mercoledì 29 giugno 2016

Leonardo Sciascia e il romanzo di mafia

Un rigore lucido ed eretico Lo sguardo di Sciascia sulla Sicilia
A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità Consapevolezza L’arma che ti permette di inchiodare i colpevoli non è l’inchiesta o la cronaca, ma il romanzo

Corriere della Sera 29 Jun 2016 di Alfio Sciacca
Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti.
Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra.
A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature.
Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate.
In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura.
Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana ( A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi ( Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer ( Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli.
Mentre dunque Sciascia rende « semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano ( Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia.
Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.


Pioniere della letteratura fedele al mondo reale
«Anti-Gadda» e «politico», Sciascia racconta tutto nel segno dell’impegno e della contemporaneità
Corriere della Sera 

1 lug 2016 di Paolo Di Stefano
Leonardo Sciascia è stato, per la letteratura italiana, un pioniere. Ha scritto polizieschi quando la detective story suscitava ingenuamente il sospetto di essere un genere «basso» a prescindere, popolare, indegno della grande letteratura. Ha scritto romanziinchiesta quando il raccontoverità emanava odore di giornalismo. Ha scritto pamphlet spesso «eretici» che scatenavano dibattiti e polemiche. Sciascia era difficilmente classificabile, tra narrazione pura, reportage, racconto storico, apologo, saggismo.
Nel 1954 Italo Calvino, uno scrittore anni-luce lontano da Sciascia, consiglia ad Alberto Carocci di pubblicare per «Nuovi Argomenti» le Cronache scolastiche di quell’ignoto maestro elementare di Racalmuto, presentandolo come un «giovane letterato molto intelligente»: le Cronache sarebbero uscite l’anno dopo sulla rivista per confluire, nel 1956, nel volume di Laterza intitolato Le parrocchie di Regalpetra. Nello stesso anno, quando Sciascia propone a Calvino un altro racconto, Stalin, l’editor dell’Einaudi si dice poco convinto: «Potevi giocare di più». E aggiunge: «In qualche parte c’è troppo la cronaca degli avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza controparte di narrazione. E forse (ma lì ognuno ha il suo modo) un po’ più di partecipazione pietosa per il personaggio (vedi Cassola) per salvarlo dalla macchietta. Insomma, è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora, potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità».
Quella mescolanza di materiali e forse di intenzioni non piaceva a un lettore intelligentissimo come Calvino. Non gli sarebbe piaciuto, nel 1957, neanche il nuovo racconto, Il quarantotto, giudicato poco coraggioso, sociologico, deludente, facile: «Chi se ne frega del costume? (…) Oggi la letteratura dev’essere terribile ». Benché lo trovi scolastico e troppo vicino al modello brancatiano, Calvino preferisce nettamente il terzo racconto, Gli zii di Sicilia, che di lì a poco darà il titolo al primo libro einaudiano di Sciascia, un trittico di racconti che Vittorini ospiterà nella collana dei «Gettoni».
«Si capisce — disse Sciascia — che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c’è scrittore che non lo sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria “irresponsabilità” al potere o la propria “responsabilità” a tutti. Io ho preferito questo secondo modo». Sciascia è posseduto dal demone del presente, e per questo viene percepito come uno scrittore forse troppo engagé (e forse con un eccessivo retaggio neorealistico) per essere un vero scrittore (il «costume» di cui parlava Calvino…). Eresia secentesca, declino della nobiltà settecentesca, Risorgimento e spedizione garibaldina, guerra di Spagna, Seconda guerra mondiale, arretratezza siciliana, emigrazione, mafia: tutto ciò che Sciascia racconta è nel segno dell’impegno e in chiave di contemporaneità.
La sua prosa (in cui lo stesso Calvino avverte subito «una gran limpidezza di segno») non esaltava, in genere, i critici-critici. Mancava di letterarietà, andava troppo al sodo, senza eccessive ricercatezze stilistiche. Sciascia era l’antiGadda, si interessava troppo al mondo, alla società, alla politica per essere interessato anche alla letteratura, il mondo o la mente umana gli si potevano anche presentare indecifrabili e barocchi com’erano agli occhi di Gadda, ma a differenza del Gran Lombardo, il siciliano Sciascia è rimasto fedele a quell’andamento paratattico di cui parlò, molto precocemente, l’amico Pasolini. Mentre per Gadda la scrittura doveva rappresentare e mimare la complessità inestricabile del mondo, per Sciascia doveva non semplificarla, ma ridurla all’essenziale: la sua scrittura finiva per sfidare pericolosamente il grottesco che era nelle cose. Nella famosa intervista con Marcelle Padovani, intitolata La Sicilia come metafora (1979), Sciascia parlò di una «ragione che cammina sull’orlo della non ragione». L’opera di Sciascia si sviluppa in questa tensione tra ragione (illuministica) e oscurità della non ragione, declinata come irrazionalità del Male o enigma cupo del Potere.
È dopo aver letto Il giorno della civetta che Calvino coglie al meglio la maniera di Sciascia e così gli scrive il 23 settembre 1960: «Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario, su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo, e un polso morale che non viene mai meno». Soffermandosi sull’illuminismo, che nell’opinione comune della critica accomuna Sciascia e Calvino, quest’ultimo fa però dei distinguo, avvertendo in sé una tendenza al «fantastico-romantico, nonsense» e in Sciascia un più radicale «carattere di battaglia civile». E però precisa: «Ma tu hai, subito dietro di te, il relativismo di Pirandello, e il Gogol via Brancati, e continuamente tenuta presente la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo (…)».
L’osservazione di Calvino andava acutamente a toccare lo stile proponendo all’amico una chiave evolutiva per le prove a venire: «Io mi aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che hai accumulato. E questo potrà difficilmente a v ve n i re senza un’esplosione formale, della tua levigatezza compositiva».
La previsione-suggerimento di Calvino si sarebbe avverata non tanto sul piano auspicato, quello formale (in cui Sciascia rimane fedele a se stesso), ma sul piano della visione, con l’approdo alle allucinazioni del Contesto e di Todo modo. La vera esplosione del non-fiction novel, tra testimonianza cronachistica e ricostruzione storica, si verifica nell’innescare in esso la miccia mostruosa delle congetture: quelle congetture visionarie su innocenza e colpevolezza, su verità e menzogna necessarie a raggiungere nel profondo una possibile verità o almeno a far emergere, dietro le presunte certezze e gli stereotipi, i fantasmi dei fatti in fuga, «in una conseguenzialità immaginativa o fantastica indefettibile» (sono parole sue). La perfezione di questa verità sfuggente, ambigua e ipotetica, sostiene Sciascia, «può essere dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà». Strano caso di scrittore illuminista, Sciascia, che dietro la «levigatezza compositiva» nasconde ombre spesso davvero, come voleva Calvino, terribili.

L’esordio della mafia in un romanzoNel 1961 «Il giorno della civetta» svelò una società omertosa, in cui Stato e cittadini sono sideralmente distanti e le istituzioni complici dei malavitosi. Un successo divenuto film. Che provocò un certo malumore nel narratoreCorriere della Sera 1 lug 2016 Di Matteo Collura
Il giorno della civetta fu pubblicato nel 1961 da Einaudi. L’autore aveva quarant’anni e si era già distinto come scrittore dal forte impegno civile con Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958). Mai, prima di allora, la mafia era stata la protagonista di un racconto letterario, per questo il romanzo ebbe subito successo, dando a Leonardo Sciascia fama e autorevolezza. Una storia di fantasia, ma che attingeva al reale, alle esperienze vissute dal giovane maestro elementare nell’angolo di Sicilia dove era venuto al mondo.
Lo spunto del romanzo fu dato dall’assassinio, nel gennaio 1947, del sindacalista comunista di Sciacca, Accursio Miraglia. Ma — e sarà lo stesso Sciascia ad ammetterlo — quella storia egli l’aveva dentro fin dal 1944, quando nel suo paese, Racalmuto, era stato ucciso il sindaco Baldassare Tinebra. Così lo scrittore nelle Parrocchie: «Il sindaco del ’44, l’uomo tirato su dagli americani, lo ammazzarono la sera del 15 novembre di quell’anno; era sera di domenica, la piazza piena di gente, gli appoggiarono la pistola alla nuca e tirarono, il sindaco aveva intorno amici, nessuno vide, si fece vuota rosa di paura intorno al corpo che crollava…».
Niente so e niente ho visto. Anche se tutti avevano visto e tutti sapevano. Nel Giorno della civetta, un testimone chiamato a dire cosa avesse visto o sentito quando nel piccolo paese era stato ucciso tale Salvatore Colasberna, al maresciallo dei carabinieri che lo interroga, con meraviglia risponde: «Perché, hanno sparato?».
C’è tutto quanto l’autore aveva appreso del «sentire» mafioso, dentro questo breve romanzo: il silenzio omertoso, la siderale distanza tra i cittadini e lo Stato, l’idea tribale della famiglia e quella, equivoca e soffocante, dell’amicizia, la complicità tra mafiosi e politici, il controllo malavitoso degli appalti, l’imposizione del «pizzo» e il metaforico espandersi al nord del Paese della nordafricana palma. E qui va detto che proprio in questa metafora, divenuta proverbiale, si coglie la distanza temporale tra i lettori di oggi e Il giorno della civetta.
In Sicilia non ci sono più palme «africane»: un insetto — «punteruolo rosso» il suo nome — le ha uccise tutte. Per questo la «fantasia» del capitano Bellodi ai giorni nostri non avrebbe più senso («gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…»). Oggi gli scrittori per rendere quel senso dovrebbero escogitare altre metafore.

Per il resto, tutto quanto nel Giorno della civetta viene detto sulla mafia, rimane di un’attualità che sorprende e sconcerta. Con chiarezza vi è suggerito ciò che realmente può servire — avendone voglia e capacità — per contrastarla. «È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui», è sempre il capitano Bellodi a esprimere il suo pensiero, questa volta in riferimento al capo-mafia del romanzo. «Non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre… Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti… Sarebbe meglio ci si mettesse ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti, di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso…». Chissà quante sorprese se lo si facesse oggi, a distanza — vale ripeterlo — di oltre mezzo secolo da quando Sciascia lo scriveva.
E si può andare anche più indietro, fino al 1957, quando su «Tempo presente», lo scrittore aveva dato la più chiara e veritiera definizione della mafia: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza».
Per questo è opportuno leggere o rileggere questo romanzo, il primo a parlare di criminalità organizzata. E fu l’autore a sottolinearlo, allorché nel 1972 la casa editrice Einaudi ne propose una versione scolastica: «Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960. Allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava».
Divenuto, nel 1968, un film, Il giorno della civetta rese popolare l’autore. Fu Damiano Damiani a portare il romanzo sullo schermo, interpreti: Franco Nero, Claudia Cardinale e un indimenticabile Lee J. Cobb, nella parte di don Mariano Arena, il capo mafia mandante del delitto con cui prende avvio la vicenda.
Eppure, sarà proprio il successo del film e poi delle tante rappresentazioni teatrali a provocare malumore nell’autore del romanzo. Lo scrittore finì per rendersi conto del parteggiare degli spettatori per il boss mafioso a svantaggio dell’eroe positivo, il capitano Bellodi. La suddivisione dell’umanità in cinque categorie, così cinicamente ma efficacemente formulata da don Mariano divenne subito proverbiale, e nelle rappresentazioni teatrali accolta con applausi entusiastici.
Ricordiamo il celebre monologo: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà».
Nel suo apprendistato giovanile Sciascia aveva avuto modo, come raccontò nelle Parrocchie, di conoscere « ominicchi » e « quaquaraquà», e certamente anche qualche capo bastone, uno di quegli uomini rozzi e violenti, ma dall’indiscussa autorevolezza nel loro miserabile ambiente. Uno di quei ceffi che gli americani del colonnello Charles Poletti scelsero come interlocutori privilegiati — e ben remunerati — per mantenere l’ordine nella Sicilia subito dopo lo sbarco della settima armata statunitense. C’è qualcosa di nuovo, oggi in Sicilia. Anzi d’antico.

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