domenica 12 giugno 2016
Una storia del pregiudizio misogino
Risvolto
C’è una storia antica quanto il mondo. Ma
nessuno l’ha mai raccontata. Perlomeno non in maniera sistematica e
critica, ossia cercando gli strumenti concettuali e pratici per provare a
superarla. Questa storia riguarda il pregiudizio contro le donne.
Partendo dalle origini della civiltà occidentale (Esiodo, Omero, la
Bibbia), dipanandosi poi attraverso il teatro greco e i grandi classici
del secolare pensiero filosofico, religioso, politico e scientifico, il
coro contro l’essere femminile è risultato assordante e compatto. Con
argomentazioni sorprendentemente simili, pur provenienti da autori delle
scuole più diverse – religiosi o atei, conservatori o progressisti,
antichi o moderni – il consenso intorno al pregiudizio misogino ha
rappresentato il più grande e atavico collante della cultura
occidentale. Un gran discutere fra uomini per arrivare a stabilire
l’inferiorità inemendabile dell’essere femminile, tanto da giustificare e
anzi rendere scontata, opportuna e persino necessaria, la sottomissione
al maschio. In questo libro Paolo Ercolani non si limita a ricostruire
la storia del più antico preconcetto – tirando in ballo le
responsabilità della filosofia, della religione e delle scienze in
genere –, ma propone una nuova teoria della soggettività umana che possa
agevolare il superamento di contrapposizioni e pregiudizi sessuali con i
quali è arrivato il momento di fare i conti in maniera definitiva.
Un saggio di Paolo Ercolani racconta la storia dei pregiudizi sulle donne Dai filosofi greci ai pensatori idealisti è costante il disprezzo per il genere femminile.
L’autore di «Contro le donne» propone una via d’uscita da ogni forma di sessismodi DANIELA MONTI Corriere
Il saggio del filosofo Ercolani sulla «storia della
diseguaglianza». Anche i presunti «grandi uomini» si sono rivelati
spesso misogini
Tempo
Se vai dalle donne prendi la frusta
Da
Aristotele e Sant’Agostino ai giorni nostri la storia del pregiudizio
contro il genere femminile Un libro del filosofo Paolo Ercolani
di Mirella Serri La Stampa 13.6.16
Le
donne? «Materia fecondabile». I maschi? «Portatori del principio del
movimento e della generazione» destinato ai «ricettori passivi e
impotenti del loro seme», ovvero alle loro mogli e compagne: così
Aristotele discettava sulle differenze tra i due generi a discapito
dell’universo femminile. Pure per Platone le appartenenti al gentil
sesso erano assai poco attive in molteplici ambiti, da quello erotico
alla sfera sociale, a cui si sottraevano volentieri a differenza del
socievole sesso forte. Quest’ultimo per Sant’Agostino è votato a «ciò
che è elevato e al coraggio» mentre quello debole è condizionato dalla
pavidità.
Prende le mosse dal mondo classico una linea di
riflessione assolutamente ostile nei confronti della metà dell’umanità e
che si snoda nell’arco dei secoli arrivando fino al ’900: a seguirla è
Paolo Ercolani, filosofo e docente universitario a Urbino, in Contro le
donne. Storia e critica del più antico pregiudizio (Marsilio, pp. 318, €
17,50). L’autore rileva come non sia mai esistito un altro filone di
speculazione così radicale e compatto. A condividerlo sono atei,
credenti, progressisti e conservatori dell’intero globo: tutti, anche se
agli antipodi su molte altre questioni, concordano sull’inferiorità
delle donne. Non basta: Ercolani ha anche analizzato quanto e in che
modo questo pensiero misogino abbia condizionato e condizioni ancora
oggi l’agire pratico. E ha stabilito che esiste una correlazione diretta
«tra il territorio delle idee e la traduzione in pratica delle stesse»,
poiché l’elaborazione sulla subalternità femminile è andata di pari
passo con la legittimazione della sopraffazione e della violenza da
parte maschile.
Lo stupro nobilitato
Proprio così: lo
stupro, per esempio, a cominciare da quello perpetrato in guerra ma non
solo, fin dall’antichità è stato spesso nobilitato e connotato da una
sua ragione d’essere. Tito Livio ed Erodoto, ma anche Aristotele, fanno
risalire al rapimento «fondatore» l’origine o la caduta di interi
popoli, dai Romani agli Ioni ai Pelasgi. Ovidio, è un altro esempio,
nell’Ars amatoria afferma che l’abuso sessuale appaga chi lo subisce e
costata che «la donna pur combattendo vuole essere vinta… Quando
potresti credere che ella non voglia, poi cede». Sostenendo infine che
«la violenza è gradita alle fanciulle… poiché quello che a loro piace,
spesso vogliono darlo contro la loro volontà». Suggerimenti destinati a
fare scuola per lungo tempo: lo denunciava nel ’400 la scrittrice
Christine de Pizan, demolendo il diffuso luogo comune per cui, proprio
come affermava Ovidio, la donna apprezza la violenza sul suo corpo.
Alle
isolate proteste femminili, come quella della pittrice Artemisia
Gentileschi, vittima di stupro, scrittori e intellettuali hanno sempre
fatto orecchie da mercante. Così Machiavelli osservava che «la Fortuna è
donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla».
Cementava in questo modo una convinzione che arriva fino a Nietzsche:
«Se vai dalle donne, prendi la frusta». Questi pregiudizi culturali -
dice il saggista che li rintraccia nell’intero globo, dall’Europa alla
Cina all’India - non si sono limitati a esercitare la propria influenza
sul piano teorico: hanno condizionato tanti modi di essere. Basta dare
un’occhiata alle statistiche.
«Picchiare leggermente»
Il
dato dell’Onu è che nel mondo più di una donna su tre (il 35%), è stata
vittima di violenze fisiche e/o sessuali. Anche negli emancipati States
la percentuale delle abusate è una su cinque. E pure l’associazione
delle università americane ha portato alla luce che più di una
studentessa su quattro è rimasta vittima di aggressioni sessuali. Tutto
questo accade proprio in quella parte del mondo dove si predica la
parità. I combattenti dell’Isis, invece, praticano una vera e propria
«teologia dello stupro». Di questi giorni è la notizia che 19 yazide
rapite dagli uomini del Califfato sono state bruciate vive perché hanno
rifiutato di far sesso con i loro aguzzini. Una proposta di legge
presentata da poco dal Consiglio islamico in Pakistan vorrebbe concedere
ai mariti la possibilità di «picchiare leggermente» le consorti per
fini educativi: se rifiutano di giacere con loro, di fare il bagno dopo
un incontro d’amore o se parlano a voce alta con gli estranei. In
Italia, poi, come testimoniano i più terribili e recenti assassinii, il
femminicidio ha i connotati di una mattanza quotidiana.
Eppure
negli Anni Novanta del secolo passato due conferenze mondiali, quella
sui diritti umani a Vienna e quella dedicata all’universo femminile,
sembravano aver gettato le basi per un nuovo corso, decretando che la
violenza sulle donne è un crimine e non un diritto maschile. Perché
questi appelli sono caduti nel vuoto? Ercolani afferma che la tradizione
misogina è più che mai viva e operante: ad alimentarla, come diceva il
filosofo americano Charles S. Peirce, sono i cosiddetti «abiti mentali».
Esistono, cioè, delle convinzioni che agiscono nell’ombra, dentro di
noi, senza apparire. Non vengono espresse manifestamente ma sono in
grado di condizionare le situazioni reali, di alimentare «credenze» o
«regole d’azione» capaci di determinarci nei comportamenti. Questi sono
gli abiti mentali che non abbiamo mai dismessi. E ancora oggi ci calzano
tremendamente a pennello.
Una misoginia mai sconfessata
Festivaletteratura . Domani a Mantova Paolo Ercolani, autore di «Contro le donne» presenterà il suo libro insieme a Giuliana Sgrena
Alessandra Pigliaru Manifesto 10.9.2016, 0:03
Il termine «pregiudizio» è assai insidioso, sia nell’etimo che nelle sue ricadute teorico-pratiche. Produttore di danni, esclusioni e conseguenti ancorché legittime rivendicazioni, il terreno che precede il giudizio è infatti abbastanza articolato. Altrettanto dicasi a proposito della solida impronta dello stereotipo che, nella sua fissità, riporta all’immobilismo dei ruoli e delle relative sorti che avrebbe l’ardire di prevedere e traghettare. Di questo e molto altro è imbastito l’ultimo volume di Paolo Ercolani, Contro le donne (Marsilio, pp. 318, euro 17,50) che sostanzialmente si attesta nel piano intermedio di quel pensiero critico veicolato attraverso un linguaggio divulgativo, cioè leggibile da tutte e tutti.
Non si tratta quindi di un approfondimento esclusivamente scientifico (e questo è un bene), l’esercizio di Paolo Ercolani è invece rivolto soprattutto a quanti si potranno riconoscere, con un pizzico di divertito sadismo quando non di schizzinosa ritrosia, nelle osservazioni di filosofi del calibro di Aristotele o san Tommaso ma anche Hegel. E ancora più avanti, ça va sans dire, perché l’elenco come è noto a chi ha studiato o letto qualche classico inserito nel canone occidentale, è piuttosto generoso. Il pericolo in agguato è tuttavia insito nelle stesse modalità in cui l’odio maschile nei confronti delle donne ha preso corpo per poi storicizzarsi; perché pesca proprio da un immaginario, anche detto di sottocultura scadente – simbolicamente ed emotivamente – che a ripercorrerne la storia non sposta niente. Certo si può sistemare in un prima e un dopo in linea di una qualche utilità di «censimento critico» ma resta inerte, non scassina niente di quel pregiudizio a cui vorrebbe dare battaglia. A parte il tentativo di riaffermare, ce ne fosse bisogno, un desiderio paritario e automoderato per cui «le donne», bistrattate dalla storia e dall’altro sesso, sono delle svantaggiate da riabilitare e risarcire in tutti i modi possibili. E hanno pari dignità e pari libertà e sono pari in tutto, insomma. Come se cioè all’emancipazione facesse seguito di necessità la libertà ed esistessero «le donne» e «gli uomini», potendone discettare collettivamente quali appartenenti a una specifica categoria o macro-area di riferimento.
Da un punto di vista culturale è tuttavia molto utile sapere, soprattutto per chi non ha frequentato i decenni di produzione critica femminista, lo ha fatto maldestramente o in nome di un saccheggio più o meno consapevole, in che temperie ha attecchito la misoginia. Al centro è infatti quell’odio quasi senza rimedio che andrebbe decostruito rinunciando a una parte dell’esposizione mediatica «esperta» e praticando esperienze relazionali di senso. O decidendo di fare proprio di quelle narrazioni, a partire da sé, il tessuto di una discussione pubblica e quindi politica. Da un punto di vista cronologico, è pur vero che il baratro che si presenta è agghiacciante e il volume di Paolo Ercolani ha il merito di averlo messo in luce, con gli strumenti della collazione testuale e di un tragitto storico-culturale a cui tra l’altro viene allegata una vasta e utile bibliografia – in molti casi riportata all’interno del libro e in altri come sfondo teorico.
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