mercoledì 22 giugno 2016

Spezzaferro se l'è legata al dito perché le stesse cose vorrebbe farle lui




«Così Renzi sta rottamando il Pd Il referendum? Io voterò no»

L’ex premier: era fatta meglio la riforma Berlusconi E l’Italicum è incostituzionale La segreteria deve andare a un altro

Corriere della Sera  22 giu 2016 Di Aldo Cazzullo
Massimo D’Alema chiede a Renzi di lasciare la guida del Pd: «Al referendum voterò No — dice al Corriere —. La riforma è peggiore di quella di Berlusconi. E l’Italicum è incostituzionale. Se Matteo Renzi non cambia, rottama il Pd».

Massimo D’Alema, alla fine lei come ha votato?

«Come sempre: secondo le indicazioni del partito. Certo è un po’ buffo che il Pd vinca a Prati e Parioli e perda a Cinecittà e Pietralata».

Come valuta il voto?

«La sconfitta va molto al di là di specifici eventi locali. È una tendenza generalizzata: perdiamo Torino, Trieste, Pordenone, Grosseto, Novara, Benevento, eccetera. Poi ci sono situazioni come Roma, dove la sconfitta assume dimensioni di disastro. Qui, come a Napoli, ha pesato una vera e propria disgregazione del partito».

Serve un segretario diverso dal premier?

«Sì. Serve una figura che si occupi del Pd a tempo pieno. E serve una direzione collegiale. Il partito è stato volutamente lasciato senza guida. Lo si ritiene non importante oppure si scarica su di esso la colpa quando le elezioni vanno male. È tutto puntato sul leader e il suo entourage, neanche collaboratori. Renzi non convoca la segreteria, che pure è un organo totalmente omogeneo. Si riunisce solo con un gruppo di suoi amici».

Renzi è il segretario che ha indetto più direzioni.

«Ha mai seguito una direzione del Pd? Sono momenti di propaganda. Il capo fa lunghi discorsi, cui seguono brevi dichiarazioni di dissenso; poi parlano una cinquantina di persone che insultano quelli che hanno dissentito. Non c’è ascolto, non c’è confronto. Non esiste la possibilità di trovare convergenze o accordi».

Renzi ha perso la sintonia con la base?

«Con la base e con il Paese. Una parte molto grande dell’elettorato di sinistra non si riconosce nel Pd, non lo sente come proprio, non si mobilita. Ho fatto campagna elettorale, là dove mi hanno chiamato. Ho trovato anche qualcuno che diceva: non dovete disturbare Renzi, ma anche tanti con un sentimento di avversione. Lui non si è limitato a rottamare un gruppo dirigente; sta rottamando alcuni milioni di elettori».

Addirittura?

«Nei ballottaggi si è votato in 126 comuni su 8 mila. I nostri candidati — non dico il partito; i candidati, comprese le liste civiche — rispetto alle precedenti comunali hanno perso un milione di voti».

Sono calati i votanti.

«Sono calati soprattutto i nostri votanti. Più della metà degli astenuti sono elettori Pd. Un tempo, quando cresceva l’astensione, vincevamo: perché avevamo un elettorato attivo, per spirito civico e per il legame con il partito. Oggi questo legame si è spezzato».

A Milano il Pd tiene.

«Sì, ma non perché Renzi ha scelto Sala; perché Pisapia si è battuto come un leone per coprirlo a sinistra. Ha fatto pure un’intervista al Corriere dal titolo “non si vota su Renzi”. Evidentemente il premier non era percepito come un valore aggiunto, anzi».

Lo sfondamento al centro non c’è stato.

«Pisapia, candidato della sinistra radicale, al ballottaggio prese il 55,11% e 365 mila voti. Sala ne ha avuti 264 mila: oltre 100 mila in meno. Come sfondamento al centro, non è male».

Che effetto le ha fatto la sconfitta di Fassino?

«Mi è spiaciuto moltissimo. A Piero mi lega un rapporto personale di alcuni decenni. Non meritava questa sconfitta. E non meritava di sentirsi dire, dopo aver sostenuto Renzi in tutti i modi — anche troppo, come presidente dell’Anci — che “abbiamo perso perché avevamo volti vecchi”. Come se fosse un’analisi che ha un briciolo di sensatezza. Mastella non ha vinto perché è un volto nuovo; Dipiazza neppure. Il giovane Giachetti non è andato benissimo».

Cosa dovrebbe fare Renzi?

«Renzi dovrebbe cambiare. Questo risultato mette in discussione sia il rapporto tra il Pd, il suo elettorato e la società italiana, sia la politica del governo. E mette in discussione il modo in cui Renzi esercita tutti e due i ruoli. Meriterebbe da parte sua riflessioni molto diverse da quelle, sconcertanti, che ha affidato al Corriere la notte del voto».

Renzi vuole «mettere da parte la vecchia guardia».

«Renzi, com’è noto, è convinto di essere il Blair italiano. Ma Blair si circondò del meglio del suo partito, non di un gruppetto di fedelissimi. Blair prese il principale avversario, Gordon Brown, e lo fece cancelliere dello scacchiere. Volle ministri Robin Cook e Jack Straw, figure storiche del laburismo. Ma Blair era intelligente: capiva che doveva mettere insieme forze tradizionali con forze nuove in grado di attrarre. Se per attrarre 5 ne cacci 10, come si sta facendo, il bilancio è meno 5».

Renzi è in grado di cambiare?

La speranza è l’ultima a morire, ma non mi pare una persona orientata a tenere conto degli altri e neanche della realtà; neanche di quelle più prossime, visto che abbiamo perso a Sesto Fiorentino. Eppure sarebbe necessario un cambio di indirizzo nell’azione di governo, e anche un cambio di stile. Compreso il rispetto che dovrebbe essere dovuto a una classe dirigente che ha vinto le elezioni e ha fatto cose importanti per il Paese: l’euro, le grandi privatizzazioni, la legge elettorale maggioritaria uninominale; non quella robaccia che ci viene proposta adesso».

La crescita non era certo brillante neppure ai tempi dell’Ulivo.

«Il Paese nella seconda metà degli anni 90 è cresciuto. Mi si dirà: non c’erano gli effetti devastanti della crisi globale. Ma oggi, al di là dei proclami, siamo comunque agli ultimi posti della seppur debole ripresa europea. La chiave non sono le mance di tipo elettoralistico; dovrebbero essere gli investimenti pubblici, la cui riduzione prosegue. E le maggiori mance sono andate a proprietari di case di lusso e come incentivi agli imprenditori. Si è fatto molto poco per i lavoratori e nulla per i vecchi e nuovi poveri. Infatti non ci votano».

A Roma il commissario del Pd è un suo allievo, Orfini.

«Sono pronto all’autocritica: diciamo che l’ho allevato male... Da anni il Pd non mi chiede nulla, e all’improvviso apprendo dai giornali che dovrei fare un appello alla vigilia del voto per una causa palesemente disperata. E addirittura si riscopre che sono un ‘fondatore del Pd’».

Si riferisce alle polemiche di questi giorni?

«A parte gli agguati giornalistici concertati tra alcuni dirigenti del mio partito e la stampa amica, non c’era mai stata una pressione sui mezzi di informazione così fastidiosa come quella che esercita questo governo. Neppure ai tempi di Berlusconi. Ora alimentano sulla rete una campagna sui vecchi che vogliono reimpadronirsi del partito…».

Perché, non è vero?

«Non voglio impadronirmi di nulla: bisogna essere matti ad andare a gestire il Pd per come l’hanno ridotto. Sono stato felicemente riconfermato alla presidenza della Feps. Faccio un lavoro che amo. Sono solo preoccupato che questo gruppo di personaggi con alla testa Renzi porti la sinistra e il Paese in un vicolo cieco: se non cambiamo radicalmente direzione, mi pare segnata la via che conduce al ritorno della destra, o all’arrivo dei 5 Stelle».

Ci sarà una scissione?

«È un problema da porre ad altri. Non ho l’età per fondare nuovi partiti, ma mi resta l’energia per fare lotta politica. E questo non mi può essere impedito da nessuno».

L’Italicum è incostituzionale?

«Secondo me sì. Non sono un giudice costituzionale, ma la sentenza della Corte sollevava due questioni: il diritto del cittadino di scegliere il proprio rappresentante; e il carattere distorsivo del premio di maggioranza, quando è troppo grande. La risposta dell’Italicum è molto parziale e deludente. I sistemi ultramaggioritari funzionano quando i poli sono due. Ma quando sono tre, o quattro, perché nessuno può escludere che nasca un polo alla sinistra di Renzi, il ballottaggio diventa una roulette in cui una forza che al primo turno ha preso il 25% si ritrova con la maggioranza assoluta dei parlamentari; per giunta scelti dal capo. Occorre un ripensamento profondo di questo sistema».

Lei come voterà al referendum di ottobre?

«Voterò no. Troverò il modo di spiegare le ragioni di merito».

Ce ne dia un assaggio.

«Non sono molto diverse da quelle per cui votai no, nel 2006, alla riforma di Berlusconi. Che per certi aspetti era fatta meglio. Anche quella prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione dei parlamentari. Ma riduceva anche i deputati. E stabiliva l’elezione diretta dei senatori; non faceva del Senato un dopolavoro. Sarebbe stato meglio abolirlo».

Ma se vince il No si apre una crisi di sistema.

«E perché? Quando fu bocciata la riforma Berlusconi non si aprì alcuna crisi».

Si era appena insediato un governo di centrosinistra. Stavolta, se salta la riforma, salta il governo.

«Non ho mai sostenuto che Renzi debba dimettersi. Certo, se lui insistesse, si dovrebbe costituire un nuovo governo, dato che servirebbe una nuova legge elettorale: votare per la Camera con un sistema ultramaggioritario e per il Senato con il proporzionale puro sarebbe una follia».

Renzi non dovrebbe dimettersi neppure se perde a ottobre?

«È stato un gravissimo errore personalizzare in chiave plebiscitaria il referendum, che dovrebbe essere un pronunciamento dei cittadini libero da qualsiasi ricatto. Costruire una campagna sulla paura può generare un effetto controproducente, inasprire l’irritazione già evidente degli elettori. Inviterei Renzi a dire che resta comunque; proprio come dopo la sconfitta alle amministrative».

Giorgio Napolitano ammonisce che se vince il No l’Italia si dimostra irriformabile.

«In questi anni sono state fatte 15 riforme costituzionali, dal giusto processo al pareggio di bilancio; oltre a leggi di rango costituzionale che hanno trasformato il Paese, come l’elezione diretta dei sindaci. Alcune riforme, come quella del titolo V, si sono rivelate sbagliate. E una riforma sbagliata produce più danni di nessuna riforma. Questa peggiora le cose, perché riduce gli elementi di controllo democratico e — combinata con l’Italicum — trasforma il Parlamento nella falange di un capo».

Prime crepe nella corte renziana
Democrack. Il gelo di Fassino: «Non replico alle dichiarazioni altrui», le parole di Chiamparino: «Due anni fa il Pd non era così». Ma alla direzione di venerdì si ascolterà solo l’attacco della minoranza: su Italicum, politiche sociali e Roma di Daniela Preziosi il manifesto 22.6.16
ROMA Il primo a smarcarsi apertamente da Matteo Renzi è Piero Fassino. Comprensibile. Su di lui il premier è stato durissimo quando a spiegato che un renziano del 2014, cioè della prima ora, a Torino avrebbe votato Chiara Appendino, la giovane candidata a 5 stelle che ha fermato – e piegato – l’ultimo segretario dei Ds. Alla domanda diretta, ieri in conferenza stampa, l’ex sindaco ha indossato la sua faccia più inespressiva: «Non è mia abitudine commentare dichiarazioni altrui». Ma è chiaro che c’è del freddo con il segretario, anzi del gelo quando poi ha spiegato che alla luce del risultato «il tema non è cercare capri espiatori ma interrogarsi su come il Pd rilancia il suo ruolo di principale partito italiano. I risultati del voto richiedono una riflessione su tutto il partito non solo su quello piemontese».
Se ne discuterà venerdì alla riunione della direzione. Lì la minoranza attaccherà alzo zero su Italicum, alleanze e politiche del governo. Per questo sarà molto difficile che qualche voce della maggioranza sommerà lì il proprio dissenso. Ciò non toglie che nelle mille sfumature del renzismo, qualcuna comincia a dare segnali di malumore. Visto che, dati alla mano, questo stile non paga né politicamente né elettoralmente. La minaccia di usare «il lanciafiamme» nel partito e di «accelerare la rottamazione» non ha migliorato le cose.
Dunque si apre qualche crepa nel renzismo della seconda e terza ora. La banda del segretario comincia ad avere qualche sbandamento. L’area più suscettibile è quella del ministro Dario Franceschini, le cui mosse sono sempre sotto osservazione visto che nel 2014 era stato il primo a smarcarsi da Letta quando aveva capito che l’aria stava cambiando. Nelle ore subito dopo il voto la vicepresidente della Camera Marina Sereni, franceschiniana di ferro, ha spiegato che «la sconfitta di Torino è perfino più bruciante di quella di Roma. Per il Pd si tratta di un risultato con molte criticità, da capire, da prendere sul serio». Insomma, questa volta si leggerà con attenzione il risultato del voto. Anche il presidente della regione Chiamparino difende Fassino dall’accusa di «vecchio»: «Sarebbe troppo comodo cominciare a dire che la colpa è di Tizio, di Caio e di Sempronio», «Un partito deve essere una comunità politica capace di ascolto e di comprensione dei bisogni e delle sofferenze e che fa uno sforzo per tradurli in speranza. Il Pd di due anni fa assomigliava molto a quanto ho descritto oggi molto di meno». Insomma da due anni fa a oggi il partito è cambiato: e cioè da quando c’è Renzi. Poi c’è Matteo Richetti, cattolico non privo di ambizioni, che all’Huffington Post dichiara che «la rottamazione, per come l’abbiamo immaginata all’inizio, è un insieme di cose. Non solo facce nuove ma idee innovative, talento e non cooptazione, partito con le porte aperte nella società non partito che non c’è, meritocrazia non cerchio magico, potere come mezzo non governismo con Verdini».
Piccoli segnali, alcuni neanche inediti, che il renzismo che fa vincere forse non fa vincere più. E che quindi qualcosa deve essere cambiato per evitare un brutto risveglio al referendum di ottobre. Ma per ora sono solo «sbandate» da capannello di Transatlantico. Dove, per esempio, filtra la tensione dei Giovani turchi, la corrente di Matteo Orfini, commissario del Pd romano, e Andrea Orlando, per il tentativo di accollare loro le sconfitte di Roma e napoli (Valeria Valente, la candidata buttata fuori dai ballottaggi, è di rito orfiniano). In direzione i bersaniani chiederanno le dimissioni di Orfini dall’incarico romano. Dal Nazareno si è già alzato lo scudo su di lui, ma c’è da ascoltare cosa dirà Renzi, che sulle spalle di Orfini un anno fa ha già scaricato la crisi Marino. Nel generale malumore c’è chi, come la piccola truppa del ministro Martina (corrente «Sinistra è cambiamento», cioè ex bersaniani ora collaborativi), pronta a farsi avanti per appoggiare più baldanzosamente la nuova fase del renzismo.
Ma nulla di tutto questo si vedrà venerdì nello streaming. Si vedrà invece l’attacco coordinato della minoranza, che già domani si riunisce per discutere. Italicum, doppio incarico e politiche del governo, i tre punti di attacco. «Il risultato delle elezioni è un fatto politico. Se facciamo il jobs act e i lavoratori non ci votano, se facciamo la buona scuola e gli insegnanti sono inferociti, si potrà dire che così non va?», dice Nico Stumpo. «La mancanza di una politica delle alleanze ci ha fatto terra bruciata intorno, i ballottaggi dicono che siamo isolati nella società. E il partito è ridotto alla cassa di risonanza del governo». Bersani ha già detto la sua: «Abbiamo avuto sbandamenti che hanno incoraggiato un’idea di trasformismo, di Francia o Spagna purché se magna». Forse la ridirà. Ma difficile che gli equilibri della direzione cambieranno. Per ora.

Prodi, messaggio al governo “Due anni bastano per logorarsi necessario cambiare politiche”
L’ex premier e il terremoto elettorale: “I populisti crescono perché c’è troppa ingiustizia. L’ascensore sociale è bloccato e dentro si soffoca” intervista di Michele Smargiassi Repubblica 22.6.16
BOLOGNA.  «Cambiare politiche, non solo politici. Se non cambiano le politiche, il politico cambiato si logora anche in due anni». Quasi uno scioglilingua, ma condito con un sorriso ammiccante. Dal suo ufficio di Bologna Romano Prodi, padre fondatore del Pd in ritiro politico, osserva le elezioni di domenica, le maggiori città del paese governate da partiti che non esistevano fino a pochi anni fa, e manda un messaggio a Palazzo Chigi.
Esplode il mappamondo politico. Cosa sta succedendo?
«Non basta guardare il voto di questa o di quella città. C’è un’ondata mondiale, partita in Francia, ora in America. Lo chiamano populismo perché pur nell’indecifrabilità delle soluzioni interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo: l’insicurezza economica, la paura sociale e identitaria».
I populismi sono figli solamente di una crisi di paura?
«La paura di non farcela è tremenda ma non immaginaria. La chiami iniqua distribuzione del reddito, ma per capirci è ingiustizia crescente. Quando chiedo ai direttori di banca: quanti dipendenti avrete fra dieci anni?, mi rispondono: meno della metà. L’iniquità post-Thatcher e post-Reagan si è sommata alla dissoluzione della classe media, terribile tendenza di tutte le economie sviluppate e di mercato, e sotto tutti i regimi».
Cos’è classe media?
«Nel senso più ampio possibile, chiunque avesse una sicurezza anche modesta sulla propria vecchiaia e sul futuro dei figli. Ma il pensionato che diceva orgoglioso “io non ce l’ho fatta, ma mio figlio è laureato”, ora non lo dice più. L’ascensore sociale si è bloccato a metà piano e dentro si soffoca».
I Cinquestelle gridano “onestà- onestà”, sembra soprattutto una rivolta morale… «La disonestà pubblica peggiora le cose, ma la radice è la diseguaglianza. Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga… Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale».
La rabbia poteva avere altri sbocchi politici, non crede?
«Quando il socialismo era all’opposizione appariva come la grande alternativa. Ma cos’è successo poi? Una fortissima omologazione delle politiche, da Clinton alle grandi coalizioni tedesche all’Italia… Non mi faccia dire del “partito della nazione”, ma è chiaro che qualcosa del genere è accaduto anche qui».
Una politica uniformata fa nascere i populismi?
«No, lo fa una politica uniformata quando occupa tutto il campo, ma non sa dare soluzioni. Allora la rabbia della gente crea un altro campo. Se il voto diventa liquido, è per questo. Quando tu vedi che solo il centro storico delle città è rimasto ai partiti della sinistra... Vogliamo chiederci perché Trump è odiato a Wall Street e osannato dai metalmeccanici del Michigan? È un leader più europeo di quel che pensiamo, non è semplicemente reazionario ma tocca, certo in modo sbagliato, le paure reali del ceto medo».
Ma anche quando la politica tradizionale dà soluzioni, perde. Piero Fassino amareggiato dice che non basta più governare bene.
«Fassino ha governato bene, nessuno ne dubita, ma chiunque governi oggi viene identificato col potere costituito, ed è un bersaglio. Il gioco è molto più grande di un municipio, il problema è che alle grandi forze politiche nazionali manca un’interpretazione della storia e del presente».
Un problema di questa classe politica di governo?
«Non si tratta di cambiare i politici ma di cambiare politiche. Cambiare i politici è condizione necessaria ma non sufficiente».
Be’, i politici di governo li abbiamo cambiati da poco.
«Se non cambi le politiche, il politico cambiato invecchia anche in un paio d’anni... C’è sempre un’usura, e corre veloce. La mancanza di risposte efficaci logora. E al momento si sente la mancanza di risposte che affrontino il problema delle paure e delle cause reali delle paure».
È un Pd de-ideologizzato che
non ha queste risposte?
«Rifiutare le strettoie delle ideologie è diverso dal non avere radici e risposte fortemente orientate. Non abbiamo un Keynes, un progetto per uscire in modo collettivo dalla crisi. Quando governi, devi dare operativamente il messaggio che sai affrontare i problemi, e questo non lo puoi fare senza il coinvolgimento di una forte base popolare nel cambiamento delle politiche. Devi dimostrare di capire e di andare incontro ai problemi. Il rinnovamento per il rinnovamento non è una risposta sufficiente».
C’entra anche la personalizzazione della politica? Paradossalmente, quando Grillo si eclissa i Cinquestelle vincono, mentre il Pd, dove Renzi “pone la fiducia”, soffre… «Di fronte alla crisi la prima risposta è sempre quella della forte personalizzazione, sia da parte dei governi che dei populismi. Ma dura poco, perché la realtà la mette alla prova dei fatti. La gente vota i politici perché spera che cambino le cose, la personalizzazione è un riflesso. Infatti in queste elezioni hanno vinto dei volti sconosciuti. La personalizzazione non regge se non cambia le cose, o non dà almeno la speranza concreta di poterle cambiare».
I trionfatori di queste elezioni vincono perché danno questa speranza?
«Hanno risposte emotive e confuse, semplici motti specifici su angosce specifiche, via gli immigrati, punire le banche, ma neanche una riga che spieghi come potrebbero fare. Ma il loro vantaggio è un altro: sanno adattarsi alle paure. Questi movimenti nascono in genere molto di parte, orientati, partigiani. Hanno un certo successo poi si fermano, perché le loro soluzioni mostrano un limite ideologico. E allora si allargano da destra a sinistra e da sinistra a destra. Marine Le Pen è stata la prima a capire i limiti di un populismo di parte, e ha “ucciso il padre”. In quel momento è diventata una potenziale presidente della Repubblica francese. In Italia sta succedendo la stessa cosa».
È il limite che ha cercato di superare Salvini?
«Ma prima di lui è arrivato il Movimento Cinquestelle. Hanno capito per primi che bisogna cavalcare la protesta, non una protesta. Guardi il loro atteggiamento sull’immigrazione: prese di posizione così inafferrabili da poter essere interpretate sia in senso di destra che di sinistra. E dalle analisi che leggo, ha funzionato: prendono voti anche fra gli anziani delle periferie metropolitane, i ceti deboli tra i quali la paura dell’immigrato è più forte».
Professore, lei si tiene lontano dalla politica italiana, ma qui c’è una morale, no?
«Progetto e radicamento popolare. Il cambiamento possibile, fatto entrare nel cuore della gente. Il solo ad averlo capito è papa Francesco». 

Palazzo Chigi costretto a ricalibrare la strategia
di Massimo Franco Corriere 22.6.16
Il nervosismo che si capta nella cerchia renziana e tra gli alleati di governo, a cominciare dal Nuovo centrodestra, non è solo una conseguenza del risultato dei ballottaggi di domenica. Dipende anche dalla sensazione che Matteo Renzi stia ancora cercando il modo per arginare i contraccolpi del flop elettorale. La Direzione convocata per il 23 giugno sarà sovrastata dal referendum inglese sull’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Ue. È condannata dunque a un rilievo secondario. I timori del premier, tuttavia, non si appuntano sull’offensiva scontata della minoranza interna.
Il punto interrogativo riguarda gli effetti a catena che gli errori compiuti alle Amministrative possono produrre sul referendum per le riforme istituzionali di ottobre. L’inquietudine degli alleati centristi rivela la consapevolezza che l’asse con Palazzo Chigi faticherà a proiettarsi al di fuori delle aule parlamentari e dei ministeri: lo certifica l’esito del voto. A breve scadenza, il problema è scongiurare spinte centrifughe rispetto a una segreteria indebolita: una «fuga da Renzi» in termini di lealtà e di adesione convinta a un referendum decisivo per il destino del governo.
I sondaggi su «sì» e «no» accreditano una crescita del secondo; e dunque una bocciatura delle riforme che implicherebbe le dimissioni del premier . In realtà, la partita rimane apertissima, e Palazzo Chigi ha ancora buone possibilità di vincere la sfida. La strategia, tuttavia, andrà ricalibrata. Mentre finora il sostegno a Renzi partiva anche dalla consapevolezza che una sua caduta avrebbe portato a elezioni anticipate, ora lo sbocco appare meno scontato. E questo promette di complicare la vita al segretario-premier: anche perché cresce la voglia di commissariarlo.
È stata fatta filtrare la disponibilità a cambiare i vicesegretari lasciando intatto il doppio incarico. Ma l’ipotesi si scontra con resistenze vistose. «Non basta», avverte il governatore della Toscana, Enrico Rossi, indicato come uno dei prescelti; e propone un «organo collegiale» che somiglia a un cordone politico stretto intorno a Renzi per condizionalo. È impensabile che il segretario accetti: ha avallato la tesi della vittoria del M5S nel segno del cambiamento non per frenare ma per accelerare la resa dei conti interna. Bisogna vedere con quali rapporti di forza.
Le premesse della riforma del Senato, così come dell’Italicum, rischiano di tornare in discussione. Il nuovismo di Beppe Grillo oscura la «rottamazione» renziana, termine sgradevole perché parla di persone. Come capacità di spazzare via le nomenklature, il M5S è più radicale di un Renzi accusato di allearsi con Verdini. L’antidoto potrebbe essere un cambio in corsa dell’Italicum per rendere più difficile una vittoria grillina a livello nazionale. Ma suonerebbe come una scorrettezza. E forse nemmeno basterebbe.

Al Pd è mancata una classe dirigente di Guido Crainz Repubblica 22.6.16
COSA sta realmente al fondo di una sconfitta così ampia del Pd nelle più diverse aree del Paese? E da cosa deriva il suo generale soccombere nei ballottaggi con il Movimento 5 Stelle? Certo, in essi sono confluiti sui candidati grillini molti voti del centrodestra: resta però da spiegare perché nelle elezioni europee di due anni fa altri flussi abbiano premiato invece il Pd di Renzi.
CAPACE allora non solo di riconquistare tutti gli elettori precedenti ma di conquistarne moltissimi altri: un dato centrale, in un Paese che stava perdendo fiducia nella democrazia. Oggi l’inversione di rotta è radicale, ed è già un bene che il Pd sia stato sconfitto da un Movimento che propugna in modo anche “estremo” il rinnovamento della politica ma rimane lontano dagli umori distruttivi così diffusi in Europa (a quegli umori faceva appello la resistibile ascesa di Matteo Salvini, frenata anch’essa da questo voto).
Ma perché allora il Pd è stato sconfitto in modo così netto? Per il suo allontanarsi dalla cultura tradizionale della sinistra, dai suoi orizzonti, dalla sua storia? Anche in questo caso la risposta non è del tutto convincente, e non solo perché questa è stata sin dall’inizio la cifra della proposta di Matteo Renzi. Questa è stata la chiave di volta del Pd che ha iniziato a modellarsi attorno a lui prima e dopo il “plebiscito” delle primarie del 2013. La risposta non è del tutto convincente soprattutto perché quella cultura è inadeguata e appassita da tempo, come testimoniano le aree politiche che ad essa si richiamano (all’interno e all’esterno del Pd). È inadeguata di fronte alle grandi trasformazioni del mondo del lavoro; di fronte alla necessità di ripensare realmente il welfare, essendo ormai lontana l’“età dell’oro” dell’Occidente; di fronte alla crisi dei partiti novecenteschi basati sull’identità, la partecipazione e il radicamento territoriale. Questi sono i nodi con cui la sinistra nel suo insieme non si è misurata, e in questo il “Pd renziano” condivide le responsabilità e le inadeguatezze dei suoi oppositori interni ed esterni. Le condivideva nel momento del suo affermarsi e le condivide ora: e senza misurarsi con questi nodi è destinato a perdere irrimediabilmente la sfida.
C’è qualcosa di più però in questo voto, e per molti versi il Pd di Renzi aveva perso queste elezioni amministrative (e quelle del 2015) già prima del loro svolgersi: per la sua estrema difficoltà a proporre nelle principali città italiane, e in moltissime altre realtà, una classe dirigente, un ceto politico all’altezza dei propri compiti. C’è da chiedersi semmai perché il segretario del Pd abbia in qualche modo “tradito se stesso”, mancando all’impegno di “cambiare il Pd” e di “cambiare la politica” al tempo stesso: è grazie a questo impegno che si era affermato nelle “primarie” di due anni e mezzo fa ed aveva ottenuto poi il successo delle elezioni europee.
Sin dall’inizio del suo mandato di segretario — molto, molto prima della discutibile scoperta dei “lanciafiamme” — cambiare il Pd appariva centrale. Centrale e urgente, per lo scenario offerto allora dalle contemporanee “primarie” per i segretari provinciali (ben diverse dal pronunciamento collettivo a livello nazionale): tessere fasulle, elettori fantasmi, risse, commissariamenti. Emergevano nitidamente allora i contorni di un partito “microbaronale” di cui Mauro Calise aveva analizzato il delinearsi e il rafforzarsi durante le precedenti gestioni del partito. Un partito esposto sin a quel “precipitare nell’abisso” che Mafia Capitale portava violentemente alla luce, e che Fabrizio Barca analizzava indicando al tempo stesso ipotesi di rinnovamento già presenti. Non si limitava infatti a proporre l’esclusione di quelle parti del partito romano che gli apparivano “dannose e pericolose” ma segnalava anche le realtà territoriali capaci di muoversi sulla base di progetti convincenti e coraggiosi, impegnate a proporre innovazioni e proiezioni in avanti.
Non sono mancati solo i lanciafiamme, dunque, nei due anni e mezzo della segreteria di Matteo Renzi: è mancata soprattutto la seminagione, l’attenzione alla crescita di nuove leve. È mancata la cura nel promuovere reali processi di formazione, non riducibili a periodici od occasionali incontri assembleari. Essi esigono un impegno continuo, rigoroso e costante, e al tempo stesso la capacità di misurarsi con alcuni nodi di fondo: cosa significa “formare” il ceto politico di oggi e di domani? Su quali saperi e su quali etiche è decisivo basarsi?
Non è facile comprendere appieno perché il partito sia stato abbandonato a se stesso sin da subito, anche se inquietanti allarmi avevano iniziato presto a venire. Aveva forse buone ragioni (anche “ragioni di necessità”) l’ipotesi di fondare il rinnovamento sulla sola azione di governo, o prevalentemente su di essa, ma si è visto presto che non era sufficiente. E anche a livello nazionale il rinnovamento della politica si è appannato rapidamente, ha smarrito la limpidezza della proposta iniziale ed è stato contraddetto da molti, troppi segnali. Di qui, anche, la radicalità della sconfitta: e di qui la radicalità dell’inversione di rotta che oggi è necessaria e al tempo stesso urgente.

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