martedì 21 giugno 2016

Si prepara una nuova grande transumanza: vedremo cose mai viste


La fede politica che perde le radici
di Ilvo Diamanti Repubblica 21.6.16
Q UESTE elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia.
IN ALTRI termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D’altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva “fondato” Forza Italia sull’anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall’irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte — o quasi — le aree del Paese.
Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l’impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l’inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni — cioè, circa 50 — ha, infatti, cambiato colore.
Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro- destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno.
A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.
Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori “diversi”. Che provengono da partiti e da aree “diverse”. Ma soprattutto da “destra”, quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com’è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.
Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum “costituzionale”. Pardon, “personale”. Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un’arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la “domanda di cambiamento”. Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti “in tempi di cambiamento”. Come quelli che stiamo attraversando.
Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la “politica” ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la “messa è finita”. Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene — e diverrà — un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne — e prevederne — i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni. 

La strategia degli elogi
di Stefano Folli Repubblica 21.6.16
NON è solo fair play, l’inchino all’avversario da cui è stato battuto. Quando Renzi ammette la sconfitta e promuove l’istanza di «cambiamento» dei Cinque Stelle («non è un voto di protesta») in realtà mette sul tavolo una carta politica e si prepara al confronto interno al Pd.
RICONOSCERE che i Cinque Stelle hanno raccolto un voto positivo, di gente che vuole cambiare e non solo protestare, significa due cose nel linguaggio del premier. La prima è che Renzi non si considera realmente dalla parte dei vinti. È come se dicesse ai “grillini”: voi avete espresso con maggiore efficacia un punto di vista che anch’io sostengo; in fondo ci troviamo sullo stesso versante della barricata; e se voi questa volta siete stati più bravi di me, è solo perché io sono appesantito e frenato dal mio Pd, oltre che dalle cure del governo.
Il secondo aspetto riguarda appunto il partito, dove la minoranza si prepara a un confronto in Direzione senza troppi convenevoli (del resto, se non ora, quando?). C’è da dubitare che il segretario voglia concedere qualcosa a Bersani e ai suoi amici. Il gioco è tutt’altro: dimostrare che l’opposizione è poca cosa, solo ceto politico rinchiuso nel recinto romano. Meri conservatori destinati a esser travolti, loro sì, dal vento del cambiamento. Il premier-segretario si prepara ad attaccarli, questi avversari interni, per la perdita di Roma e anche di Torino. Riservando a se stesso, si può immaginare, solo una minima porzione di autocritica.
In altri termini, gli elogi ai Cinque Stelle indicano la volontà di prendere ispirazione dagli anti-sistema per rivolgersi al Paese con ritrovato slancio. Chiudersi negli uffici di un partito tradizionale e riflettere sugli sbagli commessi: ecco un esercizio che a Renzi è sempre piaciuto poco. Gli piace ancora meno oggi, quando in quelle stanze rischia di subire un vero processo politico a opera di una fazione che egli disistima. Invece il suo sogno è di giocare la partita con le regole dei Cinque Stelle: ritrovando il filo del contatto diretto con l’opinione pubblica, mettendo in campo candidati giovani e simpatici, assaporando il gusto di un successo elettorale in apparenza facile. Sembra che tutto si risolva individuando una Chiara Appendino o una Virginia Raggi renziana (e in fondo il retro pensiero è che entrambe sarebbero renziane se solo le circostanze temporali avessero incrociato diversamente i destini personali). Ma la realtà è un po’ più complicata. Dietro il voto non solo delle grandi città, ma anche dei numerosi centri medi o medio-piccoli dove il Pd è stato battuto, si coglie una verità amara. Con ogni evidenza, il centrosinistra italiano non era ancora pronto per vivere solo grazie alla luce riflessa del leader. Questa è la dimensione renziana, che si è trovata a convivere con una tradizione dedita a coltivare le proprie radici nel territorio. Radici all’improvviso perdute, certo anche per gli errori compiuti: ad esempio, quello di immaginare che fosse possibile vivere di rendita, pressoché immobili nel tumulto dei tempi.
Il problema è che questo è il solo Pd di cui il premier-segretario dispone. Il tentativo di trasformarlo in qualcosa di diverso finora non è riuscito. E la sconfitta nelle urne, per quanto Renzi faccia mostra di non considerarsi il bersaglio di un voto di protesta, riapre ferite mai rimarginate. Ora il leader si sforzerà di ricondurre tutto alla battaglia referendaria, sulla quale chiederà di nuovo l’unità interna. Magari garantendo la sollecita convocazione di un Congresso nel quale discutere la questione del doppio incarico da lui accentrato, premier e segretario. Ma qualcosa è cambiato dopo i ballottaggi. La tregua, già difficile un mese fa, ora lo è molto di più. Dietro i dissensi interni, si staglia il nodo della legge elettorale. Agli occhi di molti, l’Italicum appare più che mai un azzardo. I risultati delle comunali indicano che sulla carta i Cinque Stelle possono battere il candidato del centrosinistra: soprattutto se riescono ad attirare i voti di destra, come lo stesso premier ammette. Tuttavia resta improbabile che il governo accetti di riaprire il “dossier”. Qui Renzi resisterà. Nel frattempo tenterà di recuperare i voti “grillini” blandendoli e ammiccando ai temi anti-sistema. Il che configura una scommessa temeraria, dal momento che una linea anti-casta non s’improvvisa. E imitare l’avversario rischia di accreditarlo invece di svuotarlo. 

Perché cambiare la legge elettorale ora è possibile
di Francesco Verderami  Corriere 21.6.16
ROMA Sono arrivati ormai all’esegesi dei suoi discorsi, all’analisi delle incidentali pronunciate dal «compagno segretario». Nella minoranza del Pd, l’intima speranza di un cambio della legge elettorale si è tramutata in fideistico convincimento dopo il crac dei ballottaggi: l’idea è che alla fine Renzi non modificherà l’Italicum. Ma lascerà che l’Italicum venga modificato. Nella «ditta» è in corso un passaparola su una frase — «per me non si cambia» — pronunciata dal premier, che apre il cuore a molti, non solo nel Pd. Non bastasse, si cita anche Verdini, manco fosse Zarathustra, che avrebbe assicurato ai suoi come «Matteo alla fine cambierà la legge elettorale».
Non ci si attarda a capire se certi discorsi del leader di Ala servano semplicemente a fronteggiare emorragie dal suo gruppo parlamentare. Né si capisce quanto possa essere fondata la tesi sul laissez faire di Renzi, che dovrebbe lasciare al Parlamento la possibilità di calendarizzare le proposte di modifica all’Italicum, e affidarsi al lavoro delle Camere senza porre veti né questioni di fiducia. Possibile? Anche perché — dopo il default alle Comunali — questo gioco del premier sarebbe smaccato. A meno che la Consulta, chiamata in causa sull’Italicum, non eccepisse alcuni aspetti del sistema di voto, fornendo il pretesto per cambiarlo dopo la vittoria del Sì al referendum.
Sarebbe un rompicapo. Come un rompicapo è anche il progetto di chi punta sulla sconfitta del referendum, avendo in testa — guarda caso — sempre e solo la legge elettorale. Ieri l’ex ministro Quagliariello, che vanta numerose conversazioni con D’Alema, ha lanciato una proposta volta a compattare tutte le forze del No su una «comune proposta alternativa» all’Italicum: sarebbe un miracolo trovare in pochi mesi l’intesa su un tema che divide da anni. A meno che l’intento del fondatore di Idea non sia più semplicemente quello di aiutare la costruzione di una piattaforma parlamentare per dar vita a un «governo di scopo» (un altro) dopo il fallimento della consultazione d’ottobre, per far vedere che «dopo Renzi non c’è il caos».
In effetti sono in tanti a voler evitare lo scioglimento anticipato della legislatura, anche se gli interessi sulla legge elettorale sono tanti e divergenti. A volte mutevoli. L’azzurro Toti, per esempio, si sarebbe convertito al premio di maggioranza alla lista, che è l’elemento qualificante della riforma di Renzi ma è anche l’elemento squalificante per Berlusconi: «Non è affatto male», avrebbe detto il governatore ligure in una riunione tra forzisti e leghisti. Il mondo cambia, a volte va alla rovescia. I grillini, per dire, potrebbero aver interesse all’approvazione della riforma costituzionale per garantirsi così l’Italicum. L’impressione di Renzi è che lo stato maggiore Cinquestelle farà una campagna soft per il No ma che i loro elettori voteranno sì.
Può darsi, come potrebbe darsi che il Movimento — geloso della propria autonomia e politicamente intenzionato a non fare prigionieri — voglia per sé la testa di Renzi e insieme la legge di Renzi. Voglia cioè sfruttare il caos dopo il fallimento del referendum per puntare subito al voto anticipato, sfruttando l’Italicum alla Camera (che garantirebbe la maggioranza a un partito), e tentando la sorte al Senato con il Consultellum (che garantirebbe la maggioranza solo in caso di una clamorosa performance di un partito). Siccome nessuno oggi vuole sfidare i grillini alla roulette russa delle urne, tutti si aggrappano alla legge elettorale come fosse una ciambella di salvataggio. Dimenticando ciò che la storia recente insegna: senza il consenso dei cittadini, al momento del voto il salvagente affonda sempre. 

L’età del nuovo travolgente (e qualche paura di troppo)
di Venanzio Postiglione Corriere 21.6.16
Ogni elezione ha la sua immagine, che poi diventa un simbolo. Le lacrime trattenute di Fassino nella notte torinese non sono soltanto la fotografia di un sindaco galantuomo che si sentiva vincitore e si ritrova sconfitto. Sono anche lo specchio di una classe dirigente costretta a lasciare il palcoscenico per l’arrivo di attori che saranno bravi o meno bravi, brillanti o inesperti, ma con un marchio che nel 2016 fa la differenza: sono nuovi. O appaiono nuovi. Nuovi come Raggi e Appendino, capaci di travolgere le cautele della città eterna e gli antichi equilibri sabaudi .
N uovi come Sala, il manager di Expo che negli ultimi giorni si è allontanato da Renzi, ha abbracciato la sinistra arancione e soprattutto (era ora) ha parlato più alla città del futuro che agli alchimisti della politica. Nuovi come il vincitore di Varese Davide Galimberti (sembra un dettaglio, non lo è), che dopo 23 anni conquista la culla della Lega, dove paradossalmente il Carroccio si è rivelato il «sistema» da abbattere più che il modello da esportare.
I maghi dei flussi hanno fatto fatica. Ancora. Come era successo con la Lega delle origini, con il ciclone di Berlusconi, con la non vittoria di Bersani. Si sono persi il trionfo di Raggi, che doveva vincere e invece ha stravinto, così come la rimonta di Appendino, che era partita per fare testimonianza, così come la forza di de Magistris, che a Napoli non conosce rivali (aiutato dagli stessi rivali). E i timori di «incompetenza» sono fondati e infondati allo stesso tempo. Fondati perché chi comincia spesso non ha cultura politica, conosce poco la macchina, trascura il valore delle alleanze quando servono per afferrare i risultati. Infondati perché la storia (e la bellezza) delle leadership vivono di strappi e di sorprese, per cui si può anche non nascere dirigenti come nel vecchio Pci o nelle correnti della Dc ma provare a diventarlo. Via via. Nessuno dubita che sia meglio essere competenti sempre e da subito. Ma il nuovismo come salvezza e il nuovismo come barbarie sono retoriche speculari e alla fine ingannevoli. I pensatori greci ci hanno ampiamente spiegato (2.500 anni fa, non alla vigilia dei ballottaggi) che il sale della democrazia è la scelta degli elettori prima ancora che il profilo degli eletti. Altrimenti avremmo una oligarchia che si auto-nomina all’infinito: perché sicuramente più esperta, visto che è già in carica.
La sconfitta di Piero Fassino, ex ministro, ex leader della sinistra, ex sindaco di una città in salute, è il paradigma del cambio di stagione. Politico e generazionale. Più di Giachetti colpito e travolto. Perché a Roma Raggi vince perché doveva vincere, perché le macerie stesse chiamano (pretendono) una piccola rivoluzione. Ma a Torino, senza la mafia, senza i detriti, Appendino ha la meglio per l’alleanza di fatto nelle urne tra Cinque Stelle e centrodestra ma soprattutto per il clima politico generale, che l’ha sollevata e sospinta come fosse predestinata alla vittoria. A prescindere dal primo turno che la vedeva lontana, dal programma che resta fumoso e dalla squadra che è proprio da inventare. Il messaggio di rottura più il salto anagrafico sono il tracciato dei nostri anni: ma questo Renzi lo sa bene, perché rivede il suo corredo genetico di leader giovane e rottamatore.
Dice tante cose, il voto dei sindaci. E non solo che il centrosinistra guidava 20 capoluoghi e ne ha conservati soltanto 8. Dice molto sull’essenza stessa dei tre schieramenti. I Cinque Stelle sono più forti ma anche più borghesi: le prime parole di Raggi e Appendino segnano già il passaggio dalle fiamme della distruzione all’idea di governabilità. Tutta da verificare. Il centrodestra può ripartire dal modello ambrosiano di Parisi, il vero outsider, lo sconfitto di successo che ha riportato l’alleanza sui binari moderati e ha frenato le ambizioni della Lega. Ma anche il centrosinistra, nel luogo simbolo dove ha vinto, a Milano, ha un aspetto molto diverso dalle apparenze. Se al primo turno ha combattuto il Beppe Sala candidato di Renzi e del partito della Nazione, al secondo turno è apparso il Beppe Sala federatore, sostenuto dai Radicali ma anche dalla sinistra-sinistra, amico dei grattacieli ma pure di Gherardo Colombo. Un volto civico e non politico (nuovo, appunto) e uno schieramento largo. Quasi un Ulivo milanese, se il termine non fosse maledettamente fuori moda. 

Il lanciafiamme e l’appendino
di Massimo Gramellini La Stampa 21.6.16
Ti candidi alla segreteria del partito e hai tutti contro, tranne i dispari e gli anarchici. Perdi, ma è come se avessi vinto. Infatti l’anno dopo vinci tu. Ti lasci riempire dalle speranze che hai suscitato: la meritocrazia, l’innovazione, la rottamazione degli apparati. In virtù della carica rivoluzionaria che emani, ti perdonano l’aria furbetta e persino lo sgambetto a Letta, indispensabile per conquistare il governo in tempo utile a vincere le Europee. Adesso puoi fare quello che hai promesso, magari andare alle elezioni e stravincerle. Invece ti impantani nei riti di Palazzo con gli Alfano e i Verdini e ti circondi, Boschi a parte, di esecutori mediocri e ruffiani. Allontani i liberi pensatori e li sostituisci - anche nei media - con falsi amici che fino a ieri stendevano stuoie a Bersani e domani le spolvereranno per Di Maio. A Palazzo Chigi hai due sottosegretari: Del Rio l’anima bianca e Lotti l’anima nera. Fai fuori l’anima bianca. Perdi contatto col mondo reale, vai solo dove sei sicuro di prendere applausi, ma i fischi ti raggiungono anche lì.
Prometti che tornerai quello di prima, però in Campania sostieni vecchi arnesi alla De Luca, mentre a Roma costringi alle dimissioni Marino - un atipico, come eri tu - e ovunque sposti a destra il partito senza intercettare i voti di destra. Ti aggrappi ossessivamente a un referendum sulle regole del gioco, anziché combattere l’oligarchia finanziaria che impoverisce i tuoi elettori. Perdi Roma, Torino e il tuo senso in questa storia. Ma puoi ancora ritrovarlo, se invece del lanciafiamme prenderai qualche appendino. In giro ce ne sono tanti e una volta piacevano anche a te. 

Un bagno di realtà
di Gian Antonio Stella Corriere 21.6.16
«Stanotte non si riesce a dormire», ride su Facebook Fiorella, un’elettrice romana, «Hanno appena citofonato per la raccolta porta a porta, stanno colando catrame per coprire le buche sotto casa e trapanando per installare i giochini per i bimbi nel parchetto…». Battute. Amichevoli. Nessuno pretende che Roma e Torino, le capitali prese dalle «Pulzelle 5 Stelle», cambino così, con uno schiocco di dita, in poche ore, pochi giorni, poche settimane. Ma le aspettative sono tali, intorno alla mirabolante svolta, da imporre alle due ragazze-sindache un compito titanico: mostrare in fretta le loro capacità di governo. Molto in fretta.
La prima grana per Virginia Raggi e Chiara Appendino è infatti questa. Per quanto abbiano studiato, abbiano le lauree giuste e si siano infarinate negli uffici municipali come consigliere, le due avrebbero bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi, dei dossier, delle macchine comunali. Così da incidere poi in profondità nelle cose che non vanno. Non basteranno pochi mesi o pochi anni per sanare, soprattutto in Campidoglio, piaghe finanziarie, amministrative, etiche, urbanistiche finite in cancrena.
U na missione da far tremare le vene e i polsi. Davanti alla quale ogni persona con la testa sul collo dovrebbe sentirsi inadeguata. Fosse pure Winston Churchill: come può una persona sensata sentirsi all’altezza di governare Roma? Oggi? Ma «fra Modesto non fu mai priore», dice un vecchio proverbio: l’ambizione è essenziale per accettare certe sfide. E dunque evviva la grinta, sotto questo profilo, d’una classe dirigente giovane e femminile decisa a lasciare il segno.
Purché la Raggi (e così la Appendino, anche se eletta alla guida di una realtà storicamente amministrata meglio) abbia chiaro che nulla le sarà perdonato. Certo, per qualche tempo gli avversari stessi saranno costretti ad accettare i legittimi lamenti sulla «pesantissima situazione ereditata». Durerà poco, però. Poi ogni ritardo nella soluzione di problemi annosi sarà addebitato al nuovo sindaco, alla nuova giunta, alla nuova maggioranza.
Di più: dopo averla invocata per anni e sperimentata solo in alcune realtà locali minori (per quanto possa esser definita minore Parma dove Federico Pizzarotti è andato subito a scontrarsi contro una realtà molto più difficile da modificare rispetto ai sogni, ricavandone scomuniche), Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno in pugno la possibilità di misurare, a dispetto di tutti gli scettici, la capacità del M5S di essere davvero forza di governo. Non basterà loro amministrare bene come viene chiesto a Beppe Sala o Roberto Dipiazza: a loro sarà chiesto di più. Un peso supplementare.
Un conto è strillare come Beppe Grillo che «bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe», un altro affrontare quotidianamente, tra una trattativa sindacale, un’epidemia influenzale dei pizzardoni e una improvvisa voragine per strada a Montesacro, i temi degli asili a Torre Spaccata, delle bare in giacenza a Prima Porta, della manutenzione delle Mura Aureliane, dello sfalcio dell’erba a Porta Maggiore, dei finti gladiatori con corazza di finto cuoio che importunano i turisti e via così, di rogna in rogna. Per questo, dopo le esperienze fallimentari delle gestioni di destra e di sinistra in Campidoglio, col loro strascico di inchieste giudiziarie e risse politiche, una massa dei romani che prima avevano votato di qua e di là hanno scelto di investire massicciamente, al di là del curriculum contestato, su Virginia Raggi. E per questo, comunque la si pensi, c’è da sperare che non cominci subito un tiro al bersaglio per dimostrare che anche la nuova sindaca è destinata al fallimento e peggio ancora che in fondo «è come gli altri perché so’ tutti uguali». C’è già online («romafaschifo.com») chi scommette: «La mafietta romanella sarà capace di farla fuori in quattro e quattr’otto, sicuro. Sindacati famigliari, palazzinari, imboscati comunali, occupatori di professione, mutandari, cartellonari, antagonisti etc etc, faranno comunella in combutta col governo Nazionale e la Raggi sarà costretta ad abbandonare…».
Può darsi, che finisca così. E può darsi che anche a Torino possano rimpiangere di non essersi adagiati nella serena e consueta gestione garantita da Fassino. Dopo decenni di delusioni seminate dai partiti storici che hanno portato a volte nei municipi pratiche e personaggi immondi, però, sarebbe un peccato se questa sfida di due donne alla guida di due grandi comuni venisse segata così, a priori, «a prescindere» direbbe Totò, per la voglia di dimostrare che «non ce la faranno mai». Se eventuali fuoriclasse dimostrassero di esser in grado davvero di governare meglio, ben vengano: ci guadagneremmo tutti.
Detto questo, chi esulta oggi per il voto a Roma e Torino deve essere il primo, per decenza, a non fare sconti alle due nuove amministrazioni. E a pretendere davvero una svolta. Qualche dubbio, infatti, c’è. Dice tutto l’autobus dell’Atac fotografato con la scritta luminosa «Welcome Raggi». È vero che la candidata grillina ha fatto di tutto per rassicurare tutti, a partire dagli autisti della sgangherata e clientelare azienda dei trasporti definita «un fiore all’occhiello», ma queste rassicurazioni con le colpe addossate solo ai partiti saranno seguite o no da un repulisti reale, duro e se necessario impietoso?
E come può il programma ufficiale dedicare 677 parole alla casa senza mai nominare la parola «abusivi» se i libri dello stesso assessore nuovo Paolo Berdini parlano di almeno 84 borgate fuorilegge con centinaia di migliaia di stanze? E si può promettere trasparenza per 2.096 parole (quasi il doppio della dichiarazione d’indipendenza americana) senza nominare mai la (cattiva) burocrazia? E il «contrasto all’abusivismo turistico/ricettivo in ogni sua forma» sarà seguito sul serio da una guerra agli hotel illegali? E che sarà del patrimonio di 42 mila immobili comunali affittati in moltissimi casi a 7,75 euro al mese? A farla corta: dopo esser stata votata da tutti e avere rassicurato tutti, a partire dai soliti tassisti, sarà bene che Virginia Raggi si ricordi di Anatole France: «Non esistono governi popolari. Governare significa scontentare». Lo farà? C’è da augurarsi di sì . 

Le risposte che i partiti devono dare
di Maurizio Molinari La Stampa 21.6.16
Proteste per carenza di sicurezza, impoverimento economico, degrado ambientale e assenza di prospettive: questo hanno trovato i nostri giornalisti nei quartieri di Torino e Roma dove si è originato il risultato a favore del Movimento 5 Stelle nei ballottaggi. Ciò che ne esce è un viaggio nel popolo della spallata ovvero alla genesi di uno scontento che viene dal basso contro amministratori locali, partiti tradizionali e leader nazionali, privo di un’unica matrice politica perché è il risultato di una miriade di situazioni dissimili: dal timore di essere borseggiati all’intolleranza contro gli immigrati fino alla richiesta di parchi ben curati.
Se tale protesta si è indirizzata contro i candidati del Pd è perché in queste aree di degrado lo scontento, sedimentato nel corso di anni, tende a convergere contro chi rappresenta il governo ed a premiare chi - come i 5 Stelle - è abile ad esprimere la sfida all’establishment. Questa fotografia della versione italiana del movimento di protesta che tiene banco in altri Paesi europei deve far riflettere anzitutto i leader dei partiti tradizionali. Non riconoscere l’entità della sfida che hanno davanti può condannarli a nuove sconfitte mentre la reazione più efficace può venire dall’ammissione dell’esistenza di diseguaglianze e disagi di entità crescenti. Che necessitano risposte concrete. 

Così mutano i confini tra I PARTITI
di Massimo Franco Corriere 21.3.16
La favola di Matteo Renzi come «re Mida» della sinistra, che trasforma in oro elettorale tutto quello che tocca, ora rischia di essere raccontata alla rovescia. Il suo Pd domenica ha dimezzato i Comuni in cui governa. Il M5S è passato da zero a 19. Il bistrattato centrodestra più o meno tiene. E i leader dimostrano quanto sia difficile analizzare i ballottaggi con freddezza. Lo sfondo è frammentato e mescola fattori locali e nazionali: a conferma che il rapporto con l’opinione pubblica ormai è difficile, volatile.Eppure, qualche linea di tendenza affiora, insieme a molte incognite per l’autunno.
Finito «l’effetto re Mida»
Il primo elemento di novità è, appunto, la fine dell’«effetto re Mida». La vittoria renziana alle Europee del 2014 è un ricordo ingiallito. I ballottaggi del 19 giugno hanno mostrato lo strano fenomeno di candidati del premier come Giuseppe Sala a Milano e Roberto Giachetti a Roma, che raccomandavano agli elettori di votare solo per loro, senza pensare a Renzi. Un paradosso. Fino a qualche mese fa, avveniva il contrario: si pensava che il segretario-premier fosse una sorta di carta in più offerta ai candidati per prevalere contro gli avversari.
Carta, in realtà, un po’ consunta: tanto che non ha funzionato nemmeno nella «sua» Toscana, dove il Pd ha perso molte delle sue roccaforti. A livello locale, da tempo si percepiva una perplessità diffusa verso il capo del governo. Arrivavano strane richieste di alcuni candidati, tipo quella di non avere Renzi ai comizi finali. I fischi, per quanto uniti agli applausi, collezionati in alcune manifestazioni da ministri e ministre, erano scricchiolii. Risultato: amministravano 90 Comuni di quelli in cui si è votato, e ora solo 45. Ha fatto meglio il bistrattato centrodestra: ne conserva 34.
M5S campione di ballottaggi
È una frattura con l’opinione pubblica che i ballottaggi hanno certificato; e della quale si è avvantaggiato un M5S che al secondo turno dà il meglio perché non esprime un’ideologia definita. E si affida a concetti facili come onestà e semplicità, abbinati alla narrativa antisistema. È un’operazione ambigua ma di successo, affidata all’istrionismo di un Beppe Grillo che scompare e riappare a seconda delle convenienze. Così, da zero è passato a controllare 19 città: comprese Roma e Torino. D’altronde, sfrutta un risentimento sociale diffuso.
Ma il Movimento comincia a esprimere un voto più politico, e più micidiale nei suoi effetti. Esce dall’isolamento e cerca di condizionare i risultati non solo quando presenta propri candidati, ma quando si tratta di danneggiare i nemici: di nuovo, il Pd. E lo fa scegliendo un profilo di radicalismo moderato, «d’ordine»: un asse di fatto col centrodestra.
«Perdere qualche Comune è normale»
Il premier sostiene che «dopo due anni di governo è normale perdere qualche Comune». Ha anche ribadito che si è trattato di un voto locale vinto dal M5S nel segno del cambiamento. Ragionamento ineccepibile, ma politicamente un po’ autoassolutorio: soprattutto se tra le città perse ci sono la capitale d’Italia, Torino e Napoli; e se sono cadute in mano a un M5S da sempre schierato contro il Pd, e viceversa. Quando si parla di cambiamento, per quanto ambiguo e da decifrare nella sua portata e nei suoi approdi, è il partito di Grillo a esprimerlo.
Renzi lo riconosce. Eppure viene il sospetto che lo faccia anche per poter regolare meglio i conti interni: come se i candidati perdenti fossero stati scelti non da lui ma da altri; e adesso si trattasse solo di compiere l’ultimo passaggio della «rottamazione». Nel cambio di fase che i grillini cavalcano con abilità e spregiudicatezza, il rischio del Pd è di apparire datato a sua volta.
Un referendum a ostacoli
Se dovesse radicarsi un sentimento del genere, i contraccolpi sul referendum istituzionale di ottobre si farebbero sentire. Renzi è convinto di stravincerlo, e probabilmente ha buoni motivi per pensarlo. Ma dopo la delusione dei ballottaggi, la strada si presenta in salita. E la tendenza a analizzare quanto è accaduto scaricando sugli altri le responsabilità potrebbe alimentare l’insofferenza verso il premier. Alle perplessità sul merito delle riforme approvate, si sommerebbe il rifiuto della personalizzazione del referendum.
Il limbo del centrodestra
In questo scenario, lo schieramento che fa capo a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini sembra condannato al ruolo di comparsa: al massimo di portatore d’acqua. Il vuoto lasciato da FI non viene riempito dalla Lega in chiave xenofoba e estremista. Eppure quel serbatoio di consensi esiste ancora: nonostante l’assenza di una leadership condivisa a livello nazionale.
Lo sconfitto, semmai, è Salvini col Carroccio. Mai come ora avrebbe potuto strappare a FI il primato. Invece esce dal voto ridimensionato nelle ambizioni anche personali. Brucia soprattutto l’insuccesso di Varese, conquistata dal centrosinistra nonostante la candidatura del governatore della Lombardia, Roberto Maroni.
L’astensionismo, primo partito
Ma sconfitte e vittorie, anche del M5S, sono sovrastate da un aumento dell’astensionismo: a conferma che nessuna forza è capace di riassorbire il distacco crescente dalle urne. Ai ballottaggi ha votato appena il 50,54 per cento: quasi il 10 per cento meno che al primo turno. Si può liquidare il fenomeno come tardo-qualunquismo, o come conferma di un’Italia «anglosassone» per il numero basso di votanti. Ma forse, banalmente, esiste un Paese in attesa di un’offerta politica più seria e qualificata: da parte di tutti.

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