martedì 27 settembre 2016

Agonismo, antagonismo e altro: dal festival della filosofia

Risultati immagini per chantal mouffe nancyIl Politico alla ricerca dell’egemonia 

INCONTRI. Una comunità che prevede solo avversari e non nemici e che cerca di neutralizzare l’antagonismo. Anticipiamo un brano della relazione che la filosofa inglese terrà domenica a Modena all’interno del Festival della Filosofia
Chantal Mouffe Manifesto 16.9.2016, 0:04 
Una delle tesi principali che ho sostenuto nei miei lavori è che le questioni propriamente politiche implicano sempre decisioni che richiedono una scelta tra alternative indecidibili da un punto di vista strettamente razionale. Si tratta di una posizione inammissibile per la teoria liberale, poiché concepisce il pluralismo in modo inadeguato: riconosce che viviamo in un mondo in cui coesistono molteplici prospettive e valori e accetta che sia impossibile per ciascuno di noi – in base a ragioni che ritiene di natura empirica – assumerli tutti, ma immagina che, nell’insieme, queste prospettive e questi valori costituiscano un tutto armonico e non conflittuale. Un pensiero di questo tipo è perciò incapace di dar conto del carattere inevitabilmente conflittuale del pluralismo – che discende dall’impossibilità di conciliare tutti i punti di vista – ed è portato a negare la dimensione antagonista del politico. 
Io sostengo invece che solo quando si assume il politico nella sua dimensione di antagonismo si può cogliere la sfida che la politica democratica deve affrontare. La vita pubblica non potrà mai fare a meno dell’antagonismo poiché riguarda l’agire pubblico e la formazione di identità collettive: essa mira a costituire un noi in un contesto di diversità e di conflitto. Ma per costituire un noi, occorre distinguerlo da un loro. Perciò la questione cruciale della politica democratica non è di giungere a un consenso generalizzato – il che equivarrebbe alla creazione di un noi senza correlazione con un loro – ma di pervenire a stabilire la discriminante noi/loro in modo tale da essere compatibile con il pluralismo. 
Secondo il modello di «pluralismo agonistico» che ho elaborato in The Democratic Paradox (Verso, 2000) e Sul politico (Routledge, 2005), ciò che caratterizza la democrazia pluralista è di instaurare una distinzione tra le categorie di nemico e di avversario. Ciò significa che all’interno del noi che costituisce la comunità politica, colui che si oppone non sarà considerate come un nemico da uccidere, ma come un avversario la cui esistenza è legittima. Le sue idee saranno vigorosamente combattute, ma il suo diritto di difenderle non sarà mai messo in questione. La categoria di nemico tuttavia non scompare, poiché continua a essere pertinente nei confronti di quanti mettono in discussione i principi stessi della democrazia pluralista e non possono pertanto far parte dello spazio agonistico. 
Dopo avere distinto così tra antagonismo (la relazione amico/nemico) e agonismo (la relazione tra avversari), siamo in grado di comprendere perché lo scontro agonistico, lungi dal rappresentare un pericolo per la democrazia, ne sia in realtà la condizione stessa di esistenza. La democrazia non può certo sopravvivere senza certe forme di consenso – che devono riguardare l’adesione ai valori etico-politici che costituiscono i suoi principi di legittimità e le istituzioni nelle quali si inscrivono – ma deve soprattutto permettere al conflitto di esprimersi e ciò richiede che i cittadini abbiano davvero la possibilità di scegliere tra reali alternative. 
È necessario a questo punto introdurre la categoria di egemonia che ci consentirà di render conto della natura della lotta agonistica. Per cogliere il politico come possibilità sempre presente dell’antagonismo, è necessario riconoscere l’assenza di un fondamento ultimo e l’indecidibilità che permea ogni ordine sociale. È proprio a questo che fa riferimento la categoria di egemonia, segnalando che ogni società è il prodotto di pratiche che mirano a istituire un ordine in un contesto di contingenza. Ogni ordine sociale è dunque di natura egemonica e la sua origine è politica. Il sociale è costituito da pratiche egemoniche sedimentate, cioè da pratiche che nascondono gli atti originari della loro istituzione politica contingente e che sembrano procedere da un ordine naturale. Questa prospettiva rivela che ogni ordine sociale risulta dall’articolazione temporanea e precaria di pratiche contingenti. Le cose sarebbero sempre potute essere diverse e ogni ordine viene instaurato attraverso l’esclusione di altre possibilità. È sempre l’espressione di una struttura particolare di relazioni di potere, da cui il suo carattere politico. Ogni ordine sociale che in un dato momento viene percepito come «naturale», così come il «senso commune» che lo accompagna, è in effetti la risultante di pratiche egemoniche sedimentate e non è mai la manifestazione di un’oggettività esterna alle pratiche attraverso le quali è stato instaurato. 
Quel che è in gioco nella lotta agonistica è la configurazione stessa dei rapporti di potere che strutturano un ordine sociale e il tipo di egemonia che costruiscono. Si tratta di uno scontro tra progetti egemonici opposti, che non possono mai essere razionalmente conciliate. La dimensione agonistica è dunque sempre presente, ma è messa in scena attraverso un confronto le cui procedure sono accettate dagli avversari. Il modello agonistico che propongo riconosce il carattere contingente delle articolazioni egemoniche che determinano la specifica configurazione di una società in un dato momento e il fatto che, in quanto costruzioni pragmatiche e contingenti, esse possono sempre essere articolate e trasformate dalla lotta agonistica. A differenza dei modelli liberali, questa prospettiva agonistica tiene conto del fatto che ogni ordine sociale è politicamente istituito e che il terreno degli interventi egemonici non è mai neutrale, poichè è sempre il prodotto di precedenti pratiche egemoniche. Per quanto riguarda lo spazio pubblico, lungi dall’essere inteso – come per esempio in Habermas – quale terreno privilegiato per la ricerca del consenso, il mio approccio agonistico lo concepisce come il campo di battaglia dove i progetti egemonici si scontrano, senza possibilità alcuna di riconciliazione finale. (Traduzione di Michelina Borsari)

L’agone del pensiero critico 
Festival della filosofia. Anticipiamo stralci della relazione che il filosofo francese terrà all’annuale appuntamento di Modena, Carpi e Sassuolo. Quest’anno il tema scelto è l’«agonismo»

Jean-Luc Nancy Manifesto 15.9.2016, 0:30 
Perché oggi si parla tanto spesso di «pensiero critico»? Con questo nome si vuole indicare un pensiero che si sottrae al presunto «pensiero unico», a una dimensione, non contestabile. Ma questo pensiero, che viene accusato di imporsi abusivamente come la via unica della globalizzazione della libera concorrenza – generando discriminazioni ovunque, con le sue appropriazioni senza controllo – questo pensiero e tutto il sistema tecnico-economico che lo sostiene si è dispiegato a partire dal venir meno di una lunga serie di pensieri critici (o «alternativi», come si è cominciato a chiamarli). Si deve dunque ritrovare una capacità critica che sarebbe andata perduta per sbaglio? Ma resterebbe ancora da capire perché e come questa perdita sia avvenuta. 
La critica discerne, distingue e consente di suddividere gli oggetti di pensiero in ricevibili e non-ricevibili. Alcune grandi tappe segnano la storia filosofica di questo concetto. Immanuel Kant distingue i fenomeni (costruiti da operazioni dell’intelletto congiunte ai dati della sensibilità) dalle rappresentazioni della realtà in sé, che non sono sottoposte a questa costruzione. Marx distingue la sequenza di produzione, scambio e appropriazione secondo i momenti dell’idea hegeliana dalla stessa sequenza secondo le condizioni reali, in un dato momento storico, della proprietà dei mezzi di produzione. Se c’è per Husserl una «crisi delle scienze europee» è perché le scienze non possono più pretendere di indicarci il «senso dell’esistenza», che va dunque distinto dalla loro scientificità. Con la Critica della ragione dialettica, Jean-Paul Sartre vuole distinguere, rispetto alla razionalità delle scienze, una «ragione nuova», aperta alla «comprensione dell’uomo da parte dell’uomo». Infine, per tutta la durata di questa lunga sequenza e dal XVII secolo, la critica letteraria e artistica distingue tra opere conformi a programmi già classificati e opere che creano una forma inedita, forse mal identificabile, ma riconoscibile come dotata di virtù estetica. 
Ciascuno di questi orientamenti critici implica il ricorso a un criterio o a un sistema criteriologico. La sperimentazione scientifica è definita dalla misura, il valore del prodotto dalla relazione col suo produttore, la virtù estetica dalla messa in opera di una certa idea di bello o di sublime. Ciascuno di questi criteri chiama in causa a sua volta una definizione preliminare: la misura e il suo calcolo, il valore dell’uomo in quanto produttore della propria esistenza, il bello o il sublime definiti – per esempio – dal lato dell’armonia oppure da quello dell’irregolarità. 
In un certo senso Kant, Marx, Husserl e tutti i grandi critici sapevano da sempre che il loro criterio o la loro criteriologia implicita erano un impossibile (l’incondizionato, l’uomo totale, il logos). Spetta a noi decidere di esporci ad esso, piuttosto che «capirlo» di nuovo. 
Esporci ad esso presuppone di opporsi al possibile e opporsi richiede lo scontro e il combattimento. C’è dunque un nemico. Kant, Marx, Husserl hanno avuto dei nemici (la metafisica, l’economia politica, la fatica dello spirito) e pertanto hanno capito che la critica non deve essere «solo un bisturi ma un’arma» (Marx). Con Marx questa arma è diventata materiale. «L’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi; la forza materiale può essere abbattuta solo dalla forza materiale». 
Tuttavia la critica delle armi ha finito per rovesciare il senso del suo genitivo: da soggettivo (critica attraverso le armi) si è dimostrato oggettivo (messa in discussione delle armi). In effetti l’uso critico delle armi si è fatto trascinare dalla propria forza in un dominio che non ha conservato in sé l’arma della critica e l’appello all’impossibile. Al contrario, il «troppo possibile» del dominio ha bloccato l’apertura verso l’impossibile. La critica attraverso le armi ha smontato l’arma della critica. E infine la critica delle armi è diventata il commercio delle armi: non solo la loro produzione per denaro, ma il loro uso per un dominio esercitato innanzitutto dalla morte e su dei morti. 
La crisi allora è tornata, ma solo come nome della divisione interna del «troppo possibile»: la produzione che sa di non produrre l’uomo, l’uomo che sa di non esporsi all’impossibile o di confonderlo con il «troppo possibile». Il capitalismo diventa nemico di se stesso e si fa la guerra. L’Impero si divide contro se stesso. Si pretende di ritrovare o recuperare questo o quell’elemento normativo – un capitalismo regolato, una democrazia virtuosa, un uomo umanista, un progresso controllato, uno sviluppo sostenibile – ma si fa appello a qualcosa che è già stato criticato e autocriticato da cima a fondo… 
Nella Roma degli stoici, degli epicurei e degli scettici non si smetteva mai di criticare il corso delle cose e degli affari. Ma la crisi finì per spazzare via le critiche e spuntò un’altra cosa, inedita e come impossibile, chiamata «cristianesimo». È lui che oggi sperimenta la crisi del suo infinito, che non maschera più le discriminazioni sempre più gravi che fomenta. Perciò anche questa crisi deve essere sottoposta a critica, in quanto nasconde e ottura il senso dell’impossibile e l’impossibilità del senso. Ma in fondo questa critica è già fatta. Non cessa di farsi ogni giorno e al tempo stesso di sapersi anch’essa in crisi. Traduzione di Michelina Borsari


Neuroni mirror e facoltà di negare 
FESTIVAL FILOSOFIA. Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività. L’anticipazione del contributo che il filosofo discuterà a Carpi (Piazza Martiri, ore 16.30) domani, ultima giornata del fitto programma di ospiti dell’edizione 2016. «In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia»

Paolo Virno Manifesto 17.9.2016, 0:05 
L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali. 
In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione. 
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione. 
In origine era il «noi» 
Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon. 
Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore. 
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano. 
Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto». 
Questo «non» è un uomo 
Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione. 
Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror. 
Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane». 
La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale». 
La sfera pubblica? Una cicatrice 
Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale. 
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati. 
La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana». 
È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».

“Si corre per vincere, anche San Paolo invitava a colpire duro”Il filosofo: i greci ci hanno dato la linea Francesca Sforza Stampa 15 9 2016
Quest’anno si corre, al Festival della Filosofia di Modena. Si corre per capire, per restare al passo con il tempo inquieto della contemporaneità. E anche, un po’, per vincere. Remo Bodei, professore di Filosofia presso la University of California a Los Angeles e Presidente del comitato scientifico del Festival, è uno dei protagonisti di questa maratona del pensiero.
Professore, partiamo dall’origine greca della parola agonismo, cosa resiste dell’antica accezione del termine, e cosa invece è andato perduto o si è trasformato?
«“Agon” è la lotta in vista di una vittoria, in tutte le sue accezioni, fino all’agonia, che è la lotta estrema contro la morte. Direi che grosso modo si è conservato l’essenziale dell’accezione greca, che anzi si è estesa dal campo di partenza, quello sportivo, ad altri ambiti, penso ad esempio a quello economico, che vede tra l’altro l’uso di un modello di origine sportiva di tipo specifico, la corsa. Se pensiamo poi alla concorrenza, come non ricordare la metafora agonistica usata da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi? “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, scrive San Paolo, sottolineando che la differenza, semmai, è nel fatto che gli atleti si muovono per “una corona che appassisce”, mentre i cristiani sono chiamati per “una che dura per sempre”. Interessante notare il suo riferimento al pugilato - “Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria”, cioè invita a colpire in modo da fare male».
In che cosa differisce l’agonismo religioso da quello laico?
«Più che di differenze parlerei di una ripresa laica dello stesso tema, ad esempio con Hobbes, in cui la gara non è conquistare il paradiso, ma vincere sugli altri al punto che la felicità consiste nel sorpassare, l’infelicità nel rimanere indietro, e la fine della corsa - l’abbandono della gara - coincide con la morte. Non c’è nessun premio, nella visione laica di Hobbes, si corre per vincere».
Nella condizione agonistica prevale il cimentarsi con la vittoria (e il rassegnarsi alla sconfitta) o il partecipare alla lotta e alla competizione?
«Se uno prendesse alla lettera Pierre de Coubertin si corre per gareggiare e confrontarsi, ma da un punto di vista più essenziale la concorrenza è spietata, quindi si corre per vincere. La cosa interessante che emergerà da alcune lezioni è che sul piano animale c’è una forma di altruismo che fa bene alla competizione, e anche in campo economico, la cosiddetta economia altruistica, insegna che non sempre è un bene stravincere. Ne parlerà Massimo Recalcati in un suo intervento: anche essere sconfitti aiuta a crescere».
È pensabile una declinazione equa dell’agonismo?
«Nei cicli vitali ci sono sempre i salvati e i sommersi, per dirla con Primo Levi, e la conquista della democrazia vorrebbe che ci fossero, intorno a noi, non nemici, ma avversari. Il problema è nelle condizioni di partenza: è vero che bisogna crearle, in modo tale che poi ognuno sia messo in grado di fare la sua corsa, ma spesso è un’ipocrisia».
Quali sono gli autori che meglio di altri hanno illustrato la dimensione dell’agonismo?
«Nella filosofia è davvero una dimensione iniziale. Pitagora paragonava la contemplazione filosofica con l’andare allo stadio a guardare i contendenti - aggiungendo che se c’era una differenza consisteva nel fatto che la contemplazione filosofica era gratis, mentre allo stadio si doveva pagare. Nei cosiddetti presocratici, il “polemos”, la guerra, è il padre di tutte le cose, segna l’inizio per eccellenza. E da questo discendeva non solo una filosofia, ma un modo di vita per cui la disciplina, l’entrare in conflitto con se stessi, il sottoporsi a esercizi fisici e spirituali, rafforza l’individuo».
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