martedì 18 ottobre 2016

Allegramente verso la quarta o quinta guerra mondiale


I soldatini italiani in regalo ad Obama 
Tommaso Di Francesco Manifesto 18.10.2016, 23:59 
Tra i tanti regali che Matteo Renzi porterà oggi alla scintillante serata con Barack Obama primeggiano le ultime scelte militari, alla spicciolata, di Palazzo Chigi. A cominciare dall’ultima decisione di inviare 140 soldati alla frontiera russa. «Volevamo invaderla» ha scherzato l’acuto presidente del Consiglio per rispondere all’ira russa che accusa Europa e Occidente di «atteggiamento distruttivo». 
Il fatto è che sono 140 militari italiani che vanno al seguito di quattro battaglioni della Nato, in Lettonia, di fronte all’enclave di Kaliningrad. La giustificazione del segretario dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg – nomina sunt res – è stata poco veritiera: «Lì Mosca ha installato i suoi missili antimissili». È vero, ma lo ha fatto per reazione all’allargamento a est della Nato, strategia incessante perseguita dai comandi statunitensi con accodati i governi europei, che ha provocato prima la deriva in Ucraina – con il capo della Cia John Brennan in piazza nel 2013 a dirigere la rivolta – e dopo la decisione atlantica di installare in Polonia e Romania il sistema di Scudo antimissile. 
Che volete che sia, perché l’arguto Renzi resta convinto di potere comunque continuare nella strategia, già democristiana e berlusconiana, di tenere due piedi in due staffe. Non associandosi magari alla richiesta di sanzioni alla Russia che avanzano – per il ruolo di Mosca in Siria – Gran Bretagna, Francia, Germania e gli Stati uniti.
Ma sempre inviando nostri soldatini di piombo nello scacchiere. Per i dividendi petroliferi di guerra e intanto continuando a fare affari con l’economia russa. È proprio l’ultimissimo dei regali in tuta mimetica, piedi a terra. 
Perché poco prima, a settembre c’è stata la decisione di inviare 300 altri militari italiani a Misurata, nelle retrovie dell’assedio di Sirte (ancora non caduta). Con i quali il governo italiano «ippocrita» ha formalmente schierato i soldati a protezione di una missione sanitaria nella prima retrovia della guerra, tantopiù che siamo tra i protettori di una parte libica, il nuovo governo di Tripoli di Al Serraj. 
Ma probabilmente la scelta più importante è stato l’invio, a dicembre 2015, di 450 soldati italiani, diventati poi 700, a protezione della diga di Mosul già conquistata dall’Isis e poi liberata dalle milizie sciite. La decisione torna in evidenza in queste ore, con l’inizio dell’offensiva anti-Isis, carica di maggiori rischi e insieme più che utile come gentile cadeau nella festa con Obama, dove qualche omaggio italiano prezioso va pure portato. 
Aveva detto Matteo Renzi: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece, proprio dopo la chiamata del presidente Usa, aveva annunciato da Porta a Porta l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, delle truppe italiane. Una svolta del fino ad allora «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio. Perché si trattava di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa quantità, tanto che dà l’appalto dei presidi di guerra proprio all’Italia e ad altri Paesi atlantici, tutti accodati sulla scia delle guerre aeree, dall’alto dei cieli, dei droni e dei jet americani. Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi Europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato la Siria «perché Assad se ne doveva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico. 
Senza dimenticare che siamo andati in armi a Mosul per difendere l’importante struttura della mega-diga. Un presidio militare per una ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che doveva prendere una committenza per sistemare la diga. Finalmente una chiarezza sull’«umanitario»: in armi per il made in Italy e contro la concorrenza tedesca che mirava all’appalto. La diga era diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione dalla Siria alla provincia irachena di Anbar con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi fece il suo proclama al mondo. 
Una zona dunque rischiosa che, nonostante sia accerchiata dalla controffensiva partita ieri – ma da eserciti (quello turco) e milizie sciite, kurdo-irachene, con i governativi e le forze speciali Usa che rischiano di farsi la guerra fra loro – resta ancora nelle mani dell’Isis. L’Italia ha inviato centinaia di soldati a presidiare una zona così esplosiva che, a paragone, quella di Nassiriya sembrerà una passeggiata. 
Il Presidente del Consiglio aveva detto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece almeno in Lettonia e prima in Libia e in Iraq, siamo corsi al seguito della strategia Usa. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre da Mosul già comincia la nuova fuga. L’Onu prevede che fuggiranno ancora centinaia di migliaia di persone dopo quelle del giugno 2014. Quanto a «hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi, state tranquilli: il Sultano Erdogan propone una «safe zone» già nella Siria da lui «liberata», da poter utilizzare all’occasione come «zona cuscinetto» per occupare il territorio siriano e combattere i kurdi. Senza dimenticare la continuazione anche nostra della guerra in Afghanistan che dura da più tempo di quella del Vietnam.
Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi.



La prova più difficile per la coalizione 

Giuseppe Cucchi Busiarda 18 10 2016
Il governo iracheno ha già schierato trentamila uomini, il meglio delle sue forze regolari, imperniati su Unità Speciali e sulla 15a Divisione. Le milizie sciite, integrate da pasdaran iraniani e hezbollah libanesi, hanno in linea circa novemila combattenti. I peshmerga curdi pronti a muovere sono circa quattromila. Poi ci sono i turchi, in numero indeterminato. Erdogan ha dichiarato che attaccheranno Mosul oggi e non appare affatto disposto a cambiare idea nonostante le proteste ed i dinieghi degli iracheni che non amano molto l’idea di un vicino tanto ingombrante che si installa a casa loro. Anche gli occidentali sono presenti. Gli Usa hanno ulteriormente rinforzato la loro forza militare nell’area, che ora supera i cinquemila militari, e si apprestano a concentrare su Mosul tutto l’appoggio di fuoco aereo che può fornire la variegata coalizione di cui sono alla guida. Nell’attesa dell’attacco continuano inoltre l’eliminazione mirata di personalità di rilievo dello schieramento avversario. Guerra di droni: terribilmente disumana forse, ma al tempo stesso particolarmente efficace. I francesi si affidano invece al fuoco terrestre e sono in linea con una batteria di semoventi d’artiglieria. 
Anche noi italiani ci siamo. I nostri uomini che proteggono i lavori della ditta Trevi alla diga di Mosul operano a circa trentacinque chilometri dal centro della città che appare destinata a divenire il fuoco dei combattimenti. Nell’area interverrà poi anche il nostro reparto elicotteri incaricato, nell’ambito della coalizione internazionale, di recuperare personale isolato o piccole unità che rischino di cadere in mano nemica. In fin dei conti la cosa più importante sembra sia divenuta il fatto di esserci, di aver preso parte a questa battaglia per la riconquista di Mosul che tutti danno per scontata nel suo esito ma che comunque potrebbe rivelarsi più lunga di quanto previsto ed estremamente costosa.
Di fronte agli uomini che si dispongono ad attaccare è infatti schierata a difesa di Mosul una forza di entità valutata fra i cinque ed i settemila combattenti. Considerata l’importanza strategica e simbolica della battaglia che si annuncia si tratterà quasi sicuramente della élite delle forze del Califfato. Uomini duri, con un curriculum di tutto rispetto, spesso con anni ed anni di combattimenti dietro le spalle ed animati da un fanatismo religioso che li porta a considerare legittimo ogni eccesso e annulla in loro ogni paura della morte. 
Oltretutto l’Isis ha avuto a disposizione tutto il tempo necessario per fortificare Mosul a difesa. Le scarse notizie che provengono dalla città parlano di strade ostruite, reti di bunker, mine disseminate più o meno ovunque, cecchini con il dito già sul grilletto ed automezzi bomba artigianalmente blindati pronti ad intervenire a centinaia. Un’altra voce racconta inoltre della partenza dalla città, con direzione Raqqa, di tutti i combattenti sposati e delle loro famiglie. A Mosul sarebbero quindi rimasti solo coloro che non hanno legami familiari che potrebbero rivelarsi condizionanti. Se la notizia fosse confermata si tratterebbe di un indizio in più della determinazione delle forze del Califfo a resistere sino all’ultimo.
Almeno sulla carta i rapporti di forza appaiono particolarmente favorevoli alle forze regolari irachene ed ai loro alleati. Quel rapporto di tre ad uno fra l’attaccante ed il difensore che, come si insegnava in tutte le Accademie del mondo, era necessario perché l’attacco potesse avere successo appare qui largamente superato. Se poi si guarda alla potenza di fuoco non c’è assolutamente alcun confronto possibile tra quanto possono esprimere i due avversari. A favore dei difensori gioca però una serie di fattori che appare, almeno a priori, difficilmente valutabile. Il primo consiste nella determinazione a combattere sino all’ultimo accettando a cuor sereno, se necessario, anche l’ipotesi di perdere la vita in battaglia. Si tratta di un netto elemento di superiorità degli uomini del Califfo rispetto a quelli della coalizione, con l’unica eccezione forse dei peshmerga curdi. Il secondo punto è quello dell’esperienza, e anche in questo caso la bilancia pende a favore delle forze dell’Isis. La terribile fragilità dimostrata in altre occasioni dall’esercito iracheno giustifica, fra l’altro, ogni timore riferito a questo particolare aspetto. Vi è poi il fatto che si combatterà all’interno di una grande città ed in presenza di una popolazione civile molto numerosa e indubbiamente destinata a essere utilizzata come ostaggio o scudo umano ogni volta che ciò apparirà conveniente. Cosa potrà succedere in simili circostanze non lo sappiamo con sicurezza, anche perché il combattimento in centri abitati validamente ed ostinatamente difesi è ancora una esperienza che manca alla strategia ed alla tattica occidentale. Gli esempi della difesa di Sirte, costata un pesante contributo di sangue alle milizie di Misurata, nonché di quella di Aleppo, che ha costretto gli attaccanti a tentare di piegare la città con una terribile escalation di sangue e orrore, suonano come un monito preventivo di cui si dovrà certamente tener conto.
Infine bisognerà sempre ricordarsi come le coalizioni siano tanto più fragili quanto più divergenti fra loro risultino gli obiettivi dei singoli partecipanti. Speriamo quindi che il buon senso da un lato, la mediazione degli Stati Uniti dall’altro, riescano a tenere insieme sino alla conquista di Mosul ed oltre la variegata e contingente alleanza che ora si appresta ad attaccarla. Altrimenti sarà la coalizione a sconfiggere se stessa e la riconquista di Mosul dovrà essere rinviata a tempi migliori.
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