte, cerca di darla Barack Obama al diretto interessato. Oggi il presidente in carica riceve con tutti gli onori il candidato sconfitto nelle primarie ma ispiratore di un vero movimento. L’incontro tra i due alla Casa Bianca è alta diplomazia. Obama deve convincere Sanders a non rovinare la convention di luglio con proteste e contestazioni delle frange radicali.
Il 74enne senatore del Vermont, unico a proclamarsi socialista al Congresso di Washington, va persuaso con le buone maniere a riconoscere che la vittoria di Hillary Clinton è vera, indiscutibile e “pulita”, non è il frutto di una congiura dell’establishment, non deriva da regole truccate e dall’influenza dei poteri forti. Obama è la persona più adatta per farlo. In un certo senso lui fu il Sanders del 2008: rivoluzionario perché afroamericano, portatore di grandi speranze di cambiamento, anche se più moderato nei programmi.
Obama e Sanders hanno una preziosa “constituency” in comune: i giovani, che ambedue hanno portato a votare in massa. Il presidente ex-giovane e il “nonnino sessantottino” hanno fatto sognare la sinistra americana e mondiale. Obama ne dà atto a Bernie, nell’annunciare l’incontro di oggi: «Il presidente ringrazia il senatore Sanders per avere dato energia a milioni di americani con il suo impegno a combattere la diseguaglianza economica e il peso delle lobby nella politica. Il presidente e il senatore continueranno la loro conversazione sulle sfide di questa elezione e i problemi dei lavoratori americani. Il presidente vuole discutere con lui su come proseguire il lavoro straordinario per impegnare milioni di elettori, e costruire sul loro entusiasmo».
È un riconoscimento del ruolo di Sanders su tre piani: equità nel modello di sviluppo, questione morale, capacità di mobilitare gli elettori. Sono ingredienti di cui avrà bisogno Hillary, deficitaria soprattutto sugli ultimi due. Non a caso anche lei, nella serata della vittoria, ha avuto parole di riguardo verso il secondo piazzato: «Il senatore Sanders, la sua campagna, il vigoroso dibattito che abbiamo avuto su come alzare i redditi, ridurre le diseguaglianze, aumentare la mobilità sociale, sono stati benefici per il partito democratico e per l’America». Galateo, astuzia tattica, certo. Ma non solo. La Clinton e Obama sanno che Sanders è “l’altra faccia” del fenomeno Trump: un populismo di sinistra altrettanto viscerale e irriducibile nel suo odio contro le élite, l’establishment, i politici di professione. È l’erede diretto di Occupy Wall Street: contesta i fondamenti di questo modello economico, l’ipertrofìa della finanza, i decenni di tagli al Welfare, gli attacchi ai diritti dei lavoratori, una globalizzazione i cui benefici si sono concentrati in un’oligarchia di grandi azionisti e top manager.
È un linguaggio simile alla sinistra radicale europea, anche se nei programmi si “accontenterebbe” di importare in America il modello sociale scandinavo (che fu in vigore anche negli Stati Uniti, da Franklin Roosevelt a Lyndon Johnson). Sanders ci aggiunge un ideale di democrazia partecipativa: quella “rivoluzione politica” che ha attirato le folle entusiaste nei suoi comizi, è l’idea che le lobby si possono contrastare solo se i cittadini tornano ad essere attivi e vigilanti nella “polis”. Qualcosa di simile lo diceva anche Obama, poi il sogno si è perso nella realpolitik quotidiana, e nella guerriglia con un Congresso presto riconquistato (2011) dai repubblicani.
La sovranità del popolo che ha in mente Sanders è un ritorno alla democrazia partecipativa di Tocqueville adeguata all’èra dei social network. Obama e la Clinton sono approdati a una visione gradualista del cambiamento. Ma intanto hanno un imperativo immediato, stringente, drammatico. Per vincere a novembre, bisogna convincere l’ala radicale che Hillary non è venduta a Wall Street solo per averne accettato i finanziamenti. Bisogna convincere i rivoluzionari che non è il momento di giocare al “tanto peggio tanto meglio”: vizio antico di una sinistra pura e dura che adora perdere, se l’alternativa è un moderato riformista al governo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

I fan di Sanders: «Ma noi non voteremo per Clinton»
Primarie Usa. I sostenitori di Bernie Sanders puntano a rafforzare la posizione radicale contro quella dello status quo fino alla Convention di Marina Catucci il manifesto 9.6.16
NEW YORK Le primarie del partito democratico Usa si sono appena concluse con la proclamazione di Hillary Clinton. Bernie Sanders si è congratulato con lei ma ha promesso che, in ogni caso, porterà avanti la battaglia fino alla convention di Philadelphia. La decisone del senatore del Vermont è molto criticata anche da sinistra, indebolire così Clinton in realtà fa solo il gioco di Trump, dicono quelli che nella decisione di Sanders vedono narcisismo e ostinazione senza un progetto. Non la pensano così i suoi sostenitori.
«La scelta di Sanders di andare avanti non viene capita in quanto chi la commenta guarda a lui come ad un candidato alla Casa bianca – dice Sam, 28 anni sostenitore di Sanders oggi e parte di Occupy Wall Street nel 2011 – ma non è la solita corrente interna al partito democratico, questo è un movimento, che è entrato in politica e visto che le scelte in America son solo due, è entrato come democratico. Che Hillary abbia vinto o meno non è il punto ora. Per avere peso politico bisognerà andare fino alla convention, parlare con i delegati. Questo non rafforzerà Trump, solidificherà però la posizione radicale contro quella dello status quo». Ma a un certo punto arriverà il momento di votare.
«Io ho il passaporto americano ma sto per tornare a vivere in repubblica Ceca – dice Libor 40 enne e parte attiva di Occupy Wall Street – non ho mai voluto votare negli Stati Uniti, ma per queste primarie mi sono iscritto al Partito democratico solo per votare Sanders e dare un segno chiaro, visto che non sarò più qui e non voterò a Novembre. Il messaggio che deve arrivare è o lui o niente. Il mio, come quello di molti altri, non è un voto per i democratici o un voto contro Trump, è un voto per Sanders».
«Non voterò per Hillary – afferma chiaramente Laura, 38enne, attivista per i diritti umani – in realtà la mia candidata ideale sarebbe Jill Stein dei Verdi, ma ho supportato Sanders qua nello stato di New York e continuerò a supportarlo alla convention. Posso essere così rigida nelle mie posizione perché vivendo e votando qua a New York posso permettermelo. Diverso il discorso per chi vive e vota in stati che vanno tradizionalmente ai repubblicani o in bilico come la Florida o l’Ohio».
Ma la voglia di non votare per Hillary è forte anche in stati ben meno democratici. «Hillary e Trump, per una buon fetta della base di Sanders, sono percepiti come la stessa moneta – spiega Joshua, 32 enne, professore di scienze politiche e parte di quella base di Sanders di cui parla – cosa accadrà a novembre è molto nelle mani di Trump e di quanto si renderà invotabile. Hillary la si conosce, si sanno tutte le sue innumerevoli pecche, è un prodotto politico noto, Trump, invece, è nuovo alla politica, per ora ha sparato solo slogan propagandistici, adesso si vedrà di che vera pasta politica è fatto. Tradizionalmente i giochi seri si fanno adesso. Ora che il campo è ristretto ci si confronta su i temi veri. A chi vuoi affidare il potere dell’armamento nucleare Usa? A chi i diritti civili? E l’economia? Gli americani confronteranno i due candidati su questi temi, per questo dico che se la base di Sanders a novembre voterà per Hillary o meno, non dipenderà tanto da lei, ma da lui, da quante sparate impresentabili farà». 

Hillary celebra la «pietra miliare» ma Sanders rifiuta di farsi da parte
Clinton si aggiudica anche la California e consolida la nomination democratica di Giuseppe Sarcina Corriere 9.6.16
NEW YORK Le strategie di Hillary Clinton e di Donald Trump, di fatto, sono pronte. La «presumptive nominee», la nominata in pectore dei democratici, ha già cominciato a rappresentare il miliardario newyorkese come un pretendente «pericoloso», non solo perché «razzista» o «xenofobo», ma soprattutto perché «incompetente» e «velleitario». La prova generale si è vista il 2 giugno, in un comizio a San Diego sulla politica estera. L’ex Segretario di Stato ha sviluppato le implicazioni contenute nelle proposte di Trump, prefigurando uno scenario di isolamento per gli Stati Uniti e di instabilità planetaria. Hillary adotterà lo stesso metodo continuando la serie con l’economia, la sicurezza interna, le politiche energetiche e ambientali, l’educazione, la salute. L’obiettivo è attirare una parte dei moderati repubblicani, sempre più a disagio con le sortite del loro portabandiera. L’ultima quella sui giudici di origine messicana, incapaci di «giudicare con obiettività».
Lo staff di Trump, guidato dal consigliere Paul Manafort , si sta concentrando da settimane sull’evoluzione presidenziale del candidato conservatore. Ma finora, oggettivamente, non si è vista traccia di questo lavoro. Il tycoon preferisce puntare sugli attacchi personali, sul «carattere inaffidabile di Hillary». Ora sta raccogliendo fatti antichi e recenti sulla famiglia dell’avversaria, dalla stagista Lewinsky alle mail riservate dell’ex Segretario di Stato, fino ai finanziamenti della Fondazione Clinton. Con questo materiale Trump confezionerà il discorso molto aggressivo, già fissato per la settimana prossima. Dovrebbe essere il primo di una lunga sequenza, da qui a novembre.
C’è, però, ancora un’incognita importante, in un Paese che è uscito dalle primarie con un assetto tripolare: il populismo di Trump, il centro sinistra di Clinton e l’area radicale di Sanders. Che cosa farà il senatore del Vermont? Ieri notte, parlando a Santa Monica, in California, ha rilanciato la sua campagna, tra le ovazioni. Il leader settantaquattrenne ha detto che «non si può consegnare il governo del Paese a Trump»: la folla ha risposto con un boato e con i fischi. Poi il senatore ha riferito di «aver avuto una cordiale telefonata» con «Secretary Clinton», ma dalla platea è arrivato un prolungato «buuu». Sanders, tuttavia, ha fallito l’ultimo assalto, perdendo in maniera netta in California: 43,2% contro il 55,8% della rivale. I sondaggisti e tutti noi ci aspettavamo un testa a testa o addirittura un’affermazione dell’outsider. Previsioni, analisi sbagliate. Ma la vittoria di Hillary non ha risolto il suo problema politico ora più urgente: come recuperare l’elettorato anti-establishment di sinistra che ha innervato, con grande entusiasmo, la stagione di Bernie? Come evitare che Trump possa infiltrarsi nel «movimento», pescando tra quel 25% di elettori che dice di non essere disponibile a votare Hillary? C’è solo un modo per farlo: trovare un’intesa con lo sconfitto. E questo, al momento, è il passaggio più complicato.
Su una cosa, però, i due concordano. Occorre un mediatore, un garante: serve l’uomo che siede alla Casa Bianca. Barack Obama si è già fatto vivo sia con l’una che con l’altro. Ma è significativo che sia stato proprio il senatore del Vermont a sollecitare un colloquio approfondito con il presidente. I due si vedono oggi a Washington. Che cosa chiede Sanders? Per il momento ha ottenuto un risultato minimo: piazzare 5 suoi collaboratori tra i 15 componenti del comitato ristretto che lavorerà alla piattaforma programmatica, da approvare nella Convention di Filadelfia, il 25 luglio prossimo.
Evidentemente non basta. Il leader movimentista vuole che siano recepite alcune delle sue proposte, appoggiate da 10 milioni di persone: sanità e università gratuite per tutti, più tasse per i «millionaires e billionaires», stretta sui finanziamenti alla politica. Idee radicali, secondo i parametri ideologici degli Stati Uniti. Tocca a Obama suggerire un compromesso non facile .

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