Sono a disagio Però i pericoli sono ben altri
Non c'è testo al mondo che debba essere cancellato per legge, nemmeno il più ripugnante, non c'è idea che debba essere chiusa dietro le sbarre, nemmeno la più fosca
Fiamma Nirenstein Giornale
- Dom, 12/06/2016 -
No, è pericoloso per chi non ha senso critico
Marco Carrai - Giornale Lun, 13/06/2016
Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola
Lucio Pardo - Giornale Lun, 13/06/2016
L'editore Paolo Berlusconi: "Operazione ragionevole"
La polemica politica
Antonio Ruzzo Giornale
- Lun, 13/06/2016
Io vado a comprarne una copia Mi serve per capire il Male
Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca
Giampiero Mughini Giornale
- Lun, 13/06/2016
Conoscere per rifiutare. Leggere "Mein Kampf" vero antidoto alle tossine del nazionalsocialismo
Francesco Perfetti Giornale - Sab, 11/06/2016
Otto
volumi di grandi storici per analizzare ascesa e caduta di una delle
dittature più feroci del '900, che portò l'Europa alla rovina
Matteo Sacchi Giornale
- Sab, 11/06/2016
Quanta polemica per un libro venduto pure alla Feltrinelli
Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto
Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto
Giuseppe Marino Giornale
- Dom, 12/06/2016
Con
certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente
serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore
fatale
Alessandro Sallusti Gioranle
- Sab, 11/06/2016
Hitler in edicola è un attacco alla memoria
di Manuela Consonni La Stampa 11.6.16
di Manuela Consonni La Stampa 11.6.16
Consapevolmente
o meno, l’operazione editoriale messa in atto da un giornale italiano,
che oggi in edicola insieme al quotidiano distribuirà urbi et orbi il
«Mein Kampf» di Hitler, è un attacco alla storia e alla memoria del
passato dell’Italia. Vendere il passato in edicola crea errori, vizi di
forma insidiosi che, con la pretesa di «rivisitare» la storia, la
appiattiscono in una semplificazione falsa e pericolosa.
Siamo
tutti a favore della verità, ma da storica, la verità storica del «Mein
Kampf» hitleriano può essere raccontata solo in sede storiografica e
memoriale, dagli storici e dalle vittime.
Perché storici e vittime
possono dirci esattamente quale fu la battaglia che il capo del Reich
intraprese contro i nemici del Reich, i.e. gli ebrei, gli oppositori
politici, i diversi tipi asociali, gli Untermenschen scelti per la
deportazione e per lo sterminio. La riabilitazione del passato, forse
più nero della storia umana, quello del XX secolo, il secolo breve, la
pseudo-rottura della demonizzazione rituale contro il Nazismo e il
Fascismo, attraverso un libro intellettualmente e moralmente ignobile,
con il piglio di offrire una visione disinteressata e innocente del
passato è mancanza di responsabilità civica e storica, è colpa assoluta
come lo è l’oblio verso le vittime di questo passato e verso gli altri,
che di esso, non sono stati né carnefici né collaboratori. «Si possono
scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più
raramente, libri nobili per ragioni ignobili», scriveva Primo Levi che
aveva letto il Mein Kampf. Esso non rientra in nessuna delle due citate
categorie. Condivido con lo scrittore torinese la stessa «diffidenza»
per chi «sa» «come migliorare il mondo [...] innamorato del suo sistema
da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non
possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare
il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo
aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri
utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato
guerre e stragi».
Il «cosa c’è di male», o peggio «vogliamo fare
conoscere l’orrore perché non si ripeta più», o il protervo «bisogna
avere il coraggio di essere afascisti per dare alla storia il suo giusto
valore, correndo il rischio di essere chiamati filofascisti», «venduti»
in edicola oggi, con cui sarà giustificata questa cinica operazione
editoriale, sono di contenuto amorale, antietico e antidemocratico,
insieme al loro concetto di razza superiore, a quello della
conservazione della razza, e al delirante teorema delle minoranze
agguerrite, come scritto appunto nel Mein Kampf: «Primo compito non è
quello di creare una costituzione nazionale dello Stato ma quello di
eliminare gli ebrei. [...] Come spesso avviene nella storia, la
difficoltà capitale non consiste nel formare il nuovo stato di cose, ma
nel fare il posto per esse», e da ultimo alla prassi politica del fare
l’Europa Judenrein, insieme alla Rassenschande, tutte dichiarazioni
intrise di delirio e odio etnico. L’operazione editoriale del quotidiano
esprime nella sua sostanza una consensualità accomodante e bonaria, di
compiacenza postuma verso questo passato. Hitler in edicola oggi è la
prova, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, di un passato, quello
nazifascista che in Italia non riesce a passare. In questo contesto,
l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso un
passato di guerra, di deportazione e di sterminio, e la politicizzazione
della memoria continuano a determinare due alternative conflittuali e
in competizione, caratterizzate dalla permanente tensione tra l’idea di
aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non
aver ancora iniziato a farli. Se ne ricordino, quindi, coloro che
venderanno, oggi, insieme al giornale Hitler in edicola, che, anche se
si taccerà, ancora una volta, l’antifascismo di pregiudizio, di
ignoranza, di oscurantismo, di moralismo, l’aspetto più pericoloso
dell’operazione revisionista di oggi, non è solo la banalizzazione di un
passato tragico per la storia umana, ma la apoliticizzazione della
coscienza storica.
* Direttrice del Centro Vidal Sassoon per lo Studio dell’Antisemitismo, Università ebraica di Gerusalemme.
Angelo d’Orsi Manifesto 12.6.2016, 23:59
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.
LA BANALITÀ DELL’ODIO
WLODEK GOLDKORN 12/6/2016 Restmapa
QUANDO Umberto Eco decise di lavorare a un romanzo che uscì nel 2010 con il titolo “Il cimitero di Praga” e che ha al centro della trama le origini dei “Protocolli dei savi di Sion”, il grande semiologo e scrittore voleva raccontare quanto l’antisemitismo fosse alla radice di tutte le teorie complottiste della storia e di tutti i razzismi, passati, presenti e futuri del mondo moderno. O se vogliamo, l’antisemitismo è l’idioma comune di tutti gli xenofobi, omofobi, islamofobi, sostenitori della supremazia della razza bianca (che per altro non esiste) del nostro universo. Ed è così, non perché gli ebrei sono dotati di qualche caratteristica particolare, ma perché è facile e spesso redditizio, dal punto di vista politico, ma anche volgarmente economico, trovare un capro espiatorio e un oggetto di aggressione e di odio: basta una narrazione, anche bislacca, con cui convincere le persone che le loro disgrazie sono colpa di poteri occulti. Era questo, il messaggio politico e letterario (e le due cose vanno insieme) di quel romanzo di Eco.
Fuori dalla metafora. Quando in un Paese, l’Italia, un quotidiano decide di diffondere “Mein Kampf”, non nelle università come oggetto di studio, ma nelle edicole, come un gadget, un totem, e certamente non per essere letto, dato che il testo di Adolf Hitler è fra le prose più noiose e peggio scritte della storia dell’umanità, ecco, quando un libro così viene diffuso, è necessario chiedersi: che cosa sta succedendo alla società, alla collettività degli italiani? E perché oggi?
Intanto, cosa è “Mein Kampf”? Non è un’opera che pur con tesi inaccettabili propone un’analisi più o meno razionale del mondo. “Mein Kampf” è prima di tutto l’autobiografia di Hitler, in parte scritta dal pugno del futuro Führer, in parte dettata ai suoi fedeli, in prigione, negli anni Venti. E non c’è “Mein Kampf”, senza “I protocolli”. Gli ebrei sono, secondo Hitler, colpevoli di tutto; della diffusione del comunismo come delle speculazioni capitalistiche in Borsa; del propagarsi della sifilide come della sconfitta dei tedeschi nella Grande Guerra. La teoria della cospirazione ebraica universale, che tanto incuriosiva Eco (in quanto manifestazione della stupidità e in questo il nostro intellettuale era debitore di Hannah Arendt e del suo “La banalità del Male”), è l’essenza di quel testo. Un testo, per altro, che ha venduto nella Germania nazista 11 milioni di copie e che fruttò circa 15 milioni di Reichsmark, una cifra enorme per allora, di diritti d’autore.
Nel 1945, a Monaco, la matrice di piombo di quel libro venne data alle fiamme da un soldato americano. Un gesto simbolico, che tuttavia pone una domanda: ma è lecito bruciare un libro? E che qualcuno oggi declina chiedendosi: ma è davvero così grave pubblicare quel testo? Sottinteso: siamo liberali, niente censura. Ecco, “Mein Kampf” non è un libro, anche se sembra esserlo, perché è stato scritto per dar vita a un programma politico il cui scopo era la distruzione di tutti i libri e di tutto il sapere. La Shoah, conseguenza logica del “Mein Kampf” questo significa: la catastrofe dell’episteme dell’Occidente.
Hanno protestato le comunità ebraiche e l’ambasciata d’Israele; anche se dopo la Shoah difficilmente ci potrà essere un’altra Shoah; oggi i razzisti mirano ad altri capri espiatori. Ha protestato Matteo Renzi; ed è stata un’ulteriore prova che il presidente del Consiglio è deciso a opporsi al linguaggio razzista e xenofobo. Ma la notizia più bella è questa: il giorno in cui nelle edicole d’Italia veniva diffuso “Mein Kampf”, nelle piazze di Roma, 700 mila persone gay rivendicavano con gioia e orgoglio il loro diritto al desiderio. Il razzismo è morte; il desiderio è vita. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
LA BANALITÀ DELL’ODIO
WLODEK GOLDKORN 12/6/2016 Restmapa
QUANDO Umberto Eco decise di lavorare a un romanzo che uscì nel 2010 con il titolo “Il cimitero di Praga” e che ha al centro della trama le origini dei “Protocolli dei savi di Sion”, il grande semiologo e scrittore voleva raccontare quanto l’antisemitismo fosse alla radice di tutte le teorie complottiste della storia e di tutti i razzismi, passati, presenti e futuri del mondo moderno. O se vogliamo, l’antisemitismo è l’idioma comune di tutti gli xenofobi, omofobi, islamofobi, sostenitori della supremazia della razza bianca (che per altro non esiste) del nostro universo. Ed è così, non perché gli ebrei sono dotati di qualche caratteristica particolare, ma perché è facile e spesso redditizio, dal punto di vista politico, ma anche volgarmente economico, trovare un capro espiatorio e un oggetto di aggressione e di odio: basta una narrazione, anche bislacca, con cui convincere le persone che le loro disgrazie sono colpa di poteri occulti. Era questo, il messaggio politico e letterario (e le due cose vanno insieme) di quel romanzo di Eco.
Fuori dalla metafora. Quando in un Paese, l’Italia, un quotidiano decide di diffondere “Mein Kampf”, non nelle università come oggetto di studio, ma nelle edicole, come un gadget, un totem, e certamente non per essere letto, dato che il testo di Adolf Hitler è fra le prose più noiose e peggio scritte della storia dell’umanità, ecco, quando un libro così viene diffuso, è necessario chiedersi: che cosa sta succedendo alla società, alla collettività degli italiani? E perché oggi?
Intanto, cosa è “Mein Kampf”? Non è un’opera che pur con tesi inaccettabili propone un’analisi più o meno razionale del mondo. “Mein Kampf” è prima di tutto l’autobiografia di Hitler, in parte scritta dal pugno del futuro Führer, in parte dettata ai suoi fedeli, in prigione, negli anni Venti. E non c’è “Mein Kampf”, senza “I protocolli”. Gli ebrei sono, secondo Hitler, colpevoli di tutto; della diffusione del comunismo come delle speculazioni capitalistiche in Borsa; del propagarsi della sifilide come della sconfitta dei tedeschi nella Grande Guerra. La teoria della cospirazione ebraica universale, che tanto incuriosiva Eco (in quanto manifestazione della stupidità e in questo il nostro intellettuale era debitore di Hannah Arendt e del suo “La banalità del Male”), è l’essenza di quel testo. Un testo, per altro, che ha venduto nella Germania nazista 11 milioni di copie e che fruttò circa 15 milioni di Reichsmark, una cifra enorme per allora, di diritti d’autore.
Nel 1945, a Monaco, la matrice di piombo di quel libro venne data alle fiamme da un soldato americano. Un gesto simbolico, che tuttavia pone una domanda: ma è lecito bruciare un libro? E che qualcuno oggi declina chiedendosi: ma è davvero così grave pubblicare quel testo? Sottinteso: siamo liberali, niente censura. Ecco, “Mein Kampf” non è un libro, anche se sembra esserlo, perché è stato scritto per dar vita a un programma politico il cui scopo era la distruzione di tutti i libri e di tutto il sapere. La Shoah, conseguenza logica del “Mein Kampf” questo significa: la catastrofe dell’episteme dell’Occidente.
Hanno protestato le comunità ebraiche e l’ambasciata d’Israele; anche se dopo la Shoah difficilmente ci potrà essere un’altra Shoah; oggi i razzisti mirano ad altri capri espiatori. Ha protestato Matteo Renzi; ed è stata un’ulteriore prova che il presidente del Consiglio è deciso a opporsi al linguaggio razzista e xenofobo. Ma la notizia più bella è questa: il giorno in cui nelle edicole d’Italia veniva diffuso “Mein Kampf”, nelle piazze di Roma, 700 mila persone gay rivendicavano con gioia e orgoglio il loro diritto al desiderio. Il razzismo è morte; il desiderio è vita. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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